THE FOOTBALL CORNER

“Mi innamorai del calcio come mi sarei poi innamorato delle donne: improvvisamente,
inesplicabilmente, acriticamente, senza pensare al dolore o alla sconvolgimento che ciò avrebbe portato con sé”

 

(Nick Hornby)

 
 

I was a pre-teen naive interist
ovvero
COME IL REAL MADRID HA ROVINATO LA MIA PREADOLESCENZA

Io ho iniziato a seguire il calcio relativamente tardi, a nove/quasi dieci anni, complici le partite del ‘Mundial’ di Spagna (quello vinto dall’Italia) che davano in televisione. Appassionatomi al gioco, iniziai sia a praticarlo personalmente (squadrette giovanili, oltre al calcio da strada e/o oratorio in cui già mi cimentavo, essendo uno se non l’unico passatempo aggregativo per i bambini della mia età all’epoca) sia a seguire quello professionistico. Scelsi l’Inter come squadra per cui tifare (seguendo l’esempio di mio nonno materno, grande tifoso nerazzurro ed ex giocatore di serie minori, che fra le altre cose segnò un gol alla sua squadra del cuore durante un’amichevole. Io come mio massimo ho visto sulla ‘”Provincia” la foto di un portiere di Eccellenza a cui in un torneo estivo avevo segnato due gol un paio di anni prima…), non sapendo a cosa andavo incontro: mi venne detto che sì, in quegli anni stavamo vincendo pochino, però presto sarebbero tornati i tempi della Grande Inter come quella targata Moratti padre degli anni sessanta e il mondo sarebbe tornato ad essere di dominio nerazzurro. Durante i miei primi sette anni da tifoso l’Inter non vinse nulla. E furono anni duri, che condividevamo coi cugini milanisti (il mio primo anno da tifoso lo vissi col Milan in serie B), due squadre che erano state ai vertici mondiali una quindicina di anni prima e che ora si arrabattavano in zona Uefa con puntate in zona retrocessione (loro). Se però l’Italia era dominio della solita Juventus di marca Trapattoniana e della Roma di Falcao, restava sempre l’Europa e in quella stagione 82/83 l’Inter del presidente Ivanohe Fraizzoli partecipava alla Coppa delle Coppe, avendo vinto la stagione prima la Coppa Italia battendo il Torino nella doppia finale (io iniziai a tifare Inter circa tre mesi dopo…). Al primo turno incontrammo gli slovacchi (all’epoca cecoslovacchi) dello Slovan Bratislava e fu allora che iniziò la mia fascinazione per la geografia applicata al calcio (come più tardi la applicherò alla musica); Cecoslovacchia, terra lontana e misteriosa, come per noi bambini di paese era comunque ogni nazione, a parte la vicina Svizzera. Vincemmo 2-0 a Milano (fu la partita in cui il mio idolo Beccalossi sbagliò due rigori, quella immortalata nel monologo di Paolo Rossi, il comico) e perdemmo 2-1 lassù ma solo nel finale, qualificandoci tranquillamente per il secondo turno. Era un’Inter discreta, ma con qualche lacuna: allenata da Rino Marchesi, aveva i suoi punti di forza in un bomber affidabilissimo come Spillo Altobelli, in un fantasista discontinuo ma spettacolare quando in vena come il suddetto Becca, in una difesa capitanata da due freschi campioni del mondo, Collovati e lo Zio Bergomi, e in ottimi mediani come Bagni (l’attuale commentatore tv) e Lele Oriali, anche lui campione del mondo (nell’Inter ce n’erano sei, i tre appena citati più Altobelli, Marini e Bordon, secondo portiere azzurro). Era anche il primo anno coi due stranieri per squadra (dopo la riapertura delle frontiere, in senso di calciomercato, di un paio di stagioni prima), l’Inter aveva appena ceduto l’austriaco Prohaska (cognome che circa quindici anni dopo darà il nome ad un gruppo hardcore connazionale del giocatore) alla Roma (con cui il baffuto centrocampista vincerà subito lo scudetto…) e si era affidata a due new entry, il tedesco Hansi Müller (trequartista di buonissimo livello, ma che finì spesso a pestarsi i piedi col Becca e a litigare con Spillo) e il brasiliano Juary (che, dopo un paio di ottimi campionati nell’Avellino, soffrì il passaggio ad un palcoscenico più impegnativo e fece una stagione piuttosto deludente). Una buona squadra a livello di undici titolare, ma priva di alternative efficaci (un po’ come quest’Inter 2012/2013 insomma, anche se in quella di allora non si infortunava metà squadra…). In campionato arrivammo terzi, stando sempre lì lì per inserirci nella lotta scudetto fra Juve e Roma, ma senza mai riuscirci realmente, mentre in Coppa Italia raggiungemmo le semifinali dove venimmo eliminati da un’affamatissima Juventus (aveva appena perso la finale di Coppa Campioni ad Atene contro l’Amburgo di Felix Magath), che poi vincerà il trofeo. Ma torniamo all’autunno 1982, al secondo turno (gli ottavi) di Coppa delle Coppe venimmo sorteggiati contro gli olandesi dell’AZ ‘67, nome che a me già allora ricordava una nota marca di dentifricio. Fummo sconfitti 1-0 nell’andata ad Alkmaar (con gol di un certo TikTak…), ma ribaltammo il risultato al ritorno con un perentorio 2-0 aperto da un gol di Juary, uno dei pochi segnati in maglia nerazzurra, quattro a fine stagione contando tutte le competizioni. Nota di colore: la peculiarità del simpatico brasiliano era l’esultare dopo un gol danzando in circolo attorno alla bandierina del corner (danza ripresa da Lino Banfi in ‘Al bar dello sport’ quando vince al Totocalcio ed esulta come i calciatori dell’epoca). Di lui ricordo soprattutto una frase pronunciata da un anziano spettatore di tribuna dopo aver visto il brasiliano tentare di colpire di testa con effetti tragicomici una palla quasi rasoterra: “ma varda el neghér, i g’han dì de duperà la crapa e lü fa qui rop lè…” (trad. ‘ma guarda il negro, gli han detto di usare la testa e lui fa quelle cose lì…’), letta su un periodico sportivo dell’epoca. Juary passò all’Ascoli la stagione successiva e alla Cremonese quella dopo ancora, poi finì al Porto dove rimase un triennio vincendo un campionato portoghese e soprattutto la Coppa dei Campioni ’87 segnando il gol decisivo nella finale contro il Bayern Monaco: chissà cosa disse in quel momento, se ancora in vita, l’anziano spettatore di cui sopra! Passato il turno, la Coppa delle Coppe andava in letargo fino a marzo (contrariamente alla Coppa Uefa che, avendo più squadre partecipanti, sosteneva un terzo turno fra fine novembre e primi di dicembre), mese in cui avremmo affrontato il temibile Real Madrid, squadra che come noi viveva un momento di leggera decadenza, ma che aveva comunque vinto la Copa del Rey (equivalente della nostra Coppa Italia) la stagione precedente, mentre nei primi due turni di questa Coppa delle Coppe aveva eliminato gli sconosciuti romeni del Baia Mare (club ora defunto, che strappò uno 0-0 nella gara interna all’andata, perdendo poi 5-2 in Spagna, e che, pur giocando nella serie b romena, andò in Coppa delle Coppe dopo aver perso la finale di Coppa di Romania contro la solita Dinamo Bucarest che però avrebbe partecipato alla Coppa dei Campioni in quanto campione nazionale) e gli ungheresi dello Ujpesti Dozsa. Io di questo Real Madrid avevo letto parecchio nei miei primi mesi da tifoso, mesi in cui, bulimico di notizie, divoravo qualsiasi giornale e/o rivista in tema che mi capitasse a tiro, e sapevo delle storiche sfide contro l’Inter negli anni sessanta: la finale di Coppa dei Campioni a Vienna vinta 3-1 da noi, la nostra vittoria per 2-0 a Madrid con annessa qualificazione, loro che ci eliminano pareggiando a San Siro…tutte sfide di Coppa dei Campioni. Le due squadre si erano affrontate nuovamente due stagioni prima, 80/81, ancora per la Coppa dei Campioni, in semifinale, e in finale ci arrivò il Real, forte del 2-0 di Madrid contro l’1-0 per l’Inter al ritorno. C’era quindi una certa attesa fra la tifoseria nerazzurra, la potevo notare nelle parole e negli occhi di mio nonno, di mio zio e di mio cugino, tutte persone che avevano vissuto quegli elevati momenti della storia interista. E si arriva al giorno della partita, andata a Milano, San Siro strapieno. Sulla Rai fanno vedere Aston Villa-Juventus di Coppa dei Campioni… (o era Telemontecarlo e sulla Rai c’era Roma-Benfica di Coppa Uefa? Adesso ho il dubbio). All’epoca le partite di tutte e tre le coppe si giocavano esclusivamente di mercoledì, per cui in caso di concomitanza di orari si trasmetteva una partita sola. Ok, l’Aston Villa era la squadra detentrice del trofeo (sì, l’Aston Villa ha vinto una Coppa dei Campioni, capitava anche questo in quegli anni in cui economicamente il pianeta calcio era ancora vicino al pianeta terra), però, cristo, vuoi mettere Inter-Real Madrid?? E invece niente, Juve in televisione e radiolina all’orecchio per seguire la partita del San Siro-Meazza. Più tardi si potrà vedere la sintesi, sempre su mamma Rai. Marchesi mette in campo l’undici nerazzurro (nota di cronaca: erano quegli anni in cui i giocatori dell’Inter indossavano i pantaloncini azzurri) senza il Becca (sarà Antonio Sabato ad indossare la maglia numero 10), ma con Müller e Juary. Dall’altra parte, agli ordini nientepopodimenochè di Alfredo Di Stefano (lo storico campionissimo del Real anni 50 e 60, più di duecento gol in maglia bianco-malva), troviamo fra gli altri Camacho il futuro allenatore della roja (la nazionale spagnola) e dello stesso Real, la veloce ala Juanito (che morirà in un incidente stradale nei primi anni novanta), l’olandese Metgod, il tedesco Stielike e il bomber Santillana. L’Inter parte forte e dopo un quarto d’ora Oriali ci porta in vantaggio. Poi succede che Altobelli fa il 2-0, anzi farebbe, dato che l’arbitro turco Tokat lo annulla per un fuorigioco assolutamente inesistente. Nella ripresa tiraccio da fuori area di Gallego (quello che verso fine carriera giocherà una stagione nell’Udinese) e mega-papera di Bordon per l’1-1 che sarà il risultato finale. Al triplice fischio lancio di oggetti dagli spalti all’indirizzo della terna arbitrale e conseguente squalifica del campo per due turni europei (film già visto, stessa cosa dopo l’eliminazione dell’81 sempre contro il Real, anche se lì pare che il lancio, di arance e verdure varie -!!!-, fosse rivolto più ai madrileni, specie al portiere Agustin, che ai giudici di gara). Anche per il ritorno niente copertura televisiva, la Rai trasmette Juventus-Aston Villa, partita dall’esito incerto (…dai, 2-1 per la Juve in Inghilterra all’andata, in quegli anni il cui fattore-campo contava 9,5 su 10…difatti finirà 3-1 per i gobbi che si disferanno di Cowans e soci in totale tranquillità). Quindi Juve sul video e Inter alla radio, per poi guardare la sintesi della partita più tardi, once again. I nerazzurri (da un paio di partite di campionato si era ritornati ai pantaloncini neri) rispetto all’andata schierano il ventenne Riccardo Ferri (ospitato poi sulle pagine di ‘Nessuno Schema’ # 9 per un’intervista datata 2001, ricordate?) e il rientrante libero Bini in difesa; sempre in campo il duo Müller-Juary, sempre fuori il Becca, maglia numero 10 sulle spalle di Lele Oriali. Di Stefano cambia il portiere ed inserisce fra i dieci di movimento Salguero e Pineda. L’Inter va in vantaggio con un gol spettacolare di Altobelli, poi l’arbitro (il cecoslovacco Christov) nega un rigore solare sullo stesso Altobelli… Il Real prende campo e a inizio ripresa pareggia con un bolide su punizione proprio di Salguero, poi cinque minuti dopo Santillana sbuca dietro a Collovati uccellandolo come un pirla (ogni volta che lo sento pontificare in tv sull’errore di qualche difensore mi ricordo di questo gol…) e di testa fa il 2-1 che resisterà fino alla fine. Marchesi prova ad inserire Beccalossi e Bergamaschi (ragazzo cresciuto nel vivaio nerazzurro che tirava delle bombe incredibili e che anni dopo verrà accusato di trafficare in droga, accusa poi caduta), ma il risultato non cambia. Nel finale fra le fila madrilene entra un Del Bosque (l’attuale commissario tecnico della nazionale spagnola, già mister dello stesso Real Madrid) ormai a fine carriera. Il Real (che in semifinale eliminerà l’Austria Vienna) verrà poi sconfitto nella finale di Goteborg dagli scozzesi dell’Aberdeen (sì, a quell’epoca poteva succedere anche questo), allenati da un (non ancora Sir) Alex Ferguson, che tre anni dopo passerà alla panchina del Manchester United da cui non si è ancora alzato a tutt’oggi. Trascorrono due stagioni, sembrano secoli per chi come me passa dall’avere dieci anni a contarne dodici, e Inter e Real Madrid si ritrovano di fronte, stavolta nelle semifinali di Coppa Uefa della stagione 84/85 appunto. Rispetto alla sfida precedente l’Inter ha cambiato qualcosa: in porta c’è Walter Zenga, ragazzo della curva nord e secondo portiere un paio d’anni prima e i due stranieri sono arrivati all’inizio di questa stagione: uno è l’irlandese Liam Brady (ex stella dell’Arsenal, già avvezzo alla serie A italiana dopo quattro stagioni divise fra Juve e Sampdoria), regista dal lancio preciso al millimetro oltre che rigorista pressochè infallibile; l’altro è Karl-Heinz Rummenigge, l’ex bomber del Bayern Monaco, due volte pallone d’oro e con un palmarés internazionale da lustrarsi gli occhi. Sono inoltre arrivati il Barone Causio, ormai agli sgoccioli di una sfolgorante carriera, e un difensore emergente come Mandorlini, mentre per il resto ci si affida ad una serie di interisti ‘storici’ (Altobelli, Bergomi, Ferri, Marini, Bini, Pasinato e Muraro); sono rimasti Collovati e Sabato, sono partiti Oriali e Beccalossi. L’allenatore è Ilario Castagner, proveniente dal Milan e passato alla storia per il campionato 78/79 senza sconfitte alla guida del Perugia. Ed è cambiato anche il presidente, che adesso è Ernesto Pellegrini, imprenditore nel ramo ristorazione. Le ambizioni sono dichiaratamente di scudetto, con due punte come Spillo e Kalle e un centrocampista di livello internazionale come Brady non ci si può certo nascondere. L’Inter comincia la stagione alla grande impressionando nelle varie amichevoli estive (fra le quali spicca il successo per 1-0 contro la nazionale francese fresca campione d’Europa al Parco dei Principi di Parigi, gol di Collovati. Mancava Platini fra i transalpini, va detto. Sì, una volta capitava che si giocassero amichevoli fra squadre di club e rappresentative nazionali) e vincendo il proprio girone eliminatorio di Coppa Italia con quattro vittorie ed un pareggio. Il campionato sarà abbastanza in linea con queste premesse, solo che nessuno ha previsto lo strepitoso Verona di Osvaldo Bagnoli con cui l’Inter lotterà fino quasi alla fine, salvo mollare un po’ nelle ultime giornate e terminare al terzo posto superata anche dal Torino di Gigi Radice (allenatore dell’Inter la stagione precedente e tornato sulla panchina granata dove aveva conquistato lo storico titolo del ’76). La Coppa Italia vede i nerazzurri arrivare in semifinale dove saranno eliminati dal Milan di Nils Liedholm nella doppia sfida (1-2 e 1-1), Milan che poi perderà la doppia finale con la Sampdoria di Vialli e Mancini, allenata da Eugenio Bersellini, il “sergente di ferro” che aveva guidato i nerazzurri alla conquista dello scudetto ’80. In Coppa Uefa l’Inter al primo turno aveva incontrato i romeni dello Sportul Studentesc (una delle tante squadre di Bucarest), nelle cui fila si distingueva un giovanissimo Gheorghe Hagi (futuro Real Madrid e Barcellona, oltre che Brescia). All’andata l’Inter, priva di Rummenigge, era stata sconfitta per 1-0. Ricordo la partita, trasmessa in diretta Rai alle quattro di un pomeriggio di metà settembre: l’Inter aveva dominato mangiandosi almeno cinque palle gol clamorose, per poi farsi infilare a pochi minuti dalla fine dal centravanti Sandu, un lungagnone che aveva toccato sì e no tre palloni in tutto il match… Al ritorno (che seguii per radio, data la non-copertura televisiva) risultato ribaltato con un 2-0 firmato da una stupenda punizione di Brady e dal gol-qualificazione di Rummenigge a pochi minuti dai supplementari. Nei sedicesimi di finale il sorteggio ci mise di fronte ai Rangers di Glasgow, la storica squadra protestante scozzese, in cui al tempo militavano l’allora giovane bomber Ally McCoist e lo svedese Prytz, poi visto in Italia con le maglie di Atalanta e Verona. All’andata a Milano non c’è storia, 3-0 perentorio da parte di un’Inter in inedita tenuta bianca: Sabato, Causio e Rummenigge rispediscono oltremanica gli scozzesi con le ossa rotte. L’arbitro tedesco Roth annulla per presunto gioco pericoloso un gol in acrobazia dello stesso Kalle che, se fosse stato convalidato, sarebbe passato alla storia. “I capolavori non possono essere annullati!” sentenziò Helenio Herrera (il “Mago” che guidò l’Inter ai trionfi degli anni sessanta) in veste di commentatore su una televisione privata che seguiva il match stile il futuro QuiStudioAVoiStadio (ignoro quale tv fosse, una che comunque qui non si prendeva, io lessi di questa cosa sulla Gazzetta. La partita l’avevo seguita alla radio, vista la solita non-copertura tv da parte della Rai…). Al ritorno (sempre seguito via radio dal sottoscritto per il solito motivo…) i Rangers tentano la rimonta impossibile ed in effetti segnano subito con Mitchell, poi però Altobelli pareggia e agli scozzesi non resterà che la soddisfazione di vincere 3-1 grazie alla doppietta di Iain Ferguson. Ottavi di finale, e qui si comincia a fare davvero sul serio: ci tocca l’Amburgo. La squadra che due anni prima aveva fatto gioire mezza Italia battendo la Juve nella finale di Coppa dei Campioni. Squadra tosta, allenata da quel guru della panchina che fu il compianto Ernst Happel, l’austriaco già c.t. dell’Olanda seconda ai mondiali di Argentina, campione d’Europa col Feyenoord nel ‘70 e che portò il Bruges a giocarsi una finale di Coppa dei Campioni (persa contro il Liverpool). In campo l’eroe di noi anti-juventini Felix Magath, il terzino destro Kaltz gran crossatore (coi suoi cross a rientrare cosiddetti a banana), il centravanti scozzese McGhee, più i vari Wuttke, Jakobs, Schroder, Groh e Rolff, gente dura con cui c’era poco da scherzare. Va detto che non potevamo essere eliminati e farci quindi deridere dagli juventini, io che all’epoca facevo la seconda media temevo moltissimo questa evenienza, evenienza che in caso si fosse verificata avrebbe vanificato anche la recente schiacciante vittoria dell’Inter sulla Juve con un epico 4-0 impreziosito da una doppiettona di Rummenigge [piccolo inciso: erano tempi duri per i giovanissimi tifosi interisti, altro che l’insopportabile bambino Filippo, quello del cartello dove chiedeva all’Inter se poteva vincere per non essere preso in giro a scuola, e questo a inizio primavera del 2012, cioè dopo seiannidicosei a base di 4 scudetti (+ quello “in segreteria”, che facciamo sia un risarcimento almeno per il ‘98, và), 4 coppe italia, 4 supercoppe italiane, 1 mondiale per club e soprattutto 1 champions league! E tu osi rompere il cazzo perché qualche pirla ti prende in giro?? Ma sai che io alla tua età vedevo solo ed esclusivamente i tifosi di altre squadre gioire per qualche titolo? Che la prima vittoria da tifoso l’ho vista a quasi diciassette anni?? E non oso pensare a quei poveri bambini che avevano la tua età nell’era moggiana…]. Comunque, back in ’84: andata ad Amburgo a fine novembre, un freddo allucinante, ricordo che soffiava il vento dal Mar Baltico e, pur avendo seguito la partita (questa finalmente la davano in tv) al calduccio sulla poltrona a casa dei miei zii, ancora adesso a ripensarci sento il gelo nelle ossa, ben ventotto anni dopo! L’Inter parte alla “stragrande” dato che dopo nemmeno due minuti lo Zio Bergomi infila la nostra porta (difesa dal baffuto Recchi in assenza di Zenga) con un clamoroso autogol. Sembra l’inizio della fine e invece l’Inter cresce, comincia a giocare e ad impensierire il portiere Stein con le combinazioni fra Altobelli e Rummenigge. In apertura di ripresa è proprio quest’ultimo a siglare il pareggio con una fucilata terrificante di destro. Sfioriamo un paio di volte il raddoppio e poi prendiamo stupidamente il 2-1 tedesco su un’incursione del giovane Von Heesen. Qualificazione ancora alla portata, ma dura, durissima. Inter-Amburgo del 12 dicembre 1984 è attesa come il Giorno del Giudizio, avremmo lasciato il campo “only in victory or death” come avrebbero detto i Manowar qualche anno più tardi nell’epicissimo e tamarrissimo pezzo parlato ‘The warrior’s prayer’ (la fiaba narrata dal nonno al nipotino che c’è sull’album “Kings of Metal”). La squadra si era riposata, dato che la domenica precedente il campionato osservava una sosta per via di un’amichevole della nazionale (all’epoca succedeva di avere la sosta e subito, dopo quattro giorni, il mercoledì europeo), che aveva battuto 2-0 la Polonia in quel di Pescara, con un Altobelli in gran forma autore anche del primo gol azzurro. Io e i miei giovani compagni di fede nerazzurra eravamo in fibrillazione già da giorni, quella mattina a scuola non riuscivo a pensare ad altro che ad un unico fottuto gol (senza prenderne, beninteso) nella porta tedesca, che mi/ci avrebbe garantito un giovedì mattina a testa alta! Arriva la sera, un quarto d’ora prima io sono già fantozzianamente in trincea a casa dei miei zii. San Siro è stracolmo, uno spettacolo impressionante, tifosi da tutta Italia, striscioni di Inter clubs da nord, centro e sud, e la nord coi Boys S.A.N. e i Forever Ultras che offrono un colpo d’occhio notevolissimo col mega-bandierone dell’epoca che copriva tutta la curva. Com’era San Siro in quelle notti…c’era magia nell’aria, altro che certe gare dei gironi di Champions viste negli anni (o peggio quelle dell’Europa League di adesso). Ai tempi le partite internazionali erano eventi veri e propri, era un calcio realmente internazionale, non come adesso che è tutto globalizzato e non c’è più quell’idea di Italia contro Germania (rigorosamente Ovest) che permeava quell’Inter-Amburgo di ventotto anni fa… Ilario Castagner si affida alla stessa formazione dell’andata col solo Riccardino Ferri al posto del veterano Bini, Ernst Happel ripropone la stessa identica squadra di quindici giorni prima. La partita è durissima, l’Inter cerca di sfondare ma fa fatica, molta fatica, i tedeschi si difendono ordinatamente e si fanno anche vedere qualche volta dalle parti di Recchi, momenti in cui rischio l’infarto a soli dodici anni, anche perché dover poi fare tre gol a una difesa arcigna come quella degli amburghesi sarebbe impresa decisamente impossibile. Quando ormai la situazione si sta facendo disperata e mancano tredici minuti al termine, l’arbitro inglese Hackett ci concede un rigore (non ricordo più su chi, ma comunque netto, quello lo ricordo sì). Sul dischetto va l’irishman Liam Brady che con una calma olimpica manda Stein di qua e la palla di là per il gol-qualificazione che fa esplodere il catino del San Siro-Meazza. Resta il tempo per il disperato assalto finale degli anseatici che non produce alcunché anche perché l’Inter si difende ordinatamente ed anzi Altobelli e Rummenigge in contropiede sfiorano un paio di volte il due a zero. Finisce invece 1-0 e arrivederci a marzo! E a scuola il giorno dopo per me, orgoglioso della mia squadra contro gli juventini i cui giocatori erano invece stati battuti da Magath e soci! Nota metallara: ma i componenti di bands amburghesi come Helloween e Running Wild (di cui all’epoca uscivano i primi dischi) saranno stati tifosi dell’Amburgo? Per me qualcuno sì, dai! Ai quarti ci tocca un’altra squadra tedesca, il Colonia. Il team della Ruhr, allenato dal giovane Lohr, ex attaccante che aveva speso tutta la carriera proprio nel Colonia, era all’epoca una di quelle squadre non top, ma decisamente insidiose e contro cui era molto difficile giocare, e che arrivava ai quarti con lo scalpo eccellente dello Spartak Mosca eliminato in rimonta agli ottavi. In porta c’era il portierone della nazionale tedesca (in due finali mondiali perse e in quella di un europeo vinto) Harald Schumacher, un omaccione biondo riccioluto e baffuto che in una specie di Oktoberfest di Colonia aveva più volte stravinto delle bevute di birra a litri da stroncare un cavallo giovane e forte, mentre le due stelle erano altri due nazionali, la veloce ala destra Pierre Littbarski e l’attaccante Klaus Allofs. Da menzionare anche ottimi elementi quali Bein ed Engels (nota di colore: ma il difensore Geils, rimembrando il brano dance-pop dell’anno successivo di Bruce & Bongo “Geil”, cioè libidinoso in tedesco, si chiamava Libidinosi di cognome? O nella a me sconosciuta lingua crucca significa qualcos’altro?). L’andata è a Milano, una sera di inizio marzo in cui veniva giù a dirotto. San Siro è un tripudio di colore nerazzurro e giallo, cioè quello degli impermeabili e delle cerate con cui la gente si copriva in tempi in cui non c’era ancora la copertura e lo stadio milanese era un catino a cielo aperto. La Rai non fa vedere la partita, non ricordo più se danno quella della Juve o quella della Roma, fatto sta che io la seguo alla radio assieme a mio nonno materno, su una radio privata (non ricordo quale fosse) che trasmetteva solo le partite dell’Inter e che avevo scoperto per caso una domenica pomeriggio girando la manopola in cerca di Tutto il calcio minuto per minuto. La pesantissima assenza di Brady (infortunato o squalificato, sinceramente non ricordo) obbliga Castagner a schierare Antonio Sabato col 10 e ad inserire il Barone Causio al posto dell’irlandese. Per il resto formazione solita con davanti le due bocche da fuoco Spillo e Kalle. Assenza importante anche nel Colonia, quella di Allofs. Dopo una ventina di minuti Sabato si fa male e al suo posto entra il diciannovenne Enrico Cucchi, centrocampista della Primavera che aveva esordito in prima squadra solo un paio di mesi prima. La partita, come ricordo sia dalla radiocronaca sia dalla sintesi che vedrò in tv più tardi, fu epica e combattutissima. Venne decisa proprio da Causio con un tiro al volo dal limite dell’area dopo un mischione all’inizio del secondo tempo. 