“L’acqua. Fonte di vita, sinonimo di purezza, nel suo rilucente splendore cristallino. L’acqua che è attorno a noi, negli oceani, nella pioggia. L’acqua: primo elemento aristotelico, concepimento di vita, misteriosa entità madre, nelle cui profondità si celano orrori che per l’uomo è meglio ignorare…”
(introduzione al film “Dagon”, ispirato ad un racconto di H.P. Lovecraft)
Estate 1980, da poco si sono chiuse le Olimpiadi di Mosca, quelle boicottate dagli U.s.a. e da altri paesi come Cina, Giappone e Germania (Ovest, ovviamente). Alla stazione di Bologna è appena scoppiata una bomba, non si saprà mai chi l’abbia messa, ma intanto ha causato più di ottanta morti. Lo stesso numero di quelli di Ustica, nei cui cieli un paio di mesi prima scompare misteriosamente un DC9 e anche qui non si saprà mai come e perché. Nella vicina Jugoslavia muore a 88 anni il maresciallo Tito, mentre in Italia qualcuno muore ancora per mano terrorista o presunta tale (che in Itaglia non si capisce mai chi ha fatto cosa…). A maggio era scoppiato lo scandalo del calcio-scommesse, Lazio e Milan vengono retrocesse in serie B (per i rossoneri è la volta in cui pagano per retrocedere, per citare la battuta del compianto grandissimo Peppino Prisco). Nel frattempo l’Inter del ‘sergente di ferro’ Bersellini e di Altobelli e Beccalossi ha vinto il suo dodicesimo scudetto (io non seguivo ancora il calcio, inizierò a farlo due anni dopo e dovrò aspettare sette anni prima di vedere la mia squadra vincere qualcosa, nella fattispecie lo scudetto numero tredici). Il Nottingham Forest di Brian Clough (un Mourinho ante-litteram) vince la sua seconda coppa dei campioni (il clamoroso caso di una squadra che vince il campionato -l’unico della propria storia- da neopromossa, va in coppa campioni e la vince, ci ritorna da detentrice e la rivince!). Intanto, sempre in Inghilterra, nell’East End londinese, un gruppo capitanato da un bassista ex giocatore delle giovanili del West Ham, oltre che tifosissimo degli stessi hammers (detti anche irons, solo un caso?), e con alla voce un teppistello di origini italiane, dopo anni di anonimato underground ha da pochi mesi buttato fuori un bel disco d’esordio che sarà il trampolino verso il gotha dell’Heavy Metal. Qualche quartiere londinese più ad ovest un quartetto proveniente dal Punk del ’77 sta per sfornare un triplo Lp dal titolo ispirato ai guerriglieri nicaraguensi e che sarà venduto al prezzo di un album singolo per volere della stessa band. Oltreoceano, in California, una band dal nome semplice ed efficace che sarà la guida del nascente movimento Hardcore ha appena pubblicato proprio in quei giorni un 7” con cinque pezzi in poco più di sei minuti, destinato a diventare uno dei classici del gruppo in questione. Intanto nell’Alto Lario un padre e un figlio sono su una barca a remi biancastra, accessoriata con un piccolo motore Johnson al momento spento. Il padre rema e il figlio è seduto a prua a godersi il panorama di quella mattina di metà agosto: le montagne più che mai verdi, il cielo di quel blu che si vede solo d’estate, il proprio paese visto da un’angolazione inedita, il lago piatto come un olio (come si dice da queste parti) con un aliscafo (uno della serie ‘freccia’…c’era quella delle betulle, quella delle valli, quella delle azalee, quella delle gardenie, e la serie non finiva certo qui) che solca le acque in lontananza. Sui lati della barca sono avvitati due tubi in ferro che si ergono per circa un metro con alle sommità due ruote in legno con manovella su cui è avvolto del filo di rame di circa duecento metri di lunghezza che da lì si dipana sott’acqua. Questo aggeggio malamente descritto non è altro che una molagna, un attrezzo pescatorio tipico dei grandi laghi del Nord Italia. All’estremità sott’acqua del filo di rame è appeso un piombo, mentre risalendo verso la superficie, ogni dieci metri circa, si diparte un segmento in nylon alla cui estremità è attaccato un cucchiaino ondulante (nel gergo pescatorio sta ad indicare un pezzo di metallo oblungo terminante con un triplice amo detto ancoretta). Ogni segmento è detto bracciolo e ce ne possono essere anche una quindicina, consentendo quindi di pescare ad una certa profondità. La molagna è per lo più rivolta alla pesca di trote di lago, lucci, grossi cavedani e, raramente, grossi persici. Il movimento della barca a velocità molto bassa, quindi remando, consente di calare in acqua il filo di rame e man mano di attaccarvici i vari braccioli e di iniziare così la pesca vera e propria, raggiungendo via via le varie zone del lago che si intende battere (adesso sono pronto per condurre un programma su DMax, eheh!). Tornando a noi, sulla destra della barca c’è la molagna di fondo, cioè quella per la pesca a profondità maggiori (settanta/ottanta metri), sulla sinistra quella di galla, che si differenzia dall’altra per via di un grosso galleggiante in alluminio piazzato in un certo punto del filo di rame per mantenere la pescata più verso la superficie (ad una trentina di metri di profondità). E’ stato ovviamente il padre a calare i fili e ad approntare gli aggeggi, il figlio durante l’operazione ha remato. Partiti da Colico dalla spiaggia del Campo Sportivo (cioè il vecchio “stadio” del Colico, dove ora c’è la pizzeria Ontano), davanti alla foce del fiume Adda il duo ha agganciato prima un grosso cavedano con la molagna di galla e poi, facendo rotta verso Sorico e la foce del fiume Mera (dove trentun anni dopo i due costruiranno un pontile fisso per un ente che all’epoca dei fatti che stiamo trattando ancora non esisteva), un luccio di medie dimensioni con quella di fondo. Particolarità della molagna è che l’abboccamento è segnalato da uno strappo al filo che fa slittare la frizione del grosso mulinello producendo un particolare rumore che in gergo è detto “tirata”; il pescatore è quindi obbligato a recuperare tutta la lenza, avvolgendo sugli appositi supporti i vari braccioli che leva man mano, fino a trovare quello su cui ha abboccato il pesce. Intanto i due hanno oltrepassato la spiaggia di Sorico e dirigono la barca lungo la costa occidentale del Lago di Como (la West Coast, se fossimo negli Iuessei), passando davanti al paese di Gera Lario e procedendo parallelamente alla Statale Regina nella zona cosiddetta delle Cinque Case. Arrivati nella baia di Domaso è il momento di riattraversare il lago, facendo rotta verso la Villa Osio (ex Villa Stampa, trattasi di villone con piccolo molo che si trova nella zona sud di Colico, poco dopo il Lido e agli inizi del Montecchio Sud, una grossa collina bagnata dalle acque del lago per svariate centinaia di metri fra piccole insenature, spiaggette e scogli), da anni punto di riferimento per ogni “sailor man” colichese al momento di attraversare l’Alto Lario. E’ un discreto pezzo da fare a remi, ci si mette un bel po’, e dal punto di vista pescatorio si tratta di un’area dove o si becca il trotone di lago o, come quasi sempre, nulla, prediligendo i pesci predatori come il luccio le zone relativamente più vicine alle rive, ma bisogna pure rientrare alla base e in più prendere questa rotta consente poi di passare davanti a Colico Centro in acque molto buone per quanto riguarda la pesca di lucci, cavedani ed eventualmente qualche grosso pesce persico. Ora, togliamoci la maschera, per chi ancora non l’avesse capito i due protagonisti del racconto siamo io (otto anni ancora da compiere all’epoca dei fatti) e mio padre. Siamo a metà traversata, non so più a cosa stessi pensando…1980, boh, a qualche cartone animato giapponese (Goldrake o Mazinga Z probabilmente), a qualche belloccia intravista in qualcuno dei rari film che davano in televisione o sui rotocalchi di mia nonna, a qualche racconto di Fantozzi dai libri di Paolo Villaggio che divoravo avidamente, sicuramente a quel momento della battuta di pesca che a quell’età è comunque entusiasmante anche se non sta succedendo nulla. E invece qualcosa succede. Succede che a un certo punto la molagna di galla segnala una “tirata” impressionante. Mio papà mi guarda ed esclama “questo è un trotone!”