1-0 anche alla fine, buonissimo risultato, ma lassù sarà dura! E lassù (diretta tv stavolta) si parte anche male, perché il futuro amico di ‘Nessuno Schema’ Ricky Ferri cade nella provocazione del rientrante Allofs e gli tira un calcio in culo a gioco fermo: l’arbitro, il belga Ponnet, non può far altro che estrarre il cartellino rosso e siamo solo al nono minuto di gioco. Castagner allora toglie Causio, che da gran signore applaude sinceramente la decisione del tecnico, ed inserisce il veterano di mille battaglie europee Graziano Bini, all’ultima stagione in maglia nerazzurra prima di chiudere la carriera in B nel Genoa. Squadra risistemata e catenaccio obbligato, calcolando anche che erano tempi in cui non si era così abituati a giocare in inferiorità numerica come adesso, per cui rimanere in dieci era sempre un handicap enorme. Eppure al diciottesimo l’Inter conquista una punizione a due da un bel po’ fuori area, Brady tocca furbescamente per un liberissimo Marini (altro veterano a fine carriera) che si trova qualche metro più in là completamente libero e la botta del “Pirata” si spegne alle spalle di Schumacher. Il Colonia accusa il colpo, adesso i gol che deve fare sono diventati tre, ma con determinazione tipicamente tedesca gli uomini di Lohr stringono d’assedio quell’Inter in dieci e a metà ripresa trovano il pari con Bein. Adesso si fa dura, un altro gol dei crucchi significherebbe un assalto all’arma bianca finale a cui sarebbe difficilissimo resistere, e giocatori e pubblico del Colonia lo sanno, ma non hanno fatto i conti con un loro connazionale, l’esplosivo Rummenigge che prima sfrutta un errata respinta di testa di un difensore tedesco per esplodere un destro al volo nell’angolino, e poi con un colpo di testa di rara potenza la mette sotto il sette. Colonia ammutolito e qualificazione alla semifinale guadagnata con una prova davvero strepitosa, da mandare a memoria di quei futuri soloni che hanno blaterato per anni di scarsa mentalità internazionale da parte dell’Inter (soloni a cui poi finalmente tapperà la bocca il Vate di Setubal con la Champions 2010), al contrario squadra da sempre rispettata all’estero pure negli anni bui, anche per via di partite come questa, per tacere delle tre coppe Uefa che vinceremo fra 1991 e 1998. Ma adesso siamo tornati nella primavera del 1985 e di coppe Uefa in bacheca non ne abbiamo nessuna, siamo però in semifinale e il sorteggio ci oppone ancora una volta al Real Madrid. In casa nerazzurra e fra noi tifosi c’è la voglia di vendicare le due precedenti eliminazioni, compresa quell’ultima non troppo pulita di cui ho scritto più sopra, e inoltre siamo ingolositi dal fatto che l’altra semifinale è fra due squadre-carneadi, gli ungheresi del Videoton dall’impronunciabile Székesfehérvár (che comunque han fatto fuori fra gli altri Paris Saint Germain e Manchester United) e gli jugoslavi dello Željezničar di Sarajevo (arrivati fin lì con un cammino un po’ più agevole rispetto agli ungheresi), per cui andare in finale significherebbe avere la coppa in tasca almeno all’80%! Dall’urna di Zurigo escono l’andata a Milano e il ritorno a Madrid e già qui a me corse un brivido lungo la schiena; sì, perché in casa il Real era pressochè imbattibile e capace di rimontare qualsiasi svantaggio patito all’andata, infatti dopo un primo turno in cui i madrileni giocano l’andata eccezionalmente in casa rifilando un 5-0 agli austriaci del SSW di Innsbruck (quella squadra che ha cambiato nome parecchie volte) e perdendo poi con un indolore 0-2 al ritorno, già ai sedicesimi gli jugoslavi del Rijeka si impongono sul Real per 3-1 in Croazia per poi subire un perentorio 0-3 a Madrid. Negli ottavi Anderlecht-Real Madrid si chiude sul 3-0 per i belgi a Bruxelles, ma in Spagna finisce 6-1 per i madrileni, mentre i quarti col Tottenham vedono il Real imporsi 1-0 a Londra per poi contenere sullo 0-0 gli inglesi al Bernabeu (il Tottenham era la squadra detentrice del trofeo ed era un brutto cliente per chiunque all’epoca). Insomma, a San Siro c’è da vincere e da vincere bene. Si gioca allo strano orario delle 19 di una sera di metà aprile, San Siro è ancora una volta pieno in ogni ordine di posto. L’orario credo fosse per permettere la diretta tv sia dell’Inter che della Juve, impegnata alle 20.30 contro il Bordeaux per le semifinali di Coppa dei Campioni. L’Inter arriva alla partita con qualche assenza importante in difesa, mancano infatti Ferri (ovviamente squalificato) e Collovati. Castagner rispolvera il “tir” Pasinato e dà fiducia al giovanissimo Cucchi dal primo minuto. E veniamo alla controparte madridista: in due anni anche per il Real sono cambiate molte cose. In panchina siede la vecchia gloria (quattordici anni con la casacca del Real Madrid) Amancio, in campo (e in gol) nelle storiche sfide anni ’60 contro l’Inter. Sul terreno di gioco davanti al nuovo portiere Miguel Angel e a fianco dei grandi vecchi, si stanno facendo largo due giovani promesse ormai mantenute, il centrocampista Martin Vazquez (che giocherà nel Torino a inizio anni novanta) e soprattutto l’attaccante Butragueno, detto el Buitre, l’avvoltoio. Ciliegina sulla torta, il fortissimo attaccante argentino Jorge Valdano, futuro allenatore nonchè d.g. dello stesso Real. Ma quella sera non c’è storia, fu una delle più belle partite che abbia mai visto giocare dall’Inter, la semifinale di San Siro del 2010 col Barcellona impallidisce al confronto: Real Madrid completamente dominato, surclassato in ogni zona del campo, col Buitre che fa la figura del pulcino bagnato. Il compianto Enrico Cucchi (morirà di tumore a soli trent’anni…) sfodera una prestazione impressionante, Brady illumina e Spillo & Kalle fanno impazzire la retroguardia madrilena. Poteva finire sei a zero e nessuno avrebbe avuto niente da ridire, finisce invece “solo” 2-0 (gol di Brady su rigore e di Spillo Altobelli) col Real che deve ringraziare alcuni errori di mira dei nostri attaccanti e qualche salvataggio dei propri portiere e difensori. A fine match, in un San Siro in tripudio, Juanito avvicina lo Zio Bergomi e gli ricorda che “90 minutos pueden ser muy longo al Bernabeu”. Valdano alla tv italiana dice che l’Inter si pentirà di aver fatto solo due gol. E qui c’è da aprire il capitolo relativo al Miedo Escénico, cioè la paura del palcoscenico che qui è da leggersi come il terrore dell’ambiente madrileno instillato negli avversari, argomento di cui lo stesso Valdano (che fra le altre cose è anche scrittore di romanzi) scriverà su ‘El Pais’ molti anni dopo. Il tutto cominciava la settimana precedente il match con una sorta di autoipnosi collettiva orchestrata da José Antonio Camacho, il quale andava in pressing asfissiante sui compagni chiedendo loro in continuazione: “chi è più forte?”, “cosa faremo loro?”, “per quanto vinceremo?”, fino all’auto-convincimento. E ancora negli spogliatoi prima della partita: il primo attacco deve essere il nostro / il primo fallo deve essere il nostro / il primo gol deve essere il nostro. E poi l’uscita dagli spogliatoi, l’urlo disumano con cui si accoglievano gli avversari in corridoio, il tutto portato al fanatismo dal delirio di ottantamila invasati sugli spalti e dal terrore generato negli avversari dalla leggenda della historia blanca sapientemente usata come arma. Novanta minuti potevano sì essere molto lunghi al Bernabeu, ma spesso al Real ne occorrevano molti meno per raddrizzare qualificazioni ampiamente compromesse… 24 aprile 1985, giorno prefestivo, tutti davanti alla tele per seguire questo Real Madrid-Inter. Parafrasando Borrelli anni e anni prima, l’imperativo è uno solo: resistere-resistere-resistere. Il Real non sta andando affatto bene in campionato e difatti ha appena operato un cambio di panchina, su cui da pochi giorni siede il compianto Luis Molowny, l’allenatore di Tenerife (ma di lontane origini irlandesi) che torna a guidare i biancomalva (di cui era stato anche giocatore per più di dieci anni, noterete come il Real fosse all’epoca sempre allenato da qualche suo ex giocatore) già allenati qualche stagione prima. E Molowny per questa semifinale di ritorno si affida quasi in toto alla vecchia guardia: fuori Butragueno e Martin Vazquez (il primo o per squalifica o per infortunio, se non ricordo male), la formazione di quel Real mi fa venire brividi di paura ancora adesso. Una banda di spaccaossa come Chendo, Salguero e il succitato Camacho, più il rientrante (e assente all’andata) Ulrich Stielike, libero tedesco dal look hitleriano (moro, con baffo e riga da parte) cattivo come un SS e che aveva appena superato un’epatite. E ancora, San José, barbuto come un cristo degli abissi, e soprattutto là davanti al posto del buitre, Santillana, la bestia nera dell’Inter di quegli anni, ormai attaccante di riserva, che si avviava al termine di una gloriosa carriera spesa pressochè interamente nel Real Madrid per cui segnerà quasi duecento gol. Castagner si affida all’esperienza di Bini e ripropone il giovanissimo Cucchi. Ma il Bernabeu (dal nome dello storico presidente per quasi quarant’anni Santiago Bernabeu, che fu in precedenza anche giocatore prima ed allenatore poi. In due parole: IL Real) è una bolgia, faceva paura a me che stavo a quasi duemila chilometri ad est, figurarsi a quegli undici ragazzi ed uomini in maglia nerazzurra. E difatti già al dodicesimo Santillana infila l’1-0 e il match si mette da subito in salita… A questo punto però succede qualcosa, cioè che una biglia di ferro lanciata dagli spalti mentre il Real sta per battere un corner, colpisce in testa Bergomi facendolo sanguinare. Walterone Zenga corre a prendere l’oggetto contundente e lo consegna all’arbitro, lo scozzese Valentine. Lo Zio è costretto ad uscire in barella, entra Pasinato, e a questo punto si fa strada fra noi tifosi (e fra i commentatori tv) l’idea della vittoria a tavolino per l’Inter (ce l’avevano concessa in Italia contro la Juve -!!- per un sasso che colpì Marini sul pullman prima della partita, figurarsi in Europa e per un episodio come questo!), o al limite della partita da ripetere, pur continuando intanto il match in essere. Il Real è una furia, botte da orbi ai nostri senza il minimo intervento arbitrale, poi ancora Santillana firma il 2-0 con cui si chiude il primo tempo. Ripresa, i blancos continuano impuniti a picchiare come fabbri, entrando sistematicamente con falli da rosso sulle gambe di Altobelli e Rummenigge per i quali diventa quasi impossibile giocare. L’arbitro non fa una piega, anzi ammonisce chi aveva osato protestare. Michel con un gran tiro segna il 3-0 che sancisce la qualificazione alla finale per il Real. L’Inter ha un sussulto con Altobelli, ma quel maledetto di Stielike salva sulla linea il gol che avrebbe mandato noi in finale… Restava la speranza nel ricorso presentato alla commissione disciplinare dell’Uefa, ma nonostante noi in questa partita fuori dal campo schierassimo l’ottimo avvocato Peppino Prisco (il grandissimo vicepresidente dell’Inter), detta commissione non volle tener conto delle immagini televisive, molto chiare, e non ci diedero nè lo 0-2 a tavolino nè la ripetizione dell’incontro. L’arbitro Valentine dapprima disse che aveva visto tutto, poi rimangiò le proprie dichiarazioni dinanzi alla commissione Uefa… E’ che quel Real aveva un potere politico in Europa praticamente sterminato (forse anche maggiore di quello dei gobbi in Italia, anche nel periodo di Moggi), si narra addirittura che i madridisti non si degnarono nemmeno di assumere un avvocato, gli bastò inviare un vecchio dirigente che conosceva bene quelli della Uefa… Il Real Madrid conquisterà poi la coppa vincendo facile 3-0 in Ungheria contro il Videoton e concedendo ai magiari la soddisfazione di espugnare il Bernabeu con un inutile 1-0 che però entrerà di diritto nella storia del piccolo club di (allora) oltrecortina. Cornuti e mazziati noi concludiamo la stagione 84/85 coi risultati già citati in precedenza (cioè senza vincere niente) e durante quell’estate la dirigenza non bada a spese per costruire un’Inter ancora più forte, sulla carta ovviamente. Dal Verona fresco incredibile campione d’Italia arrivano l’ala destra Fanna (ex juventino, rigeneratosi in Veneto fino a conquistare pure la nazionale) e il terzino sinistro Luciano Marangon (passato da Napoli e Roma prima di consacrarsi definitivamente in quel di Verona). Dalla Juventus arriva un Marco Tardelli a fine carriera, ma ancora in grado di dire la sua, da buon campione del mondo ancora in carica (alla fine di quella stagione arriverà il Mondiale messicano vinto da Maradona e la sua Argentina). Se ne va l’altro campione del mondo Causio che, ormai 36enne, torna esattamente vent’anni dopo nel suo Lecce che si accingeva a disputare la prima stagione in A della propria storia. Acquisti minori sono il nuovo secondo portiere Lorieri (in realtà ripreso dopo una stagione in prestito al Piacenza) che sostituisce Recchi (che va a chiudere la carriera in C1 nell’Ancona, squadra della sua terra di provenienza), un altro campione del mondo (anche se nel suo caso senza giocare nemmeno un minuto) Selvaggi, che sostituisce come attaccante di riserva Carletto Muraro (che va in B all’Arezzo) e il rientrante dal prestito al Monza Massimo “Ottolenghi” Pellegrini (Ottolenghi non è un soprannome, ma il cognome falso con cui il nostro venne iscritto al Mundialito under-14 del 1981 svoltosi in Argentina. Pellegrini, nato nel 1966, era fuori età e qualche genio -che nelle nostre dirigenze purtroppo non sono mai mancati!- pensò bene di iscriverlo col cognome di tale Ottolenghi, compagno di squadra pure lui chiamato Massimo, che invece rientrava nei limiti di età. L’Inter under-14 vinse il trofeo e Pellegrini a.k.a. Ottolenghi fu il capocannoniere della manifestazione. Titoli ovviamente revocati ad inghippo scoperto…). Confermatissimo il blocco difensivo Zenga-Bergomi-Ferri-Beppe Baresi-Collovati-Mandorlini, confermatissimi Spillo, Kalle e Brady, in prima squadra da subito l’ottimo Cucchi, ultima stagione per Gianpiero Marini. Viene riportato in nerazzurro anche il centrocampista difensivo Bernazzani (dopo due stagioni in comproprietà con Pistoiese e Pisa), che quasi vent’anni dopo tornerà all’Inter prima come allenatore della Primavera, poi come assistente tecnico di José Mourinho nelle sue due storiche stagioni sulla nostra panchina, mentre attualmente è tornato ad essere l’allenatore della Primavera con cui ha vinto il campionato 11/12. Questa (sulla carta, appunto) super-Inter parte bene nel girone eliminatorio di Coppa Italia vincendo il proprio girone, poi però inizierà il campionato con risultati alterni: convincenti vittorie con un Rummenigge da urlo e battute d’arresto sconcertanti (la sconfitta di Bergamo e lo 0-3 di Firenze griffato dai futuri nerazzurri Passarella e Berti); aggiungendo a questo il fatto che là davanti dopo dieci giornate la super-Juve del Trap e di Platini vola con nove vittorie e una sola sconfitta (su un’incredibile punzione di Maradona a Napoli) ed è già a +5 sull’Inter, dopo un 1-1 interno proprio col Napoli, Pellegrini esonera Castagner e lo sostituisce con un’icona del passato nerazzurro, Mariolino Corso, il fantasista dell’Inter euromondiale anni sessanta del Mago Herrera. Corso tiene la squadra nerazzurra a galla sulla linea della decenza per tutta la stagione, conducendola al sesto posto (un punto davanti al primissimo Milan di Berlusconi, battuto nel derby di ritorno grazie ad un gol del primavera Minaudo) e qualificandola quindi alla Coppa Uefa grazie anche alla vittoria della Roma in Coppa Italia. Competizione in cui venimmo eliminati ai quarti proprio dai giallorossi, in una parte finale di stagione praticamente concomitante ai Mondiali in Messico e quindi con le squadre infarcite di riserve e primavera (nell’inutile 2-1 di San Siro, dopo lo 0-2 dell’Olimpico, il gol vittoria interista lo segna tale Paolo Mandelli, attaccante diciottenne che farà un’onesta carriera fra B e C1 e che attualmente allena la primavera del Sassuolo). E non contenta di questa Coppa Italia che si sovrapponeva al Mundial messicano, la Lega Calcio istituì addirittura un concomitante ed ufficiale Torneo Estivo (per tutte le squadre di A, a parte le quattro semifinaliste di Coppa Italia) in cui noi finiamo penultimi nel nostro girone dominato dall’Avellino che poi vincerà il torneo. Resta da parlare della Coppa Uefa, e torniamo quindi a settembre, quando l’Inter, ancora allenata da Castagner, viene opposta ai modesti svizzeri del St. Gallen (o San Gallo), regolati con un perentorio 5-1 a Milano e contenuti con un tranquillo 0-0 in terra elvetica (due partite da me seguite alla radio, vista l’ovvia non-copertura Rai). Al secondo turno altro avversario facile, gli austriaci del Linzer ASK; a Linz, però, nonostante avessimo dominato prendiamo gol nel finale e torniamo a Milano con uno 0-1 nel sacco, sconfitta ampiamente ribaltata quindici giorni dopo con un secco 4-0 nel quale spicca la tripletta di Altobelli. Per gli ottavi siamo già guidati da Corso, che fa il suo esordio europeo nello 0-0 interno coi polacchi del Legia Varsavia della stella Dziekanowski e con altri nazionali di quegli anni in cui la Polonia era una squadra di tutto rispetto (terza ai mondiali spagnoli, in Messico uscirà agli ottavi contro il Brasile). Diretta Rai per una partita bloccatissima, praticamente senza occasioni per nessuna delle due contendenti, e che vede per la prima ed unica volta Massimo Pellegrini titolare dal primo minuto al posto dell’assente Rummenigge (la stagione successiva Pellegrini sarà ceduto al Cagliari e da lì svilupperà una discreta carriera fra B, C1 e C2, trasformandosi in centrocampista. Ora lavora nel ramo della ristorazione, curiosamente come il suo presidente di allora, peraltro recante lo stesso cognome senza per questo esserne parente). Il ritorno (diretta tv) è una di quelle partite per cui vale la pena essere interisti. La Polonia nel dicembre 1985, in pieno regime comunista col sindacato indipendente Solidarnosc dichiarato fuorilegge, un freddo boia, una notte grigia, e ricordo il pubblico incolore (salvo alcuni striscioni) ed ordinatissimo sulle gradinate dello stadio di Varsavia. L’Inter affronta la trasferta in netta emergenza, rientra sì Kalle, ma le assenze sono parecchie, tanto che Corso deve ricorrere dal primo minuto a Bernazzani e al primavera Rivolta (quest’ultimo un difensore diciottenne di Lissone che, fra un paio di prestiti, rimarrà all’Inter per alcune stagioni, giocando pochissimo, ma firmando una presenza nella rosa dello scudetto 1989, per poi chiudere col calcio giocato a soli venticinque anni con la maglia del Seregno). Il match è epico e dopo novanta minuti combattutissimi (e noiosissimi per i non-interisti) siamo ancora sullo 0-0. Supplementari dunque. Bernazzani e Rivolta sono stremati, hanno corso per quattro, e Corso li sostituisce con l’altro primavera Minaudo e con Pierino Fanna (accessoriato con un paio di mutandoni anti-freddo), partito dalla panchina in quanto fisicamente non al meglio. Tempo dieci minuti e all’inizio del secondo tempo supplementare Altobelli fa fuori due difensori e crossa dalla linea di fondo per l’inserimento di Fanna che la mette dentro di testa con la pelata! Qualificazione ottenuta con fatica e merito in una delle partite più epiche, per svariati motivi, a cui abbia mai assistito. Si riprende a marzo con i quarti, per i quali l’urna ci ha opposto ai francesi del Nantes. La squadra della città della Loira Atlantica era un cliente ostico, arrivato fin lì eliminando fra gli altri il Partizan Belgrado, altra