. Mi dice di prendere i remi, mentre lui riavvolgerà il filo (e in questi casi prima bisogna riavvolgere quello della fondo per evitare che il pesce agganciato sulla galla, muovendosi e andando ‘a spasso’ sott’acqua, finisca per ingarbugliare le due molagne). Riavvolta la molagna di fondo tocca a quella di galla. A riuscirci, che sembra che qualcosa ci stia trattenendo, anzi sembra quasi addirittura che trascini la barca verso di sé. A questo punto non pensiamo più possa essere una trota di lago gigante, ma più probabilmente (e miseramente) una vecchia rete da pesca o un grosso legno, entrambi stazionanti a mezz’acqua, tragicamente agganciatisi ad uno dei cucchiaini. Mio padre compie un estremo tentativo mettendo in acqua ed accendendo il piccolo motore, sperando di avere un solo cucchiaino impigliato e di far così rompere il solo filo di nylon di quel bracciolo, salvando il resto della lenza, ma anche così la barca non si muove…beh, cazzo, ma è impossibile, cosa possiamo aver agganciato di così imponente qui in mezzo al nulla?? ci chiediamo guardandoci l’un l’altro. Ormai la soluzione è ovvia, anche se economicamente disastrosa: il taglio a monte del filo di rame, e che si perda il tutto nelle profondità lacustri. D’un tratto con uno schiocco secco il filo di rame, che fino ad un secondo prima era teso come una corda di violino, si affloscia e la barchetta ha come un sussulto in avanti: di qualunque oggetto si trattasse, in qualche maniera si è staccato. Probabilmente si è rotto il filo di nylon, conveniamo. “Vabbè, fammela poi tirare su tutta, almeno vediamo in che condizioni è” mi dice mio padre e si appresta a riavvolgere il filo di rame che adesso riemerge dalle acque del lago senza problemi. Quando arriva il galleggiante in alluminio a mio papà sfugge un “Elllamadonna!” di Pozzettiana memoria, mi giro a guardare, il galleggiante è tutto schiacciato, quello che abbiamo agganciato l’ha trascinato sott’acqua e la pressione l’ha quasi appiattito (quel galleggiante è ancora nel garage dei miei, esattamente come lo ripescammo quel lontano giorno d’estate). “Ma che cazzo avevamo attaccato??” si chiede mio padre sempre più sorpreso e dubbioso. Riavvolge il bracciolo uno, poi il due, il tre, e quando arriva al quarto si trova fra le mani un cucchiaino masticato, ma ancora attaccato al filo di nylon: ve lo giuro, aveva (ed ha, dato che pure quel cucchiaino si trova assieme al galleggiante di cui sopra) dei segni di denti impressionanti. A me, otto anni e una testa piena di cartoni animati giapponesi e di libri su dinosauri ed animali da preda, corse un brivido: mi sembravano denti da squalo. A mio padre sembravano piuttosto denti da trota di lago (ma gigante) o più facilmente da luccio extralarge. Recuperiamo anche il resto della pescata per sicurezza, ma tutto è a posto, quel qualcosa (o quel qualcuno…) che avevamo attaccato era sul quarto bracciolo, oltre niente da segnalare. Siamo in un punto in cui il lago raggiunge una profondità di 150 metri, più o meno, quel quarto bracciolo sarà stato al massimo a 15 metri sotto la superficie, escludendo ovviamente impigli sul fondo del lago, resterebbe la spiegazione tronco o vecchia rete, ma non mi risulta che alberi e reti da pescatori abbiamo i denti, quei denti! Rientriamo a casa. Alla fine, passate in rassegna le varie ipotesi, propendiamo per un luccio enorme e ci rammarichiamo per la mancata cattura, ma mio padre mette da parte in una scatola di cartone galleggiante e cucchiaino, non so quanto fosse convinto della spiegazione-luccio. Poi il tempo passa, la vita ci travolge con tutte le sue imprevedibilità, quella giornata passa presto negli archivi della memoria e la scatoletta coi due reperti resta lì su uno scaffale di quel garage sempre strapieno di roba. E io cresco, inteso a livello fisico e di età, per il resto non mi sento nemmeno ora poi tanto differente da quel bimbetto di paese di un’estate ormai persa nelle nebbie del tempo, in più di allora ho solo la passione per la musica e per il calcio. E siamo nell’agosto del 1989. Ho tutti gli albums (qualcuno in vinile, qualcuno su cassetta, originale o duplicata) usciti fino a quel momento sia di quel gruppo dell’East End di Londra, sia di quel quartetto dell’ovest londinese, e ho anche un paio di dischi di quei californiani dal nome semplice ed efficace. Sì, perché nove anni dopo gli Iron Maiden e i Clash sono da tempo al top delle mie preferenze musicali e, avendo da poco più di un annetto iniziato ad ascoltare hardcore, non potevo non essere venuto a conoscenza dei Black Flag, band seminale del genere. E’ un anno strano il 1989, già il fatto che l’Inter vinca lo scudetto (che non vinceva dall’80, solo una coincidenza?) lo pone come annata atipica. E restando sul calcio, quell’altra squadra milanese che al tempo era finita in serie B (e reiterò poi la cosa, stavolta gratis, ri-citando l’enorme Prisco) ha appena vinto la Coppa dei Campioni annichilendo in finale lo Steaua di Bucarest. Il Genoa intanto torna in serie A guidato da un istrionico allenatore siciliano, il Professor Scoglio. Uscendo dal football, l’89 è l’anno del ritiro delle truppe sovietiche dai territori afghani, delle proteste studentesche in Piazza Tienanmen a Pechino represse nel sangue e del fallito attentato al giudice Falcone in Sicilia (tre anni dopo non falliranno…). E’ anche l’anno in cui lo scrittore indiano Salman Rushdie, a causa del suo libro “I versi satanici” (nel dettaglio per l’allusione all’ispirazione diabolica del profeta Maometto), viene condannato a morte dall’ayatollah iraniano Khomeini: Rushdie vivrà sotto scorta per moltissimi anni e si salverà. Ma fu un anno atipico dicevo, soprattutto perchè è l’anno in cui la Cortina di Ferro (come l’aveva denominata Churchill) inizia a sgretolarsi, prima quando a settembre l’Ungheria apre la frontiera verso l’Austria per far passare i fuggitivi della Germania dell’Est, poi quando a novembre cade il Muro di Berlino e in Cecoslovacchia viene rovesciato il vecchio regime comunista con la cosiddetta e non-violenta “rivoluzione di velluto”, e infine quando a dicembre in Unione Sovietica viene abolito quell’articolo della costituzione che definiva il partito comunista la guida della società, mentre in Romania il dittatore Ceausescu e la moglie vengono giustiziati da un colpo di stato militare. In Italia invece, più mestamente, quello è il mese in cui nasce ufficialmente la Lega Nord… La nostra storia si svolge invece ai primi di agosto di quell’anno, quasi nove anni esatti dopo la prima che vi ho raccontato. E’ una mattinata di una giornata che si preannuncia decisamente calda, ma a due ragazzini (uno quasi diciassettenne e l’altro diciannovenne) su una barca rossa non potrebbe fregargliene di meno. Sono appena partiti dalla spiaggia del Campo Sportivo e si apprestano a calare in acqua il filo di una molagna, quella di fondo (stavolta quella di galla non c’è). Quello ai remi ha i capelli cortissimi ed è piuttosto piazzato, indossa una maglietta stinta, un paio di pantaloncini corti da pescatore con varie tasche e degli zoccoli marroni da lago. L’altro, che sta calando in acqua il filo di rame, ha i capelli da poco rasati quasi a zero, è in pantaloni di una vecchia tuta da ginnastica tagliati al ginocchio, zoccoli in legno pure lui (come la tradizione dei rispettivi nonni dei due ragazzi quasi imponeva), indossa una maglietta verde militare con il logo dei Suicidal Tendencies disegnato malamente ad Uni Posca sul davanti e la scritta ‘possessed to skate’ dietro e in testa un cappello blu sulla cui visiera nella parte inferiore è scritto a pennarello “Not!” (chi sa ha capito). Stavolta la maschera gettiamola subito: il rematore è Marco il Genovese (residente nella città della lanterna, ma originario di Colico, dove passava quasi tutte le vacanze possibili), quello vestito da thrashcorer sfigato è il sottoscritto… possessed to skate…ah ah! Non ho mai messo piede su di uno skateboard in vita mia, anche se, come Fantozzi, per far colpo su qualche disperata sarei stato capace di dichiarare “sono stato azzurro