squadra tradizionalmente difficile e al tempo piuttosto forte, rifilandogli un sonoro 4-0 fra le mura amiche dello stadio di Nantes. Reduce da un secondo posto in campionato e in procinto di arrivare nuovamente secondo a fine stagione, il Nantes schierava due stranieri di alto livello, l’argentino Burruchaga, che pochi mesi dopo segnerà il gol decisivo nella finale mondiale contro la Germania Ovest, e lo jugoslavo Halilhodzic, attaccante di livello internazionale che aveva partecipato con la Jugoslavia al Mondiale ’82 (attualmente è il c.t. della nazionale algerina). Altri elementi di livello erano il portiere Bertrand-Demanes, che spenderà l’intera carriera coi gialloverdi (i colori del Nantes) e che aveva difeso la porta della nazionale ai mondiali di Argentina ’78, i difensori Le Roux (altro nazionale) e Der Zakarian (di origini armene), e là davanti l’ottimo José Touré. Allenatore quel Jean-Claude Suaudeau, la cui carriera calcistica fu legata esclusivamente al Nantes, prima da giocatore e poi, in tre periodi diversi per ventun anni totali, da coach. L’andata è a San Siro, ho qualche dubbio sul fatto che sia stata trasmessa in diretta tv, forse sì, ma in alternanza (e come secondo campo) alla concomitante Barcellona-Juventus di Coppa dei Campioni. In ogni caso se così fosse l’avevo vista di sicuro, altrimenti ero attaccato alla radio. In campo non c’è comunque storia, perentorio 3-0 e francesi rispediti oltralpe con tanti saluti. Un autogol di Le Roux su tiro di Altobelli (che adesso sarebbe indiscutibilmente gol di Spillo) dopo una decina di minuti, un eurogol in mezza girata volante di Tardelli a metà ripresa e il sigillo finale di Rummenigge di testa. Il ritorno è poco più che una formalità. Di quel giorno ricordo che avevo fatto a botte con un altro ragazzino della mia scuola per motivi sicuramente futili ed era finita in pareggio: labbro inferiore sanguinante per me, occhio sinistro pesto per lui (quando ci rivediamo ogni tanto adesso ci facciamo sempre quattro risate ricordando quel giorno e non riuscendo mai a ricordare i motivi dello scontro…). La sera seguo alla radio Nantes-Inter, ovviamente la ribalta è tutta per quel Juve-Barcellona in cui gli uomini del Trap devono tentare di rimontare lo 0-1 del Camp Nou. Non ci riusciranno, finirà 1-1, e il Barca allenato dall’inglese Terry Venables arriverà fino alla finale poi persa ai rigori contro l’incredibile Steaua Bucarest dell’ancor più incredibile portierone Ducadam. Mentre mi guardo alla tele la partita del Comunale di Torino con la radiolina fra le mani e mi succhio il taglio sul labbro, l’Inter va sotto per uno a zero in quel di Nantes, ma Altobelli pareggia quasi subito e tiro un sospiro di sollievo. Un micidiale uno-due dei francesi che chiudono il primo tempo sul tre a uno mi fa temere il peggio, ma poi l’uno-due lo mettiamo a segno anche noi con Brady e ancora Altobelli per il 3-3 finale che ci porta diritti in semifinale. Le altre tre squadre rimaste in lizza sono il Colonia, il sorprendente Waregem (squadra belga che aveva eliminato il Milan agli ottavi) e il solito Real Madrid. I desideri di noi tifosi sono contrastanti, c’è chi si augura i belgi (sulla carta la squadra meno ostica) anche per far vedere ai cugini come si fa a batterli, chi preferirebbe il Colonia (già eliminato la stagione precedente) e chi invece vuole ancora il Real Madrid per vendicare l’eliminazione di un anno prima, sporcata dalla poco chiara faccenda della biglia. Io so che il Real lo becchiamo di sicuro o adesso o in finale se ci andiamo, per cui opterei per belgi o tedeschi, e infatti l’urna di Zurigo ci accoppia per l’ennesima volta al Real Madrid… Andata a Milano come sempre e ritorno nell’inferno di Madrid, e già qui comincio a sentire brividi di freddo e paura lungo la spina dorsale. Sì, perché quell’anno come non mai il cammino del Real fu un incredibile serie di nette sconfitte fuori casa opposte ad annichilenti goleade al Bernabeu. In dettaglio: nei trentaduesimi sconfitta all’andata in Grecia contro l’AEK Atene per 0-1 e rimonta in Spagna con un roboante 5-0; nei sedicesimi fa eccezione l’andata in casa vinta 2-1 contro i sovietici del Chernomorets Odessa, contenuti poi sullo 0-0 in terra ucraina; micidiale la rimonta degli ottavi contro i tedeschi del Borussia Mönchengladbach (che il grande Gianni Brera chiamava il Borussia Vadaviaiciàp, vista l’impronunciabilità del nome), vincitori per 5-1 in Germania ed eliminati con un tremendo 4-0 al Bernabeu; nei quarti andata in casa contro gli svizzeri del Neuchatel Xamax battuti sonoramente 4-0, ma che in terra elvetica riescono a vincere 2-0 mettendo quindi a nudo il fatto che quel Real fuori casa era un’altra cosa rispetto a quello devastante del Bernabeu. Ora, a quel tempo in Europa mi pare non fosse obbligatorio l’antidoping e i giocatori del Real per come correvano e per le legnate che davano era impossibile che prima delle partite interne non prendessero qualcosa. Più volte ebbi la sensazione che fossero dopati come cavalli che corrono il Palio di Siena… Comunque, timori legittimi a parte, c’è prima l’andata a Milano, con l’Inter che, fuori dai giochi in campionato e con la fase finale di Coppa Italia ancora lontana, punta tutto sulla Coppa Uefa. Quel 2 aprile 1986, ovviamente in diretta tv essendo l’Inter l’unica squadra italiana ancora dentro le coppe (certo, mentalità europea scarsa, è ovvio), Mariolino Corso deve far fronte all’assenza del solo Collovati: dentro Cucchi dal primo minuto e per il resto formazione tipo. Di là agli ordini ancora di Luis Molowny c’è una squadra che si sta accingendo a riportare la Liga a Madrid dopo sei anni. E che squadra! Al telaio della stagione precedente si è aggiunto il fortissimo centravanti messicano Hugo Sanchez, acquistato dai cugini dell’Atletico Madrid, e si era definitivamente fatta largo quella che è stata ribattezzata la Quinta del Buitre (cioè la Corte del Buitre, in pratica Butragueno e altri quattro ragazzi cresciuti nel vivaio del Real: Martin Vazquez, Michel, Sanchis e Pardeza, quest’ultimo il meno conosciuto ma che sarà poi direttore sportivo del Real per qualche tempo alcuni anni fa). Non c’era più Stielike (ormai a fine carriera venne ceduto al Neuchatel poi incontrato in coppa), sostituito però dal macellaio Maceda proveniente dallo Sporting Gijon. Per il resto i soliti ceffi quali Chendo, Camacho, Salguero, Gallego e Gordillo, il forte argentino Valdano e due madridisti storici quali Juanito e, ahimè, Santillana. San Siro ancora una volta da lacrime, strapieno e con un tifo pazzesco. Pronti-via e Tardelli in versione Espana ’82 la mette dentro dopo nemmeno un minuto di gioco con un grande inserimento a centro area. Il Real è in affanno, le assenze di Maceda e Sanchis (il cui padre fu giocatore nel Real anni sessanta) in difesa si fanno sentire, e proprio un errore difensivo consente a Rummenigge, messo in campo a botte di cortisone, di elevarsi di testa servendo Tardelli che firma la propria doppietta con una spaccata a porta quasi vuota quando siamo a metà ripresa. Sul due a zero l’Inter ha un prevedibile calo fisico e il Real ne approfitta per segnare con Valdano un importantissimo gol a tre minuti dalla fine. Poi però, all’89°, un clamoroso autogol di Salguero (che toglie palla a Rummenigge in area, ma poi con un morbido pallonetto di esterno la mette all’incrocio alle spalle dell’incolpevole portiere Ochotorena) fissa il punteggio su un 3-1 che ci manda al Bernabeu appena appena più fiduciosi, pur sapendo che come al solito sarà una mission impossibile (io in quegli anni non sarei stato sicuro nemmeno con un sette a zero, comunque). Si va a giocare la gara di ritorno come se si andasse alla guerra. Al nostro tecnico il Bernabeu, sfide anni sessanta col Real a parte, evoca il dolce ricordo del suo gol decisivo nei supplementari dello spareggio contro gli argentini dell’Independiente che ci consegnò la prima Coppa Intercontinentale. Eppure anche Corso sarà stato intimidito dalla marea dei supporters blancos che urlavano come posseduti. E lo stesso, se non peggio, sarà stato per i nostri ragazzi (anche per chi in quello stadio ci aveva vinto un Mondiale). Non erano anni di patinate partite di Champions League al Bernabeu con in campo i pettinatissimi Beckham e Guti e la regia televisiva di Popi Bonnici, no, allora quello che succedeva in quell’arena era più simile ad una corrida che ad un match calcistico. Ed erano anni di non-globalizzazione, si andava veramente in una terra straniera ed in questo caso ostile, figuratevi cosa voleva dire per un giovane ragazzo come Bernazzani, che al massimo avrà vissuto un Pisa-Livorno (derby tosto, ma non c’è paragone con l’inferno madrileno), entrare fra gli insulti del pubblico in una lingua sconosciuta e iniziare subito a prendere botte date per far male nell’indifferenza della terna arbitrale. E anche i cognomi di quei giocatori del Real instillavano paura, cognomi duri quali Chendo, Camacho, Maceda, Santillana. Adesso abbiamo il timorato di dio Kakà, mentre allora io uno come Chendo me lo vedevo entrare in chiesa bestemmiando e tirando calci ai ceri votivi, oppure il timido “micione” (Mourinho copyright) Benzema, quando allora c’era Santillana che menava il proprio marcatore per tutta la partita. A voi mettono paura cognomi quali appunto Kakà e Benzema, oppure Ozil, Essien o Pepe? Per quanto ottimi giocatori e in alcuni casi anche dal gioco duro (vedasi Pepe), e me non fanno nè caldo nè freddo, ma quando sento i nomi di Santillana oppure Stielike un brivido gelato mi corre ancora oggi lungo la schiena. Quel 16 aprile 1986 nella porta del Real gioca Agustin, quello delle arance a San Siro, che negli anni aveva perso il posto da titolare, ma che ora grazie all’infortunio di Ochotorena ritornava fra i pali, un’altra volta contro di noi. Rientrano Maceda e Sanchis, mentre Valdano è assente, ma non è che sia un bene visto che il suo sostituto (rimasto in panchina a Milano) è Santillana. L’Inter è in formazione completa, ma con Altobelli e soprattutto Rummenigge spediti in campo a suon di infiltrazioni. Nel primo tempo riusciamo a contenere il Real e anzi sfioriamo anche il gol con Tardelli e soprattutto con Mandorlini che in contropiede si fa ipnotizzare da Agustin. Mandorlini che a inizio partita dopo un contrasto si era lussato la spalla e se l’era rimessa dentro da solo. E che al 44° commette un fallo da rigore (che ci stava) su Michel… Hugo Sanchez trasforma e si va al riposo con un pericolosissimo 1-0 per il Madrid. A inizio ripresa traversa di Michel, ma poco dopo palo clamoroso di Bergomi, insomma ce la giochiamo, nonostante le botte che fioccano da tutte le parti e l’arbitro, l’olandese Keizer, che fa lo gnorri. A metà ripresa però un’incornata di Gordillo porta il Real sul due a zero che significherebbe qualificazione per loro. Corso, avendo tolto Altobelli (infortunato dopo le legnate dei madrileni ed uscito in barella) per Marini sullo 0-1 e privo di Selvaggi in panchina, mette Collovati centravanti e tre minuti dopo un clamoroso fallo da ultimo uomo (che adesso sarebbe rosso diretto, ma che allora non fu sanzionato nemmeno col giallo) di Michel proprio su Collovati ci consente di andare sul dischetto per provare a segnare il gol dell’1-2 che adesso significherebbe qualificazione per noi. Liam Brady, freddissimo come sempre, non sbaglia. Dieci minuti dopo però, un’azione nata da un fallo di Gallego su Fanna non ravvisato porta ad un fallaccio di Tardelli su Butragueno in piena area di rigore: penalty netto che Hugo Sanchez trasforma per la doppietta personale. 3-1 e si avvicina lo spettro dei supplementari. Rummenigge è stato macellato senza pietà con la compiacenza dell’arbitro che intimorito dal clima creato dal pubblico di casa, per tacere di eventuali minacce e/o compensi da parte della dirigenza madrilena, ormai concedeva di tutto ai blancos) e a cinque minuti dal termine alza bandiera bianca, entra Bernazzani. Ormai, con Collovati unica punta (come dire adesso Ranocchia unica punta, per intenderci), la speranza è di passare indenni i supplementari ed affidarsi alla lotteria dei calci di rigore. Il piano salta subito, dato che dopo quattro minuti Santillana di testa incorna un corner di Hugo Sanchez (con Zenga non impeccabile nell’uscita) e in pratica chiude il discorso, anche perchè poco dopo viene espulso Mandorlini in maniera assolutamente esagerata soprattutto visto il metro di giudizio dell’arbitro. In dieci e senza attaccanti di ruolo l’Inter butta in campo tutto quello che le è rimasto, Bernazzani va in slalom nell’area madridista come neanche Garrincha, ma viene rintuzzato all’ultimo, Ferri fa l’ala destra e Marini che sta per chiudere la carriera prova a correre come un ventenne. Attacchiamo disperatamente e prendiamo un matematico contropiede col Buitre che fugge via come un razzo e serve Hugo Sanchez in area, il quale offre a Santillana un assist da favola per il tap-in del 5-1 e la doppietta del vecchio attaccante spagnolo (che si porta quindi a quota sei gol contro di noi in sei partite, meno male che poi ha smesso di giocare e comunque non l’abbiamo più incontrato), il quale, in pochi lo sanno, aveva un rene solo a causa di una rara malformazione congenita. Usciamo a testa alta, nonostante il punteggio. Maceda, che avrà fatto dieci falli da giallo e un paio da rosso, non fu mai nemmeno ammonito. Gordillo e Chendo picchiarono come fabbri e anche lì zero provvedimenti… Adesso avete capito perchè a me e a quelli che hanno vissuto queste sfide il Real Madrid ha rovinato l’esistenza? ;-) Il Real poi vinse anche quella Coppa Uefa massacrando in finale il Colonia di Allofs e Littbarski con un 5-1 nell’andata del Bernabeu, attutito poi dall’inutile 2-0 per i tedeschi al ritorno, sempre a confermare che quel Real era davvero una cosa a Madrid e un’altra all’estero. Nelle stagioni immediatamente successive l’Inter non ebbe più modo di incontrare il Real Madrid, anche perché i biancomalva inanellarono una serie di quattro vittorie consecutive in campionato, partecipando quindi sempre alla Coppa dei Campioni, mentre noi ci dovevamo accontentare dei soliti piazzamenti Uefa. L’eccezione della stagione 88/89, quando vincemmo lo scudetto, portò al nostro rientro nel tabellone della coppa principale della stagione successiva, che però ci vide uscire al primo turno eliminati dagli svedesi del Malmoe guidati dall’inglese Roy Hodgson, futuro allenatore nerazzurro… Toccò quindi ad altre squadre italiane misurarsi con quel Real. La Juventus di Rino Marchesi negli ottavi dell’86/87 perse per 1-0 (gol di Butragueno) all’andata a Madrid contro il Real allora allenato dall’olandese Leo Beenhakker (già c.t. della nazionale orange e senza trascorsi da giocatore nel Real), per poi vincere con lo stesso punteggio a Torino (segnò subito Cabrini); la qualificazione si decise ai rigori, Tacconi para quello di Hugo Sanchez, ma dall’altra parte Buyo dice no a Brio e Favero e ai quarti ci vanno i madrileni. Nell’87/88 tocca al Napoli di Maradona e Ottavio Bianchi, sorteggiato al primo turno contro il Real e che all’andata in quel di Madrid ha pure la fortuna di giocare a porte chiuse, a seguito di una sanzione Uefa dopo le intemperanze del pubblico spagnolo durante la semifinale della stagione precedente contro il Bayern Monaco; gli azzurri però perdono per due a zero, grazie ad una doppietta di Michel (un gol su rigore e uno che viene in realtà accreditato come autorete di Nando De Napoli che deviò il tiro del centrocampista madrileno). Al ritorno, in un San Paolo gremito, finisce 1-1: Francini illude i partenopei, ma il pari di Butragueno chiude i giochi (il Real poi uscirà in semifinale con due pareggi contro il PSV Eindhoven di Gus Hiddink che poi vincerà la coppa). Il trend si inverte quando il Milan di Sacchi nella semifinale dell’88/89 riuscì ad impattare per 1-1 a Madrid all’andata (noterete che sia il Milan, sia Juve e Napoli, giocarono il ritorno in casa, cosa che a noi nei quattro confronti anni ottanta capitò solo nella prima occasione) per poi demolire i blancos a San Siro con un impressionante 5-0 che di fatto segnò la fine vera e propria di quel Real, fine che però era già iniziata un paio di stagioni prima. Ricordo infatti la succitata semifinale della Coppa dei Campioni 86/87, che mise di fronte Bayern Monaco e Real Madrid; all’andata in Baviera schiacciante affermazione del Bayern allenato dal grande Udo Lattek (e in cui giocava anche Michael Rummenigge, fratello minore di Kalle) con un 4-1 che non ammetteva repliche e un Lothar Matthaus (che due stagioni dopo sarebbe passato all’Inter, assieme al compagno di squadra Andy Brehme) autore di due gol e di una prova sontuosa. Matthaus che, mentre era a terra dopo un fallo, venne scalciato su schiena e volto da Juanito, il quale, espulso, spintonerà anche l’arbitro, lo scozzese Valentine, quello della biglia, ricordate? Nei giorni precedenti il ritorno solita tattica psicologica dei madridisti, con le dichiarazioni alla stampa a ricordare ai tedeschi che dal Bernabeu si esce con le ossa rotte, poi prima della partita la consueta sceneggiata ben raccontata da Valdano, ecc.ecc., solo che in quel Bayern c’era gente con due palle grosse così. All’ingresso sul terreno di gioco infatti, il portiere belga Pfaff va in porta mostrando il dito medio alla curva occupata dagli Ultras Sur, la frangia più accesa del tifo del Real, poi il libero Augenthaler dopo un minuto entra volutamente sulle gambe di quello spaccaossa di Gordillo, aspetta che questi si rialzi con fare incazzoso e lo afferra per il collo, tanto per far capire che ai tedeschi non fregava un beneamato cazzo del Bernabeu e di tutto l’apparato di scena, arbitri o non arbitri! Il Bayern perse per 1-0 (con lo stesso Augenthaler espulso nella ripresa), ma non crollò e raggiunse la finale di Vienna, quella poi persa contro il Porto per 1-2, col gol di tacco dell’algerino Madjer (che diventò ‘il tacco di Allah’) e dell’ex interista Juary. Dopo il trionfo di Sacchi il Real cambierà pelle più volte e il Bernabeu non sarà più quell’inferno degli anni ottanta. Resterà un impianto storico, ma l’ambiente cambierà, più salotto buono e meno plaza de toros per intenderci, e tutto sommato è un po’ una compensazione il fatto che la Champions 2010 l’Inter l’abbia vinta proprio in quello stadio dove più o meno venticinque anni prima i suoi giocatori erano stati bastonati senza pietà e spesso ingiustamente. L’Inter incrocerà ancora una volta la strada del Real Madrid, nel girone di Champions League 98/99 (competizione a cui prendevamo parte dopo il secondo posto del campionato precedente, quel 97/98 ben raccontato da Elio in ‘Ti amo campionato’…): non una sfida ad eliminazione diretta, ma finalmente l’occasione di vendicarci, anche se solo in parte. Real-Inter è la prima partita del girone e si gioca a metà settembre in campo neutro a Siviglia, visto il Bernabeu squalificato (non ricordo il motivo). Il Real è la squadra detentrice del trofeo, vinto nella finale di Amsterdam battendo 1-0 la Juve moggiana con gol (in fuorigioco, oh dolce nemesi!) del futuro viola Mijatovic. Allenatore era il tedesco Jupp Heynckes, che riporta la coppa a Madrid dopo ben trentadue anni. Per la stagione 98/99 invece la panchina è affidata al santone olandese Gus Hiddink e in campo ci sono fior di giocatori quali Raul, Redondo, l’ex interista Roberto Carlos, i futuri interisti Panucci e Seedorf, e ancora Morientes e il succitato Mijatovic. Trait d’union con quel Real anni ottanta la presenza in campo del maledetto Sanchis! A Siviglia l’allenatore nerazzurro Gigi Simoni schiera un Ronaldo in condizioni pessime e si affida ad una squadra dalle spiccate tendenze difensive. Qui il trait d’union con l’Inter anni ottanta è rappresentato dallo Zio Bergomi. Il Real spinge per tutto il match, specie dopo l’espulsione di Fresi a fine primo tempo, e conquista un imbarazzante (per noi) score di calci d’angolo (diciotto a zero), ma il piano di Simoni andrebbe in porto se a dieci minuti dal termine Javier Zanetti non commettesse un fallo da rigore tanto evidente quanto stupido su Savio che porta al penalty dell’uno a zero trasformato da Hierro. Nel finale arriva anche il raddoppio di Seedorf in contropiede per il 2-0 con cui si chiude il match. Il ritorno si disputa per la quinta e penultima giornata del girone, il Real ha nove punti, l’Inter sette (a seguire Spartak Mosca e Sturm Graz). San Siro è pieno quasi come una quindicina di anni prima, il popolo nerazzurro sente moltissimo questa sfida e si vede. E’ una sera di fine novembre nemmeno troppo fredda e da subito si vede grande calcio da una parte e dall’altra. Zero a zero a fine primo tempo, poi in apertura di ripresa Ronaldo (ancora una volta in campo al 60%) tira da fuori area, Zamorano (un ex del Real) ci mette lo zampone e devia quel tanto che basta per mettere fuori causa Bodo Illgner. La gioia dura pochi minuti perché Seedorf, ancora lui, di testa fa uno a uno. Poi lo Zio Bergomi dopo un’incredibile cavalcata coast to coast a seguire un nostro contropiede si fa parare il tiro da Illgner: avesse segnato veniva davvero giù San Siro e un gol dello Zio contro il Real avrebbe significato tantissimo per noi cresciuti negli anni ottanta. A questo punto però Simoni toglie Zamorano ed inserisce quel grandissimo giocatore che è stato Roberto Baggio, ed è proprio lui a quattro minuti dal termine a riportare l’Inter in vantaggio con una giocata delle sue conclusa con un tiro che Illgner non riesce a fermare. E due minuti dopo è ancora Baggio che si presenta solo davanti al portiere tedesco, lo salta con una facilità disarmante e deposita in porta il pallone del 3-1 finale con San Siro in delirio. Inter prima nel girone e così sarà anche al termine dello stesso (piccola soddisfazione nei confronti dei madridisti), anche se nel frattempo un’assurda decisione morattiana ha portato all’esonero di Simoni (che aveva appena battuto il Real campione d’Europa…) sostituito col romeno Mircea Lucescu. L’Inter uscirà ai quarti senza demeritare contro i futuri campioni del Manchester United, stessa sorte toccherà al Real contro la Dinamo Kiev del Colonnello Valerij Lobanowsky e del futuro milanista Andriy Shevchenko. Da allora Inter e Real Madrid non si sono mai più affrontate in competizioni ufficiali (c’è stata qualche amichevole, ad esempio quella dell’estate 2001 al Bernabeu quando un’impressionante punizione bomba di Adriano al novantesimo consentì all’Inter di vincere il match), ma io (e tanti altri) aspettiamo pazientemente quel doppio confronto in una fase eliminatoria con cui finalmente vendicheremo quelle sconfitte che ci hanno rovinato la preadolescenza!

Nota finale: ovviamente tutto quanto appena scritto non sarebbe stato possibile senza l’ausilio dei miei Almanacchi Panini, di Wikipedia e Youtube, dei ricordi di qualche veterano su alcuni forum di marca interista, oltre ovviamente alla mia memoria di tifoso che ricorda quasi perfettamente le partite di venticinque/trent’anni prima e non si ricorda cosa ha fatto l’Inter due mesi fa!

 

MORBID FOOTBALL TALES

Io il calcio l’ho sempre seguito negli anni, certo non con la stessa passione incondizionata che avevo da dodicenne, nel tempo ho imparato a dare il giusto peso a quello che alla fine è (o meglio dovrebbe essere) solo un gioco. Non è che una vittoria dell’Inter mi cambia la vita e coi tre punti spariscono magicamente tutte le rogne che ho sulle spalle. Come scrisse molto argutamente Paolo Villaggio anni fa parlando di una vittoria della sua Sampdoria: “mi fa l’effetto di un bicchierino di whisky: per un attimo mi dà alla testa, appena finisce l’effetto torna la paranoia”. Ecco, io che nemmeno ne bevo di alcoolici non posso far altro che condividere in toto quanto espresso dal grandissimo attore genovese. Durante quella preadolescenza rovinata dal Real Madrid di cui sopra avevo cominciato ad andare saltuariamente a San Siro quando capitava e negli anni coincidenti coi miei cinque di liceo scientifico mi ero pure abbonato in curva nord, dove sarei stato presenza fissa per almeno sei anni, con un buon numero di trasferte comprese. In quegli anni visitai le curve di altre squadre (Verona, Lazio, Genoa, più quella del vicino Lecco ovviamente in più occasioni, e addirittura avevo fatto parte degli ultras della squadra del mio paese [e questo mi dovrebbe rendere piuttosto credibile come batterista di un gruppo che si chiama Gradinata Nord, no? ;-) Oltretutto il testo della nostra “hit” ‘Italia ultrà’ l’ho scritto io] ). Poi, per svariati motivi, ho abbandonato il mondo ultras, anche se le poche volte che sono tornato a San Siro nel corso degli anni sono sempre andato in curva, non riesco a concepire un posto diverso per seguire l’Inter allo stadio. L’avvento delle pay-tv fu una rivoluzione per quanto riguarda il modo di seguire il calcio: prima o andavi allo stadio o ti accontentavi della radio, cosa quest’ultima che poteva essere abbinata tranquillamente ad altre attività ed ovunque, bastava avere una radiolina portatile. Con la televisione invece devi essere in un determinato posto ad una determinata ora per un determinato tempo (un paio d’ore), e fare solo una cosa: guardare lo schermo. E in quei primi anni, pionieristici se vogliamo, di pay-tv la faccenda si svolgeva così: come location un bar di provincia (al tempo quasi nessuno aveva la pay-tv a casa, io non ce l’ho nemmeno adesso), come frequentazione una banda di vocianti uomini over-50 più qualche ragazzino e qualche rarissima signora (poi nel tempo la mediaticità sempre crescente del calcio ha attratto qualche ragazza, ma in quei primi anni, parlo delle stagioni fra 1996 e 1999 più o meno, almeno qui da noi, il pubblico era questo). Io fra 1996 appunto e 2010 (negli ultimi tre anni post-triplete avrò visto sì e no quattro partite al bar, molte le ho seguite a casa di amici/cugini, qualcuna in solitaria via internet, durante molte ho fatto altro) ho calcolato di essere stato più di cinquecento volte in alcuni bar locali (non sempre nello stesso, ma la frequentazione è sempre stata di quel genere, al massimo si è aggiunto negli ultimi anni qualche straniero), spesso facendo le acrobazie per inserire quelle due maledette ore fra impegni di lavoro (dato che si gioca anche di sabato in campionato e poi ci sono le coppe europee), di morose o frequentazioni femminili, di famiglia, di prove/concerti o di partite di calcio in cui dovevo giocare io, ecc.ecc. mentre altre volte quelle due ore sono state l’unico highlight di una domenica o di un sabato sera in cui non avevo niente di meglio da fare che accomodarmi nella saletta senza finestre di un baraccio locale (stagioni in cui non era propriamente a norma di legge trasmettere tutte le partite per un pubblico pagante!) a seguire un’Inter disastrata fra nuvole di fumo e bestemmie assortite da parte di una platea non esattamente composta da dei Monsignor Della Casa. Delle prime stagioni di pay-tv ricordo soprattutto una serie di personaggi incredibili, habituès del paio di bar (che resteranno rigorosamente anonimi) che io e i miei compagni di tifo interista frequentavamo in quegli anni fra ’96 e ’02 circa. Ricordo colui che avevamo soprannominato Il Semenzara, vista la somiglianza impressionante, anche a livello vocale, con l’attore Antonino Faà Di Bruno (defunto da più di trent’anni ormai) che aveva interpretato il Duca Conte Semenzara appunto in ‘Il secondo tragico Fantozzi’; di lui rimembrerò per sempre la scena che ora proverò a rendere su carta, anche se sarà impossibile farla uscire per come fu: partita che non ricordo, una di campionato della stagione ‘00/’01 (una di quelle tragiche della storia nerazzurra: Helsingbors, Alaves, 0-6 nel derby, devo continuare?), Inter in svantaggio, nel loculo senza finestre entra una giovanissima cameriera (l’unico essere di sesso femminile presente in quei pochi metri quadrati in quel momento) a portare le ordinazioni clandestine che gli astanti facevano pervenire al bar. La ragazzina attraversa tutta la saletta per portare un sandwich ad un signore in fondo e poi fa ritorno verso la porta, il Semenzara (che seguiva quasi sempre le partite in piedi, credo per scaramanzia…del resto pure il Semenzara del film “era preda di superstizioni e scaramantici rituali”) la insegue allungando oscenamente le mani (una mossa per noi della platea) dicendole ‘ve scià bela tusèta…’ (vieni qua bella ragazzina). E mentre la giovincella fugge, sullo schermo compare il Chino Recoba (che si appresta ad entrare in campo in sostituzione non so più di chi) con la sua solita faccia da schiaffi. Il Semenzara si arresta di colpo, dimentica la ragazzina, e si rivolge alla televisione continuando il proprio monologo con un ‘…porcudiu Recoba, matuchìn!’ (quest’ultima parola può essere tradotta come una via di mezzo fra persona estrosa e persona con serie lesioni al cervello!), gesticolando ora all’indirizzo del fantasista uruguayano. C’era poi Eltsin, un tipo sulla sessantina enorme e con una faccia paonazza come quella dell’ex presidente russo, da lì il soprannome coniato dal sottoscritto. ‘Boris’ aveva la peculiarità di seguire la partita dell’Inter ascoltando con le cuffie la radio sintonizzata su Tutto il calcio minuto per minuto e di dare quindi i gol degli altri campi in anticipo per noi presenti prima che apparissero a Tele+. Nella terribile stagione ‘97/’98 ricordo ancora con rabbia il suo “l’ha segnaa la ciona” (ha segnato la maiala) detto con voce grave quando la Juve andava in vantaggio. Poi una signora dall’età indefinibile, ma sicuramente over-60, secca come un bastone e con degli spessi occhiali dalla montatura di corno, tifosissima all’estremo e che era solita apostrofare sonoramente i giocatori in campo con aggettivi dialettali (ricordo “umìn’ per il turco Emre, cioè ‘uomo di statura e corporatura ridotte’, oppure ‘lendenùn’ per il tedesco Jancker dell’Udinese, traducibile con ‘lungagnone’), il tutto davanti ad un silente ed anche un po’ imbarazzato marito. Da lacrime agli occhi una scena durante Inter-Piacenza 3-1 della penultima giornata del campionato ‘01/’02 (la domenica prima del tristemente noto 5 maggio): l’Inter sta facendo una fatica boia contro gli emiliani, a venti minuti dalla fine siamo ancora sull’1-1 e il portiere biancorosso (Orlandoni, poi terzo portiere proprio dell’Inter per anni) ha inanellato una serie di miracoli. Finalmente al 70° è proprio il ‘matuchìn’ Recoba con una punizione delle sue a siglare il due a uno facendo esplodere il loculo. A esultanza che sta scemando un vecchietto che si metteva sempre in prima fila su quelle maledette sedie in legno e che avrà avuto circa novantacinque anni, si alza con lentezza da moviola, sempre con velocità al ralenti si avvicina allo schermo e mentre viene inquadrato un Orlandoni a terra dopo il gol subito, indirizza un clamoroso gesto dell’ombrello all’indirizzo del televisore e del portiere piacentino esclamando “teh! Asèn de ‘n asèn!” (tiè, asino di un asino). Ricordo un vecchio zio che durante una partita tranquilla (non ricordo quale fosse) si mise di punto in bianco ad attaccare il nipote, un pio oratoriano, incalzandolo con “mi eri vedüu Inter-Valencia quand che ‘ndel Valencia ‘i giugaven Figa e Troia… ti (segue il nome del nipote) che quela roba lì la te pias mia trop te sareset sübit scapaa fina sü a cà!” (io avevo visto Inter-Valencia quando nel Valencia giocavano Figa e Troia… tu xxxxxxx che quella roba lì non è che ti piaccia troppo, saresti subito scappato e saresti tornato quassù a casa!). Il nipote, visibilmente imbarazzato, fece finta di niente, ma io rimasi incuriosito da questo epico match con giocatori spagnoli dai cognomi decisamente pruriginosi. Un giorno ho fatto una ricerca su internet e ho effettivamente trovato un Inter-Valencia 3-3 della stagione 61/62, ritorno dei quarti di finale della Coppa delle Fiere (futura Coppa Uefa, ora Europa League), il cui risultato, dopo l’andata che aveva visto gli spagnoli imporsi per 2-0, eliminò l’Inter. Scorrendo il tabellino del match vedo che in effetti nel Valencia giocava un certo Ficha (autore peraltro del gol del tre a tre), ma di Troia nessuna traccia, nemmeno un Troya e nemmeno una piccola assonanza (il massimo della vicinanza è il portiere Goyo). Grossa delusione per il sottoscritto ;-), ma mi viene da chiedere dove cavolo avesse pescato il fantomatico Troia lo zio di quel ragazzo… E che dire di quell’Inter-Milan ritorno dei quarti di Champions del 2004/2005, quello in cui sull’1-0 per i rossoneri (che sommato al 2-0 dell’andata ci condannava irrimediabilmente) dalla curva nord viene lanciato un razzo che va a centrare il portiere milanista Dida. Immediatamente quattro anziani over-70/almost-80 improvvisarono una moviola umana cercando di riprodurre la scena per noi astanti: credetemi, mille volte meglio dei Legnanesi! ;-) Negli ultimi anni menzione d’onore per Flanders (un sosia totale del vicino di casa dei Simpsons), Al Bano (per la fortissima rassomiglianza con Albano Carrisi e che per varie stagioni veniva con la figlia, ovviamente soprannominata Ylenia, come la figlia scomparsa dell’Al Bano vero) e per Pornotaxi (ex tassista di professione, che conduceva oltreconfine macchinate di mariti in libera uscita per puntate a puttane negli appositi bar del Canton Ticino). E poi c’è da aprire la parentesi-razzismo. Inizio riproponendo pari pari alcune uscite di cui avevo già scritto su ‘Nessuno Schema’ # 9, partendo quindi da accenni di velato razzismo (“Quel cazo de n’arabo, podi pü vedèl!” –quel cazzo di un arabo, non posso più vederlo!-, riferito al turco Hakan Sukur), passando per tocchi di razzismo sarcastico (“Piza ‘l camper, strolèch!” –metti in moto il camper, zingaro!- quando sullo schermo compariva Lucescu, l’allenatore romeno dell’Inter per qualche mese nella stagione 98/99), fino ad arrivare al razzismo vero e proprio (“Cur negro ch’i te daa la banana! Scimia!!” –corri negro che poi ti danno la banana! Scimmia!!-, all’olandese di colore Seedorf). Negli anni dopo l’uscita di quel numero ho avuto modo di sentire con sconcertato e divertito ribrezzo quanto segue, anche qui come sopra sempre nei confronti di giocatori della propria squadra: l’attaccante della Sierra Leone Kallon viene abbattuto con un fallaccio terrificante vicino alla linea del fallo laterale dove ci sono le telecamere coi microfoni ed emette un grido di dolore piuttosto forte; astante uno: ‘sent mò che vers de scimia!’ (senti un po’ che verso da scimmia!) ad astante due che concorda con ‘see, el par propri vün de qui urangutan’ (sì, sembra proprio uno di quegli orangutan), scimmia comunque prettamente asiatica, ma non mi sembra il caso di puntualizzare troppo! Oppure quando sullo schermo nell’intervallo compariva quella pubblicità delle gomme da masticare Vigorsol in cui c’era uno scimpanzé ballerino di tip-tap che a un certo punto emetteva quei fonemi tipici dei primati tipo “uh uh”, immancabilmente un tipo nemmeno troppo su di età esclamava ogni volta “el Martins!” suggerendo una forte rassomiglianza dello scimmiotto con l’attaccante nigeriano dell’Inter (la cosa triste è che in effetti notavo pure io una vaga somiglianza fra lo scimpanzé ed il simpatico ObaOba…). Il top, quello a cui pensavo non si potesse arrivare, lo si raggiunse però in una serata di Champions, mi pare fosse Inter-Fenerbahce, finita tranquillamente 3-0, ma in cui l’honduregno di colore Suazo sbaglia un paio di gol incredibili e in un’altra occasione tira malamente ignorando un compagno liberissimo. Dopo quest’ultima cappellata un individuo sui sessanta se ne esce con ‘el neghèr ‘l g’ha propri negot en del scervèl…d’oltra part, i mai veduu vün de lur ciapà ‘n Nobel??’ (il negro non ha proprio niente nel cervello…d’altra parte avete mai visto uno di loro ricevere un premio Nobel??’), a cui rabbrividisco ancora adesso ad anni di distanza (pietrificato non osai citare almeno Mandela o Martin Luther King, ma forse il tipo intendeva premi per materie scientifiche e qui comunque ci sarebbe Arthur Lewis, caraibico e quindi nemmeno troppo distante dall’Honduras, eheh!). Ovviamente da allora io e il mio compare Angelo soprannominammo Suazo “il Nobel”. Ricordo anche una seria riflessione di mercato ad opera di un ottuagenario che, all’entrata in campo dell’improponibile kenyota Mariga su cui, secondo il commentatore-Sky, Mourinho puntava abbastanza, rivolto ad un vicino di posto constatò in maniera sconsolata che “d’oltra part al Mourinho ghe piasen i neghèr…” (d’altra parte a Mourinho piacciono i (giocatori) negri…’). Un altro anziano fu l’autore di un tremendo “dac al Muntari, tant qui lè i sent negot!” (entra pure duro su Muntari, tanto quelli lì (i negri, ovviamente) non sentono niente!), che da un lato trasudava ammirazione per la forza fisica del nostro centrocampista ghanese, ma dall’altro lo equiparava ad un mulo da soma! L’uscita fu in riferimento ad un paio di fallacci consecutivi subiti dal giocatore durante una partita contro la Samp. Una cosa che poi ho notato nel corso degli anni è che il popolo dei bar subisce una netta influenza da parte dei mass media e molte uscite sono figlie di quanto sentito in tv o (più raramente) letto sui quotidiani. Ad esempio, nel periodo in cui i rom-romeni erano diventati i folk-devils numeri uno, ricordo che il nostro difensore romeno-non rom Chivu, dopo una palla persa malamente, venne apostrofato con un “ma va a cagà, rom de merda!” (ma vai a cagare, rom di merda!). Oppure quando, durante Inter-Manchester United di Champions di quattro anni fa, come ovvia reazione al crescente numero di cinesi sul territorio italiano e al relativo allarme lanciato su tv ed organi di stampa, il sudcoreano degli inglesi Park-Ji-Sung, gran corridore, venne insultato al grido di “ma vardii se l’cur quel cinés de cazo!” (ma guardate come corre quel cinese del cazzo!). Ricordo ancora una terrificante discussione sulle origini di Ibrahimovic durante uno Spartak Mosca-Inter di Champions giocata a novembre in Russia e quindi nel gelo più totale. Ibra (nato in Svezia da padre bosniaco e madre croata, e di nazionalità svedese) giocava con una calzamaglia e forse anche un paio di guanti, per cui al ventesimo circa uno dei presenti commentò: “ma l’Ibrahimovic cuma fa ad avec frecc che l’è svedès?” (ma Ibrahimovic come fa ad avere freddo che è svedese?), come se in Svezia in inverno andassero tutti in giro in bermuda ed infradito. Pronta la risposta di un altro spettatore: “ma l’è mìa svedès, vedèt mìa el nom?” (ma non è svedese, non vedi il cognome?). Si aprì quindi un piccolo forum di discussione a più voci: “no, el g’ha la mam che l’è ‘na strolìga, l’è el pà che l’è svedès” (no, la madre è una zingara, è il padre ad essere svedese) -non tornava molto, a meno che non avesse preso il cognome della mamma-, “ma và, el pà ha de vès dela Rumanìa e l’è la mam a vès svedès!” (ma và, il padre dovrebbe essere della Romania, è la madre ad essere svedese!) -già meglio, anche se non si capisce cosa centri la Romania- , “ma el pà l’è mìa ‘n slavo?” (ma il padre non è forse uno slavo?) -fuochino, dai che ci siamo-, “ehh, u capii, l’è ‘n albanès!” (ehh, ho capito, è un albanese!) -ecco, appunto…e io che mi ero illuso- tagliò corto infine un grosso e volgare personaggio. A metà ripresa Ibra si esibisce in una rabona servendo però un giocatore dello Spartak: dal fondo del bar si leva alto un grido di una voce ancora non udita quella sera: “ma va a dà via el cü, albanès de merda!” (va bè, non la traduco, si capisce)… Ma voglio chiudere con un barlume di speranza: partita esterna, forse a Udine, Balotelli fischiato ed insultato come al solito con epiteti razzisti e quant’altro; un vecchietto se ne esce con un sentito “Mario manda a da via el cü tüc ‘sti italian de merda e va a giugà col Ghana!” (Mario, manda a dar via il culo tutti questi italiani di merda e va a giocare con la nazionale del Ghana!). Fra l’altro il pubblico dei bar ha avuto con Balotelli un rapporto per lo più positivo, credo perché lo sentisse comunque italiano al di là del colore della pelle, infatti come critica ricordo un ‘el Balotelli el g’ha propri sü la crapa de cazo di brescian!’ (Balotelli ha proprio la testa di cazzo tipica dei bresciani) -con buona pace di tutti i miei lettori di Brescia e dintorni, ovviamente, eheh!-. Certo, devo ammettere che pure io durante la visione di certe partite divento di colpo razzista, leghista, omofobico, maschilista e pure specista se è il caso! Chiaramente mi tengo tutto per me e non mi lascio andare a commenti ad alta voce, se non quando sono a casa da solo. La stagione scorsa in occasione di Inter-Marsiglia, ritorno degli ottavi di Champions (finisce 2-1 per l’Inter, eliminata per via dello 0-1 dell’andata), sullo zero a zero il portiere francese di colore Mandanda compie un mezzo miracolo su Milito: io chiedo al mio vicino di posto al bar (uomo di sinistra e convinto sostenitore di uguaglianza e rispetto fra i popoli) ‘ma chi è il portiere?’, risposta con gli occhi fissi nel vuoto ‘è un negro di merda, cazzo!!!’ …ecco, questo è l’abbruttimento (momentaneo e senza conseguenze, almeno spero) generato dagli eventi calcistici ;-). Ah, è ovvio che tutti (o quasi) questi personaggi citati li conosca per nome, ma prima di beccarmi qualche querela per diffamazione meglio stare sul vago! ;-) Il bello è che uno/a legge “partita al bar” e si immagina fiumi di alcoolici che scorrono nella più becera tradizione dei pub inglesi, in realtà, sì, qualche birra, parecchi bianchini e calici di rosso, qualche superalcoolico, ma anche parecchi caffè, bevande gassate non alcooliche ed acque minerali. Nel mio caso poi, non bevendo alcool, c’è il classico caffè pre-partita pomeridiana (per un certo periodo negli anni del Mancio i miei compari mi obbligarono a mangiare un Maxibon nell’intervallo dato che una volta che per caso l’avevo fatto eravamo sullo 0-0 contro il Messina e poi avevamo vinto nella ripresa…), oppure in caso di partite serali il caffè seguito da una lemonsoda nei mesi autunnali/primaverili o da un tè bollente in quelli invernali. Rarissimi i casi di un panino, quando non ero ancora riuscito a cenare. A volte ci stava anche la cena con pizza e acqua minerale per qualche anticipo/posticipo di sera, ma in questo caso ci si doveva spostare in un locale adatto, cioè che facesse la pizza e che facesse vedere la partita (e anche qui ci sarebbe da aprire un capitolo che per pietà vi risparmierò!). So di essere stato un malato, ne sono consapevole, ma un po’ l’irriducibile tifo interista (prima per spirito combattivo negli anni della triade moggiana, poi, dopo anni di rospi ingoiati, per passare all’incasso nelle stagioni del Mancio e del primo Mou e infine per intraprendere la ‘stairway to heaven’ assieme a Mourinho in quell’irripetibile 09/10) e un po’ la passione per il gioco che mi spingeva a guardare sempre la mia squadra (e anche le altre, negli anni ho seguito parecchi anticipi e posticipi di cartello assieme a qualche amico) sono stati più forti di ogni qualsivoglia impulso razionale. Ma come disse anni fa il Cip (fratello maggiore dello Zorro ex-Carrions N.N. e grande tifoso juventino, uno dei pochi di quella fazione che rispetto) “non puoi accostare l’aggettivo razionale alla passione per il calcio, il bello sta tutto nell’irrazionalità della cosa”. E io sono d’accordissimo. So che in tanti leggendo questo se ne usciranno con un becero e maschilista ‘ma pensate a scopare piuttosto!”, io a riguardo ho un aneddoto illuminante. Nel periodo in cui convivevo, si deputava pressochè sempre il sabato sera alla sessione di natura amorosa più completa e prolungata, diciamo così. Un sabato però uno dei due aveva mal di testa, nello specifico io (che sono cronicamente affetto da una forma di cefalea a grappolo non pesantissima, ma abbastanza forte da rompere le balle), per cui la ‘session’ venne rimandata alla mattinata successiva. Fra ritardi, imprevisti, pranzo più varie ed eventuali si arrivò alla una e trenta del pomeriggio, esattamente un’ora e mezza prima di Inter-Chievo che avrei visto al bar assieme all’Angelo e al Mauro (un altro Mauro, questo è l’attuale senatore del PD fresco di nomina –nota 2013. No, non è lui quello di Inter-Marsiglia, per la cronaca). Sapendo che non sarei riuscito a cavarmela con un solo ‘one shot kill’ e anzi dovendo per contratto garantirne almeno due, sfoderai una cronometrica prestazione da Maicon del talamo con un occhio costante alla sveglia con orologio, prima di rivestirmi in fretta e furia e di arrivare di corsa al bar sulle note di “Destroy-oh-boy!“ dei New Bomb Turks a manetta sull’autoradio, prendendo posto proprio mentre la partita era appena iniziata. I due gol di Ibra di quel giorno per il vittorioso 4-2 finale giustificarono completamente tutto questo teatrino, credetemi! Un teatrino che affonda le sue radici molto indietro nel tempo, diciamo negli anni che vanno dal 1982 al 1986, più o meno. I primi anni in cui seguivo il calcio ed ero costantemente affamato di notizie su questa o su quella squadra, su questo o su quel giocatore, su tutto quanto avesse a che fare col magico mondo del pallone. Divoravo guerin sportivi, gazzette e qualsiasi altro giornale parlasse, anche solo per poche righe, di calcio e cercavo di vedere tutto il (poco) football che passavano in televisione. E ogni nuova stagione iniziava per me alla stessa maniera di quella precedente. Quando avevo undici, dodici, tredici e anche quattordici anni, l’estate significava soprattutto una lunga vedovanza dal campionato di calcio. Certo, mi divertivo in altri mille modi diversi, ma sentivo che mi mancava qualcosa, e le pagine della Gazzetta dedicate al calciomercato invece di lenire un po’ la mia nostalgia la incrementavano ulteriormente. Pensate anche al fatto che all’epoca non c’era Telelombardia coi suoi talk-shows a sfondo calcistico e che delle prime amichevoli d’agosto delle squadre di serie A al massimo potevi leggere qualche trafiletto sulla suddetta Gazzetta, di immagini neanche a parlarne, non come adesso che, volendo, puoi guardare anche Inter-selezione altoatesina… Insomma, bisognava aspettare i gironi di Coppa Italia per vedere finalmente un po’ di calcio in tv. All’epoca la coppa nazionale partiva attorno al 20 di agosto, partecipavano tutte le squadre di serie A, tutte quelle di B, le quattro retrocesse dalla B della stagione precedente più le squadre dalla terza alla sesta dei due gironi di C1 sempre della stagione conclusasi tre mesi prima, divise in otto gironi da sei squadre ciascuno. Niente diretta radio, per conoscere i risultati bisognava aspettare lo speciale televisivo sulla Rai in onda a tarda notte. Io consultavo ansiosamente la guida tv e vedevo che lo speciale era programmato per mezzanotte. Alle ventitre e trenta ero già davanti al video, casomai venisse anticipato. In realtà veniva quasi sempre posticipato, ma non di dieci minuti, capitava spesso che iniziasse mezzora dopo l’orario indicato e una volta, grazie ad un osceno sceneggiato, ci furono quasi cinquanta minuti di ritardo. Io, che mi tenevo sveglio a tazze di caffè freddo (ecco perché sono sempre nervoso, dev’essere l’eredità di tutto quel liquido buttato giù ai tempi…), quella notte ero sul punto di sfondare lo schermo per vedere se riuscivo a prendere a schiaffi e pugni gli attori di quell’interminabile atrocità in bianco e nero! Una volta iniziato finalmente lo speciale-coppa italia non è che ti davano subito i risultati di tutti i gironi e poi facevano vedere le varie immagini. No, si andava girone per girone. L’Inter, negli anni in esame, per fortuna era sempre almeno nei primi quattro, ma non tutte le volte si andava in ordine di numerazione, figurarsi! Una notte dell’estate ‘85 dovetti aspettare praticamente la fine della trasmissione per scoprire che l’Inter aveva pareggiato 1-1 con l’Empoli (all’epoca squadra di serie B), dopo essermi sorbito lunghissime sintesi di match “di cartello” tipo Salernitana-Pescara, Arezzo-Cagliari, Varese-Sambenedettese e Catanzaro-Campobasso… Ed erano cinque notti così, solitamente tre mercoledì e due domeniche, ma erano notti di cui ancora adesso sento il fascino. Rivedere, seppur solo in televisione, San Siro, l’Olimpico, Marassi, il Comunale di Torino, il San Paolo, il Bentegodi, ecc.ecc., dopo circa tre mesi di totale black-out, era per noi ragazzini in età da scuole medie un qualcosa di elettrizzante. Come lo era vedere i nuovi acquisti della propria squadra e anche delle altre, vedere per la prima volta nomi di cui si era letto solo qualche riga sulla solita Gazzetta o sul Guerin Sportivo. Era il fascino del calcio degli anni ottanta, quando per noi giovincelli era, sia nel pallone che nella vita, un continuo scoprire cose nuove. Adesso sarò banale e dirò le cose che avrete già letto e sentito mille volte da parte di chi, come me, è cresciuto in quegli anni: il campionato tutto di domenica pomeriggio, la radio con Tutto il calcio minuto per minuto (la ascoltavamo giocando a pallone al campetto, l’ho ascoltata mentre pescavo su un canale o sul lago, l’ho ascoltata in macchina con altra gente, il più delle volte l’ho ascoltata a casa in febbrile attesa delle notizie dal campo dove giocava l’Inter), la tele con 90° Minuto prima di cena con Paolo Valenti dallo studio centrale a coordinare i vari pittoreschi inviati di cui si è già detto e scritto molto, e poi la sintesi di una partita di cartello, Domenica Sprint su Rai2 alle venti e infine alle ventidue e trenta la Domenica Sportiva con gli approfondimenti e le interviste. E il lunedì mattina la Gazzetta e il dibattito coi compagni di scuola. E poi il mercoledì di coppa, tutte e tre le competizioni europee in quel giorno divise fra pomeriggio e sera. Le rare dirette e poi la notte del giovedì c’era Eurogol dove si potevano vedere per pochi secondi scorci di stadi mitici quali Anfield Road, il Bernabeu, l’Olympiastadion di Monaco di Baviera o il Prater di Vienna. E sempre per pochi attimi le gesta di giocatori che conoscevamo solo dai giornali, come Dalglish, Vercauteren, Giresse e mille altri. E i mondiali di 82 e 86, gli europei dell’84, le partite delle qualificazioni o le amichevoli in diretta su Telemontecarlo, immagini che divoravamo con gli occhi, quando il calcio straniero era realmente tale, non come adesso che l’Italia va in Armenia e non sembra nemmeno di essere usciti dai patri confini, che ovunque si giochi sembra sempre di essere nello stesso stadio. Ultimamente la Juve ha giocato in Champions in Ucraina a Donetsk contro lo Shakhtar. Ci fu un precedente in Coppa Uefa nel dicembre del 1976, allora Donetsk era in Unione Sovietica. Vi rendete conto del fascino di quella partita di ormai trentasette anni fa? Io di anni ne avevo solo quattro, per cui ero troppo piccolo e non seguivo nulla, ma posso immaginare la partita in eventuale diretta tv, la sigla dell’eurovisione e la diretta da un altro pianeta! Scorro adesso il tabellino di quel match (vinto 1-0 dallo Shakhtar, ma la Juve si era imposta 3-0 a Torino e passò il turno comunque) e nello Shakhtar vedo solo cognomi ucraini o russi (e solo italiani nella Juve, in Italia quelli erano anni di chiusura delle frontiere per i calciatori stranieri). E cerco di figurarmi questo posto lontano e misterioso tagliato in due dall’altrettanto misterioso fiume Kalmius, le sue miniere di carbone, i militari sovietici in ogni dove. E lo spettro della Guerra Fredda che permea ogni angolo di strada spazzato dal vento che soffia dalla steppa. E qui in Italia nessuno che sa bene dove si trovi di preciso questa città, sì è al di là della Cortina di Ferro, in Unione Sovietica, ma nessuno saprebbe indicarla sulla cartina (forse solo qualche patito di calcio, che noi siamo tutti grandi esperti di geografia grazie alla nostra passione pallonara). E adesso nel 2012? Diretta tv ultra-patinata su Premium e Sky, sponsors in ogni dove, stadio modernissimo, la squadra è piena di brasiliani, in giro ex militari corrotti e vecchi politici arricchiti. La città guarda ad occidente e adesso in Italia sappiamo che Donetsk è in una nazione chiamata Ucraina, lo sappiamo perché la associamo a badanti e puttane che vengono da noi. Adesso che esista una città chiamata Donetsk lo sa anche il medio-man perché ha scopato una prostituta ucraina originaria di lì. E lui, maledetto ignorante, pensa che sia un posto buono solo per le troie, senza conoscere la storia del fiero popolo ucraino (sono un po’ di parte, dato che il ceppo originario dei Canclini pare giunse in Alta Valtellina proprio dall’Ucraina!) e senza immaginare tutto quello che detto popolo ha subito nel corso del tempo. No, restando sul calcio, nemmeno le coppe europee hanno più il fascino di una volta. Purtroppo il dio soldo ha dato moltissimo in termini economici al circo del pallone, ma ha tolto altrettanto a livello di fascino. Una Champions League in cui vedi la stessa sfida (esempio Milan-Barcellona) fino alla nausea, quando una volta questa era una partita che capitava una tantum e proprio per questo vissuta come un vero e proprio evento. E poi io, che pure sono internazionalista, non sopporto più di vedere brasiliani (soprattutto) naturalizzati turchi, ivoriani, croati e chi più ne ha più ne metta, a questo punto aboliamo le nazionali o convertiamo pure loro al mercato globale dei calciatori, tanto ormai… E non sto parlando di becerate subumane tipo ‘non ci sono negri italiani’, che un Balotelli o un Okaka sono italiani tanto quanto me e chiunque altro sia nato e cresciuto in questo paese di merda. Che non sopporto sono i naturalizzati per convenienza e, restando in Italia, gli oriundi (dato che giocano in azzurro per semplice opportunismo, visto che evidentemente non sono all’altezza delle nazionali dei loro paesi d’origine, solitamente Argentina o Brasile…). E a me della nazionale non me n’è mai fregato nulla, anzi, ho sempre odiato che per far giocare delle insulse amichevoli o delle noiosissime partite di qualificazione a mondiali o europei, si debba fermare il campionato. E mondiali ed europei li ho sempre seguiti in maniera neutra, da semplice amante del gioco del calcio. Odiando poi con tutto il cuore quelle ridicole manifestazioni di populismo in caso di qualche vittoria della nazionale. Io tifo Inter non Italia (o altre nazionali, se è per questo). Eppure tutti noi ex-ragazzini cresciuti col calcio dei primi anni ottanta, che ci riconosciamo perfettamente nell’abusatissimo slogan “No al calcio moderno”, continuiamo ugualmente a seguire questo sport usando proprio quei modernissimi mezzi che il progresso ci ha messo a disposizione: le pay-tv, internet, gli iPhone… Allo stadio, complici anche trafile burocratiche da seguire che ricordano come difficoltà quelle per ottenere il visto per l’U.r.s.s. negli anni 70 e senza contare i prezzi dei biglietti decisamente troppo alti, non ci andiamo quasi più. Schifati oltretutto da misure di sicurezza assurde, tipo trasferte vietate a tifoserie gemellate con la squadra di casa (e di contro di trasferte consentite a tifoserie storicamente accese rivali di quelle ospitanti), di quei maledetti tornelli oltretutto funzionanti nella metà dei casi in pieno Italia-style, di controlli minuziosi al bambino con l’ombrello o alla signora con la bottiglietta d’acqua in plastica mentre nello stadio (soprattutto in certi stadi) entra di tutto, di biglietti vendibili solo ai residenti di una determinata provincia (mossa cervellotica, per usare un eufemismo), per non parlare dell’assurda ‘tessera del tifoso’ (altro che “la gente non va più allo stadio per via della troppa violenza”…chi c’era negli anni ottanta, quando gli stadi di ogni serie erano sempre pieni, si ricorderà che da quel punto di vista allora era decisamente peggio!). Certo, non è che adesso io segua il calcio con lo stesso parossismo di quando avevo dodici anni, né con la costanza di quando di anni ne avevo fra i venticinque e i trentacinque, more or less. Ora sono nella fase che se ho tempo e niente di meglio da fare la partita me la guardo, se no scoprirò il risultato quando potrò (la stagione scorsa ad esempio non ho visto il mio primo derby dopo secoli, per la cronaca quello vinto dall’Inter 4 a 2). Sono tuttora capace (e l’ho già fatto svariate volte) di guardarmi un intero Novantesimo Minuto Serie B o anche quello speciale-Lega Pro che fanno il lunedì su Rai Sport all’ora di cena, però solo se capita che mentre faccio zapping mi escano le immagini di qualche campo di provincia. Non riesco invece, ma non ci sono mai riuscito se non da ragazzino, a guardare partite di campionati esteri tipo francese, portoghese, brasiliano o argentino (quelli che si vedono in chiaro), solitamente vengo colto da una noia mortale dopo pochi secondi! Temo sarebbe lo stesso anche per partite spagnole, tedesche e forse anche inglesi. Anche perché mi rendo conto che io per guardare una partita (e non degli highlights, lì è già differente) devo tifare per o contro una squadra. Quindi i match europei (o, se capita, di campionato) di Juventus o Milan li guardo eccome ;-), altre partite faccio sinceramente fatica a guardarle per intero, nonostante la passione per il gioco a livello tecnico/tattico sia rimasta la stessa di quando avevo dieci anni. Devo anche ammettere che a volte, quando su Rai Sport fanno vedere vecchie sfide anni settanta o ottanta (fra nazionali o fra squadre di club), rimango come ipnotizzato per parecchi minuti a seguire le geometrie di una partita di trentacinque anni fa e di cui ovviamente conosco già il risultato. Poi torno in me, ma per almeno venti minuti (di un Ajax-Real Madrid di Coppa dei Campioni 72/73 ho visto tutto il secondo tempo: cazzo, ma come giocava quell’Ajax??) il fascino del calcio di una volta ha saputo imporsi con una forza mille volte superiore a quello dei giorni nostri (dubito fortemente che fra trent’anni, se sarò ancora su questa terra, beninteso, mi guarderò con lo stesso piacere il comunque avvincente Manchester United-Real Madrid di questa stagione ancora in corso!). E poi, per quanto mi riguarda, dopo il maggio del 2010 il calcio non è più stato lo stesso e il mio modo di seguirlo è decisamente cambiato. Il maggio del 2010, l’anno del Triplete della mia Inter!

 

THE WINNER TAKES IT ALL

La stagione 2009/2010 è stata quella che nemmeno il più ottimista dei tifosi nerazzurri avrebbe anche solo osato sognare. Una stagione conclusasi in maniera incredibile nonché irripetibile (dall’Inter di sicuro, ma anche da altre squadre italiane per molti e molti anni a venire. Ricordando anche che questa impresa in più di un secolo di calcio è riuscita solo alla squadra meno titolata di Milano, noi nerazzurri per chi non l’avesse capito!). Ho sentito quindi il dovere di scriverne, raccontando come io abbia vissuto quell’esaltante cavalcata fino alla finale di Madrid. L’estate 2009 porta grandi cambiamenti nella squadra nerazzurra: in panchina c’è sempre Josè Mourinho, ma vengono ceduti i vari Cruz, Crespo, Adriano, Burdisso, Dacourt, Jimenez, Rivas ed Obinna, mentre Figo chiude col calcio giocato. Arrivano dal Genoa due giocatori poco considerati dai più, visto che quasi nessuno dei superficialoni che infestano la stampa sportiva italica è andato a dare un occhiata approfondita alle loro carriere: uno è il Principe Milito, centravanti argentino che ha sempre giocato “in provincia”, sia in Italia che in Spagna, ma che ovunque ha segnato caterve di gol; l’altro è il centrocampista-metronomo Thiago Motta, brasiliano di origini italiane, grande promessa del Barcellona dei primi anni del duemila, finito poi ai margini del calcio che conta per via di un gravissimo infortunio. A metà estate la nostra tanto vituperata (quasi sempre a ragione, comunque) dirigenza piazza un colpo a cui ancora adesso faccio fatica a credere: viene venduto Ibrahimovic al Barcellona in cambio di 50 milioni più Eto’o (il bomber camerunense che sognavo di vedere in maglia nerazzurra da anni e che mai avrei pensato potesse realmente arrivare, in questa maniera poi!) e addirittura i nostri riescono a farsi dare anche 4 milioni, sempre dal Barca, per il terzino brasiliano Maxwell. Mourinho, la cui unica pecca sta nella scelta dei giocatori (vedasi Quaresma), vorrebbe Carvalho come difensore centrale e Deco come trequartista, ma una dirigenza in stato di grazia gli porta dal Bayern Monaco (a soli 3 milioni) Lucio (il capitano della nazionale brasiliana) per la difesa, mentre dal Real Madrid (per 15 milioni) arriva a fine mercato Wesley Sneijder, trequartista olandese in rotta con le merengues (io ne sono entusiasta, avevo visto giocare questo Sneijder solo due volte, una con la nazionale e una col Real, ma me ne ero innamorato seduta stante. Vederlo con la nostra maglia era fantastico, specie per l’esordio impressionante nel derby vinto 4-0). Torna poi Suazo dal prestito al Benfica, che si giocherà il ruolo di quarta punta con l’austriaco Arnautovic, giovane attaccante giunto in prestito dagli olandesi del Twente. Insomma, il trio Moratti-Oriali-Branca stavolta ha fatto le cose davvero come si deve e ci presentiamo quindi al via della stagione con una rosa decisamente molto competitiva, sia per l’Italia (dove già vinciamo lo scudetto sul campo da tre stagioni), sia, forse e finalmente, per l’Europa (sarebbe anche ora di mettere a tacere le varie “prostitute intellettuali” -citazione mourinhiana- che da anni blaterano di Inter che vince solo grazie a Calciopoli -vero, ma in parte, come vero è che prima non vinceva anche grazie ai fatti che hanno originato Calciopoli. Eh, ma telefonava anche Facchetti! E per cosa? Per non vincere poi un cazzo? E dai…- e che in Europa mostra il suo vero volto di squadra perdente). In porta Julio Cesar, arrivato come emerito sconosciuto e diventato in breve tempo uno dei portieri più forti al mondo, in difesa il duo di centrali Samuel-Lucio che fa paura a qualsiasi attaccante, ai lati il dirompente Maicon e l’adattato al ruolo Chivu. Centrocampo con l’eterno capitano Javier Zanetti e l’allenatore in campo Cambiasso, a cui si aggiungono Thiago Motta o il guerriero serbo Stankovic. Sneijder trequartista dietro al duo di punta Eto’o – Milito. In panchina alcuni interisti di lungo corso quali il portiere ora di riserva Toldo e i difensori Materazzi e Cordoba, più il giovane Santon. Poi i centrocampisti Muntari e Vieira, gli esterni “Testone” Mancini e il trivella Quaresma, e il rampante Balotelli in qualità di vice Milito o di vice Eto’o a seconda della bisogna, con Suazo ed Arnautovic di rincalzo. Completano la rosa i giovani Krhin, Donati e Stevanovic, più il terzo portiere Orlandoni e il quarto goal-keeper Belec. Era doveroso ricordare tutti quanti gli eroi di quella stagione, oltre naturalmente allo staff tecnico di Mou, col vice Beppe Baresi e gli assistenti Rui Faria, Daniele Bernazzani e Josè De Morais. Mi fermo qui, perché se no riempio una pagina di nomi, fra area direttiva, organizzativa, sanitaria, ecc.ecc. Grandi cambiamenti nella squadra nerazzurra, dicevo, ma grandi cambiamenti anche nella vita di chi scrive. Quell’estate infatti si chiude una relazione durata sei anni, con convivenza e tutto il resto di contorno. Decido quindi che la stagione 09/10 sarà un anno sabbatico, lo deputerò (lavoro a parte) ad attività cosiddette “di scarico” quali giocare a calcio o calcetto il più possibile, ascoltare musica a tonnellate, curare la fase finale della lavorazione all’album dei Gradinata, portare a spasso i cani, sistemare l’appartamento della mia defunta nonna dove voglio tornare a vivere (e da cui sto scrivendo ora) e, naturalmente, seguire la mia squadra (in veste di ultrà da bar e/o poltrona, ovvio). Nel mio programma stagionale non sono contemplate ragazze o donne, e non sarà certo un problema tener fede a questa decisione, dato che senza andarmele a cercare a me capitano meno occasioni di quelle da gol che capiterebbero al centravanti dell’Oratorio Suello (nome preso a caso fra le squadre di bassa classifica della Terza Categoria del lecchese) durante un ipotetico match contro il Barcellona al Camp Nou! Anno sabbatico quindi, se dovessi dedicarci un 7” dei Sabbat (la black/thrash band giapponese nota per le interminabili serie di singoletti su vinile, spesso intitolate ‘Sabbatical qualchecosa’) lo chiamerei “Sabbatical demonwanker”, visto quanto appena scritto! Ascoltare musica a tonnellate era un altro dei dettami che mi ero imposto e, dato che io vado molto a periodi (ad esempio, per sei mesi ascolto solo black metal, poi per tre solo hardcore statunitense, poi ne passo quattro ad ascoltare punk britannico, poi due mesi di prog anni settanta, ecc.ecc.), è il momento dell’heavy metal classico degli 80’s! Specie di quello statunitense delle bands cosiddette minori, rispetto ai grossi nomi. E così (ri)scopro grandissimi gruppi quali i Manilla Road e i Cirith Ungol, più Attacker, Omen, Damien Thorne, Crimson Glory, ecc. e mille bands sconosciute ai più su oscure compilations, oltre chiaramente a nomi di spicco come Manowar, Warlord e Fates Warning. Mi concedo anche qualche puntatina nel doom con Saint Vitus, Trouble e l’italianissimo Paul Chain, e nel thrash nordamericano dei primordi (Metallica, Exodus, VoiVod, ecc.). Questa è stata per me la colonna sonora del Triplete, la notte di Madrid più che l’abusata “We are the champions” dei comunque grandissimi Queen, nella mia testa risuonava piuttosto “Blood of the kings” dei Manowar, plasmando con la mente la copertina dell’album “Kings of Metal” dei nostri, immaginando il guerriero vestito in nerazzurro e con ai piedi le bandiere dei vari Chelsea, Barcellona e Bayern. Quella stagione le partite dell’Inter le ho viste tutte (qualcuna a metà come vedrete, comunque tutte: le 13 di Champions, le 38 giornate di campionato, le 5 partite di Coppa Italia e la partita di Supercoppa Italiana ad inizio stagione persa contro la Lazio), del resto come rappava Frankie Moneta “quelli con la figa a volte sono assenti, ma quelli senza sempre presenti”. L’unica altra stagione in cui non ne persi una fu il 98/99, la stagione disastrosa coi quattro allenatori (motivo? Beh, l’ha già detto il Moneta no?). I sorteggi di fine agosto 2009 ci mettono nel girone coi detentori del trofeo (il Barcellona) e due squadre dell’ex U.r.s.s., i russi del Rubin Kazan e gli ucraini della Dinamo Kiev. Non è un girone facile, ma è d’obbligo passare come secondi (il primo posto è già appannaggio del Barca ancora prima di cominciare!).

 

Inter-Barcellona 0-0 – 16 settembre 2009
Giornata settembrina di pioggia leggera, la partita la danno in diretta tv in chiaro quindi me la guardo a casa. Non ho particolari ricordi di questa sfida, se non che fu un match abbastanza bloccato con una mega-occasione per il fischiatissimo Ibra di segnare il gol dell’ex ad inizio partita e una meno evidente per noi con Milito più avanti. Alla fine mi restò la consapevolezza di potercela giocare con tutti, di sicuro eravamo inferiori ai campioni d’Europa in carica, ma ce l’eravamo giocata.

 

Rubin Kazan-Inter 1-1 – 29 settembre 2009
La partita è alle 18.00, si gioca nella Russia più profonda, a una notte di treno da Mosca. Alle 17.00 sul lavoro spacchiamo un tubo dell’acqua non previsto in una zona dove il proprietario (presente durante le operazioni) della villetta vicino alla quale stiamo lavorando aveva garantito non passasse nulla. La fuoriuscita dell’acqua in breve tempo raggiunge la villetta dei vicini, posta in posizione più bassa e, passando attraverso un muro in sasso a secco intonacato solo all’interno, filtra nel salotto… I dipendenti comunali chiamati d’urgenza non trovano subito la saracinesca per chiudere la mandata e nel frattempo nel suddetto salotto circolano almeno dieci centimetri d’acqua. Trovata e chiusa finalmente la saracinesca passiamo una buona oretta ad asciugare il salotto e a riparare la tubazione (e meno male che i proprietari della villetta semi-allagata ebbero il buon cuore di non tirar fuori rogne!), per cui riesco ad arrivare al bar solo all’inizio del secondo tempo, quando il risultato è già sull’1-1 (al gol dei russi in apertura ha risposto Stankovic). Tempo pochi minuti e l’Inter rimane in dieci a causa dell’espulsione di Balotelli (croce e delizia del popolo nerazzurro come al solito). Portiamo a casa un pareggio da non disprezzare, anche se sarebbe ora di iniziare a vincere qualche partita.

 

Inter-Dinamo Kiev 2-2 – 20 ottobre 2009
Arrivo al bar direttamente dalla Valsassina, dopo aver fatto tardi per finire un tetto, in stato catartico dovuto all’ascolto lungo la strada del primo album dei Saint Vitus. Entro con qualche minuto di ritardo e vengo accolto da un pensionato locale (ex elettricista per l’Enel) con “uei Canclini, en pert giamò!” (trad. – stiamo già perdendo)…”ah, benissimo!” rispondo io con la disillusione tipica di noi tifosi interisti (anche dopo qualche anno di vittorie nazionali) e mi accomodo a vedere la partita. Stankovic pareggia su una cappella della difesa ucraina, poi loro ritornano in vantaggio, Samuel pareggia nuovamente con una gran capocciata e nel finale il “nobel” Suazo si mangia il possibile tre a due… torno a casa sapendo che o si vince a Kiev e poi si batte il Rubin in casa (visto che a Barcellona ho già previsto zeru punti) o se no addio Champions anche per quest’anno. Vabbè, almeno Sheva non ci ha fatto gol (cosa su cui avrei scommesso, ma come vedrete ho sbagliato solo di un paio di settimane!).

 

Dinamo Kiev-Inter 1-2 – 4 novembre 2009
Bisogna andare a vincere nel gelo di Kiev, se no anche per quest’anno la coppa se ne va e gli sfottò si moltiplicano… Partita in diretta tv in chiaro, mi piazzo sotto le coperte ed idealmente alla finestra per vedere cosa saremo capaci di fare. E subito prendiamo gol… Da chi? Ma da Shevchenko ovviamente! Dopo ben 14 gol nei derby questo riesce a farcene un altro anche adesso che è in fase calante (grandissimo attaccante l’ucraino, sia chiaro). Da lì fino a cinque minuti dal termine la partita è bruttarella, noi facciamo fatica e loro non sono poi ‘sta grande squadra. Poi succede che Milito si trova la palla buona a centro area, la gira prontamente verso la porta e in qualche maniera questa finisce in fondo al sacco. Uno a uno e adesso si può provare a vincere. E l’Inter ci prova eccome, tutti avanti, un paio di occasioni nello spazio di altrettanti minuti e all’89° dopo un batti e ribatti da infarto nell’area piccola degli ucraini è Sneijder ad infilare il 2-1 che sarà anche il risultato finale! Io mi ritrovo per terra sul pavimento ad esultare come un cretino con addosso il mio pigiamino dei Motorhead (leggasi una felpa della band di Lemmy che indosso spesso nei mesi freddi come pigiama, anche per via del cappuccio da mettere in testa quando la notte spengo il riscaldamento). Può essere la svolta della stagione europea!

 

Barcellona-Inter 2-0 – 24 novembre 2009
Adesso c’è la formalità-Barcellona, formalità nel senso che è una partita già persa prima di cominciare, dato che in quel momento della stagione la differenza fra noi ed i catalani è enorme. Vado al bar per fare atto di presenza in pratica. Fra i blaugrana manca il fenomeno Messi, e per fortuna, dato che andiamo sotto dopo pochi minuti e poco dopo ne prendiamo un altro. “E dü!” (e due!) commenta un anziano signore dietro di me, ormai siamo pronti a subire una goleada, ma signorilmente il Barca (privo anche di Ibra) toglie il piede dall’acceleratore e si accontenta di contenere la nostra (inesistente) reazione, mantenendo quel 2-0 che sarà anche il risultato finale.

 

Inter-Rubin Kazan 2-0 – 9 dicembre 2009
Quest’anno è già la terza volta che siamo sulla tv in chiaro. Meno male dato che sono a pezzi dopo una giornata passata sui tetti di un complesso di capannoni cercando di non mettere i piedi su quelle lastre di copertura ammalorate che stiamo sostituendo e che sono sparse un po’ ovunque, col rischio di fare un volo nel vuoto all’interno della fabbrica e di schiantarmi sul pavimento, così che la partita di stasera finisco a vedermela assieme all’avvocato Prisco! Arriva il fischio d’inizio, sono fiducioso, stasera si vince! E il mio ottimismo trova conferma nell’1-0 del grande Eto’o con cui andiamo a riposo. A metà ripresa superbomba di Balotelli su punizione e ottavi guadagnati senza neppure troppa fatica, almeno limitatamente a quest’ultima partita. Da secondi, ovviamente, dietro il Barcellona stellare, e quindi da sorteggiare contro una delle prime degli altri gironi. Ci tocca il Chelsea allenato da Carletto Ancelotti, nostro rivale nei derby negli ultimi sette anni e che ci conosce quindi piuttosto bene.
La sessione di mercato invernale porta a qualche cessione (Vieira va al Manchester City, Suazo al Genoa in prestito, idem per Amantino Mancini che finisce sull’altra sponda del Naviglio dai cuginastri rossoneri) e ad un paio di acquisti (dalla Lazio arriva l’attaccante macedone Pandev, per lui un ritorno avendo già giocato nella Primavera nerazzurra, mentre dal Parma viene prelevato il centrocampista kenyota Mariga). Mourinho troverà la quadratura del cerchio inserendo Pandev e spostando Eto’o sulla fascia per un terzetto d’attacco coi due laterali che si fanno un mazzo così rientrando in copertura (anche per questo Eto’o è un vero campione, altro che certi viziatelli che si credono chissà che fenomeni…). L’Inter pian piano cresce e diventa una vera e propria macchina da guerra, con Milito che a fine stagione conterà ben 30 gol. E a febbraio torna la Champions, stavolta con le sfide ad eliminazione diretta, finalmente. Si torna a sentire un po’ il sapore di quegli anni ormai andati per sempre.

 

Inter-Chelsea 2-1 – 24 febbraio 2010
Diretta tv in chiaro. Arrivo a casa tardi e quindi ceno svaccato sul letto mentre la partita comincia. Tempo pochi minuti e quasi mi strozzo col minestrone di farro che sto mangiando perché el principe Milito infila un eurogol da urlo! Giochiamo bene, ma il Chelsea non ci sta e si fa sotto. A fine primo tempo Samuel commette un evidentissimo fallo da rigore e da ultimo uomo su Kalou, sarebbero rigore ed espulsione sacrosanti, ma l’arbitro spagnolo Mejuto Gonzalez e i suoi collaboratori non la pensano così e ci graziano. Ad inizio ripresa arriva comunque il pari dei blues proprio con l’ottimo Kalou, prima che una fiammata di reazione dell’Inter porti al rabbioso 2-1 di Cambiasso. Teniamo fino alla fine e, vada come vada il ritorno, finalmente vinciamo una partita degli ottavi dopo quattro anni.

 

Chelsea-Inter 0-1 – 16 marzo 2010
La stagione sta prendendo una piega inaspettata fino a poche settimane prima: l’Inter sta perdendo terreno in campionato e l’enorme vantaggio accumulato sulle seconde si sta riducendo sempre di più, con Milan e Roma che si stanno facendo sotto pericolosamente. Io rifletto che il doppio impegno campionato-coppa sta logorando eccessivamente il gruppo e che sarebbe il caso di concentrarsi su uno solo di questi, nella fattispecie il campionato, dato che la coppa non la vinceremmo mai e non vorrei che per fermarsi ai quarti o al massimo in semifinale si finisca col far vincere lo scudetto ai cuginastri o ai giallorossi con l’incubo degli “zeru tituli” che diventa realtà. Per cui quella sera vado al bar con in testa il motto del presidente Borlotti della Longobarda in “L’allenatore nel pallone”: perdere e perderemo! Non che vada a tifare contro, punto solo ad una sconfitta di misura con una bella prestazione: fuori dall’Europa, ma con un bel po’ di autostima guadagnata che sarà utile a rivincere il campionato. Però, dopo il primo tempo passato indenni, comincio a rendermi conto che stiamo giocando da grande squadra, altro che balle! E man mano che la partita prosegue inizio ad ingolosirmi e a pensare che forse stiamo entrando in forma per il rush finale della stagione, che forse il calo era nell’ordine delle cose, che se passiamo questa e ai quarti non troviamo il Barca, insomma vuoi mai che… E poi quell’azione da manuale del calcio col lancio di Sneijder di quaranta e passa metri per Eto’o che fila in porta e la mette da campione nella porta dei londinesi. La vera svolta della stagione è stata questa, andare a vincere in casa di una delle favorite e facendo un partitone. Il sorteggio per i quarti ci mette di fronte al Cska Mosca, gente, qui se non facciamo cazzate siamo già in semifinale! I russi non sono certo una squadretta, ma l’Inter ha il dovere di buttarli fuori senza appello, ci mancherebbe altro, uscire con loro dopo aver demolito il Chelsea sarebbe imperdonabile.

 

Inter-Cska Mosca 1-0 – 31 marzo 2010
La danno in diretta tv in chiaro, a un’ora dall’inizio io sono a casa a cazzeggiare al computer “aspettando solamente il fischio d’inizio” (citando da un pezzo degli Erode) ed ascoltando Telelombardia con le ultime da San Siro. Ad un certo punto suona il mio cellulare, penso “ma chi cazzo rompe i maroni adesso?!”, sul display vedo il numero di casa dei miei, rispondo, è mia madre quasi in lacrime che mi dice che il suo cane (Brett, di cui avrete già letto nel report del concerto milanese dei Bad Religion) è stato investito da un auto, versa in condizioni piuttosto critiche e necessita di essere portato d’urgenza dal veterinario. Mio padre non c’è, quindi tocca a me andare a prendere lei e il cane per portarli a Morbegno dal medico. Metto giù, bestemmio abbondantemente all’indirizzo delle varie divinità delle religioni più diffuse nel mondo (proprio stasera che c’è l’Inter ai quarti di Champions?!), ma per il Brett questo ed altro, ci mancherebbe dopo quasi quindici anni di amicizia umano/canina. Arrivo dai miei ed in effetti il cane versa in cattive condizioni, il parafango dell’auto gli ha praticamente scuoiato una parte del collo e calcolando l’età avanzata del soggetto c’è anche il rischio che muoia per qualche effetto collaterale. Percorro a manetta la statale fino a Morbegno ricordandomi di essere stato per qualche anno autista di ambulanze e di aver percorso la stessa strada più di una volta al volante di un mezzo della Croce Rossa con dietro persone in condizioni anche disperate (una mattina, quasi all’alba, a metà strada il medico, un modenese dell’Asl, dal retro mi battè su una spalla e mi disse di andare pure piano adesso, che il paziente era deceduto…). Arriviamo, il veterinario ha convocato d’urgenza il suo aiutante e i due sottopongono Brett ad un’operazione abbastanza complessa, vista soprattutto l’età del cane. Professionalissimi e pure dalle tariffe congrue, i due tengono il bastardino sotto i ferri per quasi un’ora e mezza ricucendolo e somministrandogli flebo a nastro, mentre io e mia mamma aspettiamo in sala d’attesa. Guardo l’orologio alla parete e vedo che la partita è appena iniziata…cristo, non c’è neanche un bar qui vicino. Mando un sms all’Angelo con richiesta di aggiornamento in caso di gol e mi risiedo. L’operazione si conclude con successo (anche se Brett morirà qualche tempo dopo per cause cardiache indipendenti dall’incidente in questione) e a me non resta che ricaricare in auto madre e cane e di imboccare la statale al contrario, sempre a manetta, stavolta per cercare di vedere almeno un po’ del secondo tempo dell’Inter. L’Angelo mi ha aggiornato a fine primo tempo, “0-0. Dura” il testo del suo sms. Accendo la radio in macchina e trovo RadioRai in diretta da San Siro, mi sembra di tornare indietro a metà anni ottanta. Segna Milito a metà ripresa, il boato dello stadio esplode all’interno della Punto, io esulto dando un colpo a mia mamma su un braccio un po’ troppo forte per i suoi gusti! Arrivo a casa dei miei e mi fiondo dentro stile Fantozzi a cercare il telecomando, “ah, eccolo!” dico esattamente come Villaggio in ‘Fantozzi contro tutti’ quando lo trovo. Accendo e mi vedo l’ultimo quarto d’ora con l’Inter che sfiora un paio di volte il due a zero. Va bene così comunque, se in Russia facciamo un gol, e secondo me lo faremo, questi del Cska tre non ce ne fanno, per cui la semifinale è lì, a portata di mano.

 

Cska Mosca-Inter 0-1 – 6 aprile 2010
Ci sono delle giornate che quando le ricordi dici ‘quella è stata davvero una gran bella giornata, cazzo!”. C’è il sole, ma la mia attenzione è tutta rivolta ad alcuni esami medici sostenuti da mio padre, il cui risultato atteso per oggi è il classico “dentro o fuori” per intenderci, quindi potete immaginare con che stato d’animo vada a lavorare quella mattina. Mattina che passa senza particolari scossoni, stiamo facendo un intervento di ripristino pavimentazione abbastanza semplice e il telefono se ne sta abbastanza tranquillo per quanto riguarda rogne & menate varie. Poi alle due del pomeriggio mi telefona mia mamma dandomi i risultati di cui sopra, che sono ottimi: tutto a posto, nessun pericolo! Da lì in avanti è una giornata bellissima: io devo lasciare i miei ragazzi a finire il lavoro perché mi tocca un intervento per un pluviale in uno stabilimento (che svolgerò in una mezzora ridendo e scherzando col titolare), poi alle cinque devo andare in un’altra fabbrica per fare assistenza con camion dotato di gru ad un terzetto di montatori di una cabina prefabbricata che dovrà ospitare un grosso gruppo elettrogeno o giù di lì (a me toccava la sola assistenza fatta di sollevamento delle parti). I tre sono dei fulminati ma simpatici e lavoriamo anche qui scherzando per tutto il tempo (con un occhio da parte mia e di uno di loro, tifoso nerazzurro, all’orologio perché alle 18.00 c’è l’Inter a Mosca), finchè il capo-squadra (juventino) non esclama “finiamo domani dai, adesso andiamo a vedere l’Inter!”. In cinque minuti riporto il camion, prendo la macchina, autoradio col primo album dei Ramones a manetta (piccola deviazione dall’annata classic-metal), e arrivo al bar proprio nel momento in cui sullo schermo vedo Sneijder sommerso dall’abbraccio dei compagni. Il replay mi informa che l’olandesino ha appena infilato la punizione dell’1-0, per cui la partita può dirsi già finita dopo neppure dieci minuti. Io la seguo cenando in loco a base di un panino al formaggio e di un pacchetto di dixie e leggiucchiando ogni tanto i vari quotidiani. Bella giornata, davvero. Il sorteggio ci mette di fronte la vincente fra Barca ed Arsenal. All’andata in quel di Londra i gunners avevano fermato i catalani sul 2-2 (Ibra, che ad eliminazione diretta non segna mai, stavolta ne aveva fatti due, prima che i ragazzi di Wenger rimontassero fino al pari finale), al Camp Nou servirebbe un miracolo e io per l’occasione tifo Arsenal più di Nick Hornby, sperando in un clamoroso successo dei biancorossi londinesi che ci consentirebbe di giocare una semifinale con qualche speranza di passare il turno, contrariamente ad una doppia sfida col Barcellona al cui risultato non oso nemmeno pensare… Seguo il match via Telelombardia e segna l’Arsenal (col danese Bendtner, quello che poi verrà acquistato dalla Juve)! Occhio che… no, Messi pareggia dopo nemmeno tre minuti, poi a fine primo tempo ne fa altri due. Nel finale la Pulce fa poker e chiude i conti col gol del 4-1 per una clamorosa quaterna personale ai quarti di Champions. Ci tocca il Barcellona e come diceva Lino Banfi/Commissario Auricchio “sono volatili per diabetici” (“sono chezzi amèri!!!”, alla richiesta di spiegazioni da parte di Paolo Villaggio/Giandomenico Fracchia).

 

Inter-Barcellona 3-1 – 20 aprile 2010
Partite così è già un onore giocarle, mi dico mentre mi accingo alla visione del match a casa in solitaria. Andremo fuori, è ovvio, però almeno cerchiamo di farlo giocandocela. Proviamoci insomma, anche se so che sarà impossibile farcela. Questo è il mantra che mi ripeto continuamente durante i primi minuti della partita, in un San Siro che sembra quasi quello delle epiche sfide degli anni ottanta col Real Madrid. Sembra che riusciamo a giocarcela davvero, ma ecco che Pedrito fa l’1-0 per i blaugrana… Adesso è finita sul serio, mi dico, cerchiamo quantomeno di non prendere una goleada. Però reagiamo, cazzo se reagiamo! Azione spettacolare e Sneijder batte Valdes! 1-1 e fine primo tempo. In apertura di ripresa Maicon è devastante e fa il 2-1, quasi quasi comincio a crederci, anche se mi aspetto da un momento all’altro il pari di Messi o dell’ex Ibra. E invece a segnare è Milito (sì, in leggero fuorigioco, amico rosicone!) e adesso siamo 3-1. Reazione finale del Barca, ma Zanetti e Cambiasso blindano la Pulce (anche se c’è il sospetto di un probabile rigore sul fenomeno argentino), Ibra ha sentito la partita, ha giocato malissimo e Guardiola l’ha già tolto da un po’, inserendo però Abidal e non uno fra Bojan o Henry presenti in panchina, quasi che il Pep sia convinto di ribaltare senza problemi il risultato in casa. Lo spettro (sbiadito per il tempo passato e ora patinato coi lustrini della mediatica Champions) delle rimonte subite dal Real ritorna a tormentare noi tifosi di lunga data. E intanto qui finisce 3-1 ed è festa grande (tralasciamo quel pirla di Balotelli che getta la maglia per terra e che comunque viene menato a sangue negli spogliatoi dagli stessi compagni di squadra, pare).

 

Barcellona-Inter 1-0 – 28 aprile 2010
A me piace il Barcellona, fosse solo per il fatto che è il contraltare dell’odiato Real Madrid, sono innamorato di Messi dalla prima volta che l’ho visto giocare (nell’Argentina ai mondiali under 20 su Sportitalia nel 2005), non sono un grandissimo fan del tiqui-taca (la ragnatela di passaggi rasoterra tipica del gioco del Barca degli ultimi anni), ma adoro vedere come i blaugrana tagliano a fette le difese avversarie con quelle verticalizzazioni improvvise. Premesso tutto questo, a volte i catalani hanno dei crolli di stile (sia come squadra, che come società e pubblico): lasciamo stare la grancassa della “remuntada” suonata per tutta la settimana precedente al match, ma il casino notturno sotto l’albergo dell’Inter sa più di Catanzaro-Juventus (senza offesa alcuna per i catanzaresi, sia chiaro) che di semifinale di Champions League. Lì ho iniziato a pensare che il popolo blaugrana avesse paura dell’Inter e che quello fosse il modo di esorcizzare detto timore. Poi inizia la partita, io la vivo in trincea da solo a casa e mi mangio tutte le unghie delle mani e se ci arrivassi mangerei anche quelle dei piedi. Certo, il clima non è quello del Bernabeu anni ottanta, in confronto questa è una festicciola fra amici. Noi conteniamo il Barca, ma a metà primo tempo Thiago Motta, un ex, già ammonito commette un presunto fallo su Busquets (che simula platealmente e da bravo bastardo rimane per terra a controllare cosa fa l’arbitro con la coda dell’occhio; perché l’Uefa non punisce questi comportamenti davvero antisportivi? Molto peggio del gioco violento per quel che mi riguarda) e il direttore di gara belga De Bleeckere lo espelle… Merda, penso, adesso ci fanno neri. E invece noi li conteniamo ancora, certo non passiamo più la metà campo fino alla fine, però loro tirano in porta solo una volta in maniera pericolosa, ovviamente con Messi, ma Julione Cesar risponde alla grande. Ibra nullo e Messi stesso ingabbiato alla grande. Sfida nella sfida quella fra i due fratelli Milito, Diego in attacco da noi e Gabriel in difesa da loro. A metà ripresa fuori lo svedese e dentro Bojan, Mou risponde togliendo un esausto Snejider e coprendosi ancora un po’ di più con Muntari. E siamo a dieci dalla fine, ancora sullo 0-0, io inizio a pensare che forse ce la facciamo. Mourinho sta per togliere Milito per inserire un difensore, sia Materazzi che Cordoba si stanno scaldando già da un po’ e io cerco di trasmettere telepaticamente al Vate il seguente messaggio “metti Materazzi, metti Materazzi, metti Matrix non mettere quella sega di Cordoba!”. Purtroppo la linea mentale Colico-Barcellona dev’essere interrotta perché all’81° esce Milito ed entra Ivan Ramiro Cordoba (sulla cui coscienza pesano decine e decine di gol del cazzo presi dall’Inter nei dieci anni della sua militanza in nerazzurro). Guardiola ha spedito il difensore Piqué a fare il centravanti e all’84° è proprio lui che riceve palla in area controllato da Cordoba, il quale lo lascia girare come nemmeno all’oratorio, col ‘piqueton’ che pachidermicamente si prepara al tiro e fa secco Julio Cesar. Le mie bestemmie rivolte al difensore colombiano arrivano fino a Plutone. Mou mette Mariga al posto di Eto’o e il kenyota nei pochi minuti a sua disposizione gioca forse l’unica partita decente di tutta la sua permanenza a sprazzi nell’Inter (a parte quella con un gol al Genoa in coppa italia): ruba un pallone a metà campo e si impegna in un paio di disturbi efficaci. Quattro minuti di recupero e al 92° Bojan segna: se non avessi visto con la coda dell’occhio la bandierina alzata del guardalinee (precedente mani di Tourè), sarei probabilmente morto sul colpo (da anni ho preso quest’abitudine, cioè quella di guardare sempre arbitro o guardalinee in caso di gol, sia segnato che subìto, dopo aver esultato più volte come un cretino in occasione di gol interisti poi annullati). Rimane quindi l’1-0 e in finale a Madrid (contro il Bayern Monaco che in semifinale ha fatto fuori agevolmente il Lione) ci va l’ F.C. Internazionale di Milano!!! Io ancora non ci credo, sono per terra ad esultare come un imbecille, battendo i pugni sul pavimento. I nostri giocatori e tecnici festeggiano sul campo dove, altra caduta di stile, vengono aperti gli idranti… E più tardi vedere a Telelombardia il mio idolo calcistico di gioventù, il Becca, che balla e canta “volevan far la remuntada, ma han preso l’inculada”, come si dice in questi casi, non ha prezzo!

 

Inter-Bayern Monaco 2-0 – 22 maggio 2010
Abbiamo appena rivinto lo scudetto con un sofferto 1-0 a Siena (gol di Milito) e vinto la Coppa Italia battendo la Roma all’Olimpico sempre per 1-0 (segna Milito, who else?), ma tutti aspettano il risultato di questa sera, vincere significherebbe entrare per sempre nella storia centrando un’impresa che nessuna squadra italiana (né il super-Milan di Sacchi prima e di Capello poi, né la grande Juve del Trap, né quella dopata di Lippi, per tacere della stessa grande Inter di Herrera o del Milan euromondiale di Rocco) ha mai centrato: vincere campionato, coppa nazionale e coppa dei campioni (per un’espressione mutuata dallo spagnolo, Triplete, come quello del Barcellona la stagione precedente). Tutta la giornata della finale io l’ho vissuta come in una bolla, la mattina faccio un paio di commissioni, il pomeriggio cazzeggio al computer e leggo qualcosa online, ma la testa è altrove; insomma l’Inter quella sera avrebbe giocato la finale di Champions League / Coppa dei Campioni, era una cosa fuori dalla realtà, un po’ come se adesso mi dicessero che domani arriva Gesù Cristo in Piazza del Lago a moltiplicare pani e pesci persici. E io sapevo in fondo all’anima che avremmo vinto (ero sicuro di un 2-0 con doppietta di Milito…l’avessi giocata in qualche ricevitoria, cristo!), la finale vera e propria era stata quella col Barcellona, qui si trattava solo di andare a prendersi la coppa. Certo, il Bayern non è il Monza (con tutto il rispetto), però l’occasione per noi era troppo importante e i bavaresi erano quasi una sorta di vittima sacrificale per il nostro ritorno sul tetto d’Europa dopo 45 lunghissimi anni. Fermo restando il fatto che io per il Bayern ho un grande rispetto, una società seria nella cui dirigenza c’è un grande ex (Kalle Rummenigge), nonchè la squadra da cui arrivarono Matthaus e Brehme coi quali venne scritta la storia dello scudetto dei record. Nell’estate del 2011 di passaggio da Monaco di Baviera ebbi l’occasione di visitare lo stadio dell’Allianz Arena e di vedere la storia: le tre Coppe dei Campioni di fila vinte negli anni settanta (una con allenatore Udo Lattek e due con Dettmar Cramer) e le decine di trofei nazionali ed internazionali, le immagini di gente che ha fatto la storia del club come Gerd Müller, Franz Beckenbauer, Rummenigge stesso, Paul Breitner, il portierone Sepp Maier, Uli Hoeness. E più di tutto mi è rimasta impressa una foto, è quella del Bayern che posa con la Coppa Intercontinentale del ’76 (vinta battendo nella doppia sfida i brasiliani del Cruzeiro) in un campetto spelacchiato e con più terra che erba, più simile al campo dell’oratorio di Colico che a quello su cui avrebbe dovuto posare uno squadrone di livello internazionale come quello. Eppure dava quel tocco di umanità che nel calcio odierno è pressochè scomparso. Adesso il Bayern è allenato da quella vecchia volpe di Louis Van Gaal e schiera gente di tutto rispetto quali Robben, Van Bommel, Schweinsteiger, Thomas Müller, Klose, Lahm, Mario Gomez e il portiere Butt. Ci sarebbe anche Ribery, ma il fantasista francese salta la finale per squalifica. E a me viene in mente che ci siamo giocati tutta la Champions contro delle squadre campioni dei loro paesi: oltre a quelli di Russia ed Ucraina, soprattutto quelli di Inghilterra, Spagna e Germania, il meglio del calcio continentale al momento. Insomma, questa coppa se la vinciamo vuol dire che ce la siamo proprio meritata, và! La sera siamo io, Angelo e Mauro a casa di quest’ultimo, con Rasco per scaramanzia a vederla da un’altra parte. Ricordo poco della partita, rammento solo scene tipo “Febbre a 90°” (il film) in occasione dei due gol di Milito, per poi ritrovarsi tutti e quattro in piazza a festeggiare in mezzo a centinaia e centinaia di fratelli di fede. Ricordo Zanetti col volto trasfigurato di chi ha visto i cancelli dell’Eden (questa frase non è mia, era mi pare su ‘Il Corriere dello Sport’, tenni fede ad un voto di quando ero bambino: se mai l’Inter rivincerà la Coppa dei Campioni il giorno dopo mi compro tutti i quotidiani sportivi esistenti…l’ho fatto e per trovare la ‘Gazzetta’ quella domenica mattina mi era toccato girare tre o quattro edicole che era esaurita dappertutto!). E restando in tema biblico/religioso, io che sono ateo devo però dire che Mourinho è stata la cosa più vicina ad un dio che abbia mai visto in vita mia! ;-) …del resto vincere la Champions con l’Inter non è certo cosa da semplici umani, no? E io sono lì in una piazza con una felpa dei 7 Seconds indosso, senza nessuna sciarpa o orpello che faccia capire che sono anch’io un tifoso interista, a guardare l’esplosione di gioia, a volte pacchiana e ridicola, del popolo nerazzurro, con la calma di chi ne ha passate tante e sa già che pure questo momento di gioia sarà un attimo fugace, ma per adesso godiamocela anche se la voce che Mourinho se ne va si sta diffondendo fra la gente (ecco, lo sapevo, penso io che do conferma alle mie pessimistiche previsioni). Con Rasco vicino a me, pure lui osservatore della folla (ma con la maglia del Chino Recoba indosso), che mi dice “ma questi qua che avranno sì e no dodici anni cosa possono sapere di cosa significa questo momento per quelli come noi?” …esatto, per ovvi motivi anagrafici questi ragazzini/e non c’erano quando Pagliuca si fa sfuggire un tiro innocuo e regala al Lugano (sì, il Lugano) un’insperata qualificazione e quindici anni di prese per il culo a noi tifosi; non c’erano o erano al mondo da pochissimo quando, il venerdì precedente il weekend in cui il Berlusca trionfa alle elezioni, il Milan ci rifila un assurdo 6-0 praticamente tirando sei volte in porta e facendo sempre gol; quando una sera di fine agosto il rigore di Recoba va sul palo e ai gironi di Champions accedono i carneadi dell’Helsingbors; quando in una notte di febbraio gli sconosciuti spagnoli dell’Alavés (che credo ora siano in serie c) sbancano San Siro e dagli spalti vengono giù seggiolini a pioggia, …e sto solo citando episodi mediamente recenti. Per non parlare poi di campionati come il 97/98 e anche il 02/03, con Moggi e compagnia. E facciamo finta di dimenticarci del famigerato 5 maggio, quando buttammo alle ortiche uno scudetto già vinto, in favore dei soliti noti moggiani… E poi finalmente abbiamo ripreso a vincere, dopo anni a subire quell’odioso coro ‘non vincete mai’, che però sarebbe dovuto essere ‘non vincete più’…sì, perché l’Inter, che vi piaccia o no, ha una storia ed è una storia con la S maiuscola. Avevamo tredici scudetti e due Coppe dei Campioni (più qualche coppa di contorno, tipo le tre Uefa in anni in cui era una coppa quasi al livello della Champions odierna visti i partecipanti) e dicevate ‘mai’… sì, due coppe, tante quante quelle della Juve (e adesso sono tre le nostre, e le loro sempre due…hanno partecipato alla Champions/Coppa dei Campioni il doppio delle volte dell’Inter e han vinto una coppa di meno, pensate un po’. Tralasciando l’opinione che hanno all’estero -dico estero essendo gli stranieri super partes- di come quelle due coppe siano state vinte, specie quella del ’96, parlo di doping, altro che “c’era un rigore per il Chelsea e Samuel andava espulso”. Doping accertato, non quello presunto dell’Inter di Herrera -premetto le critiche-, che si basa solo su qualche uscita senza prova alcuna da parte di Ferruccio Mazzola che, si sa, ce l’ha a morte col più noto fratello, il “baffo” Sandro… Personalmente però ritengo che la Juve abbia meritato la coppa dell’85, rigore fuori area a parte che comunque ci può stare, condanno solo la gestione dei festeggiamenti in una serata tragica come fu quella dell’Heysel di Bruxelles). Mi viene in mente che ne han vinte due esattamente come il Nottingham Forest, che però ha partecipato solo tre volte. Tanto di cappello invece ai cugini di campagna del Milan per le sette coppe, a malincuore devo ammettere che loro la maggiore competizione continentale ce l’hanno davvero nel dna. Incontro tanti tifosi interisti di mia conoscenza (alcuni manco sapevo che tifassero nerazzurro o addirittura che seguissero il calcio), mi abbracciano a decine gridandomi fonemi sconnessi nelle orecchie. A notte inoltrata me ne vado a casa, quando l’Angelo e il Mauro assieme ad altri pazzi partono per San Siro dove è attesa la squadra, ma io sono a posto così. Siamo campioni d’Europa, l’Inter ha vinto la Champions League…ancora oggi tre anni dopo stento a crederci! E dopo? E dopo arriva Rafa Benitez, ma poteva arrivare anche Helenio Herrera redivivo e pure così sarebbe stato impossibile succedere a Mourinho. In più lo spagnolo si inimica mezza squadra e tutta la società e se ne va a dicembre, riuscendo però a conquistare la Supercoppa Italiana (facile 3-1 alla Roma a San Siro) e il Mondiale per Club (ex Coppa Intercontinentale), battendo due squadre tragicamente imbarazzanti con un doppio 3-0 (i sudcoreani del Seongnam e i congolesi del Mazembe, questi ultimi in semifinale incredibilmente avevano fatto fuori i brasiliani dell’Internacional di Porto Alegre, facendo quindi saltare il previsto derby fra le due internazionali). Grosso neo la Supercoppa Europea persa contro l’Atletico Madrid per 0-2. A gennaio arriva Leonardo in panchina, scelta che aveva comunque il suo perché non essendo il brasiliano un allenatore (infatti credo che in quel periodo chi allenasse realmente fosse Cambiasso), anche se chiudiamo la stagione secondi e vinciamo la Coppa Italia battendo 3-1 il Palermo. E poi arriva quel crollo che avevo previsto (troppi i segnali negativi dopo il 22 maggio 2010: le cessioni dei big spesso per quattro soldi e senza i giusti rimpiazzi, la navigazione a vista, il progetto-giovani che in realtà è un non-progetto che non prevede i giovani, ecc.ecc.), in pratica il ritorno a certi anni novanta: in due stagioni si passa da Mou a Gasperini (che per fortuna dura pochissimo)… Ranieri non mi dispiaceva, ma era un tecnico da Inter minore (un Rino Marchesi o un Marco Tardelli), mentre Strama a me piaceva e naturalmente la nostra “illuminata” dirigenza (oltre ad avergli messo a disposizione una squadra incompleta e costruita malissimo, demolendogliela pure in corso d’opera, eccezion fatta per l’arrivo dell’ottimo Kovacic, giovanissimo talento croato destinato ad un futuro radioso, temo, ahimè, con un’altra maglia…) è riuscita a bruciarlo facendogli pagare con l’esonero una stagione gestita dai “piani alti” interisti a livello peggio che dilettantistico (tralasciando un numero di infortuni incredibile che spiega il crollo di fine stagione). Un benvenuto nel tritatutto a Mazzarri! Vediamo di far fuori anche questo eh immutabile ed incompetente dirigenza… D’altronde, come ho letto su un ottimo blog in rete “…riuscire a passare in tre anni dall’essere la squadra campione d’Europa a questa squadraccia senza capo né coda, vendendo i giocatori buoni per comprare mediocri accompagnatori di mazzette, resuscitando contemporaneamente il duopolio Juventus/Milan (permettendo quindi alla mafia di Galliani, Braschi e Agnelli di tornare in sella e riportare indietro le lancette del nostro orologio tifoso di quindici anni) e consegnandogli tutti i posti che contano in Lega e Federazione, il tutto conservando un disavanzo di ottanta milioni l’anno, è veramente un’opera degna di restare negli annali degli epicfail mondiali…”. Sottoscrivo, purtroppo…