di skate”. Il Genovese era il mio socio di pesca estiva già da qualche anno, i rispettivi nonni materni citati più sopra avevano formato per anni e anni una coppia inseparabile di grandi pescatori dell’Alto Lario, secondo le voci che avevamo raccolto in giro (a quel tempo i nostri avi erano defunti, il nonno del Genovese da parecchio ormai, il mio da nemmeno due anni), noi non sognavamo nemmeno di avvicinarci a quelle vette, ma avevamo passione e costanza e questo spesso bastava a superare le cazzate che facevamo e a garantirci in più di un’occasione pescate di tutto rispetto. Il Genovese era scrupolosissimo, la sera prima di ogni battuta di pesca non usciva ed andava a letto presto e in una stanza del pianterreno della vecchia casa di famiglia per non farsi disturbare dal rientro notturno dei suoi due fratelli minori. Io invece, disastrato come al solito, non solo uscivo, ma restavo fuori fino a che non c’era più in giro nessuno, sempre col miraggio di qualche ragazza e sempre sperando che la notte inoltrata mi facesse trovare qualche “leftover” magari non troppo in sé. Il risultato era che rientravo a casa (di mia nonna, d’estate dormivo sempre lì) nelle cosiddette ore piccole, confidando nel fatto che la nonna avesse preso le gocce per dormire e quindi non si accorgesse del rientro ultra-tardivo di quel disgraziato di suo nipote, senza aver combinato nulla e quindi incazzato nero e stanco come un mulo per i chilometri percorsi nelle vie della “movida” colichese (dal Lido al Birrbante, dagli autoscontri del Busnelli al Coco Beach, dalla spiaggetta di Piona ai campeggi comunali dove c’erano le milanesi, ecc.ecc.). Crollavo nel letto e circa tre ore dopo una svegliona apocalittica mi buttava giù dalla branda. Mia nonna, santissima donna, mi lasciava la sera prima un beverone di caffè da scaldare sul fornello, ci aggiungevo un paio di biscotti e scendevo in strada dove il Genovese, puntualissimo, mi aspettava già da qualche minuto. Ci mettevamo in spalla l’attrezzatura che la sera prima avevamo meticolosamente preparato e stoccato nello sgabuzzino a fondo scale del condominio dove viveva mia nonna (cioè dove vivo io adesso nel momento in cui sto scrivendo, com’è la vita eh?) e percorrevamo a piedi il chilometro scarso fino alla spiaggia del Campo Sportivo dove tenevamo la barca. Detta barca era un barcone prodotto in pochi esemplari (non ebbe molto successo) dalla Cranchi, ditta locale produttrice di motoscafi e barcame vario, che in origine era dotato di vela ed albero maestro e poteva anche essere coperto con una specie di cabina. Nella versione in nostro possesso, ereditata da mio nonno, rimaneva il solo scafo, rosso con interno bianco, e un fastidiosissimo parallelepipedo a centro barca (il supporto per l’albero maestro) in cui spesso, muovendosi avanti e indietro, si picchiavano ginocchiate che ci strappavano urla di dolore da licantropi! Spingevamo in acqua il natante e davamo inizio alla battuta. Torniamo a quel giorno di agosto ’89: io, con due occhi rossi da demone imbecille dovuti al poco sonno, sto chiedendo al mio compagno di battaglia come mai la sera prima agli autoscontri la milanese (Laura? Paola? e chi si ricorda più), a cui ho chiesto se le andava di essere riaccompagnata a casa da me, ha risposto semplicemente “no” andandosene poi via voltandomi le spalle e aggiungo, per orgoglio ferito, che alla fine non essendo poi neanche figa, dovrebbe essere onorata che un bel (?) fisherman-thrashcorer come me le offra cavallerescamente di scortarla fino a casa, e che cazzo! Al che il Genovese, più vecchio e più saggio, mi risponde “Claudio, le donne, le ragazze, quelle belle ma anche quelle meno belle e spesso anche i cessi, sono imprevedibili, fattene una ragione” (e sì Marco, quante altre volte avrei dovuto farmene una ragione per casi analoghi nella mia maledetta esistenza, altrochè!). Una sera di quell’estate ’89 andai ai suddetti autoscontri con un look che era una versione paesana mischiante i vari aspetti estetici di thrash ed hardcore: t-shirt Anthrax (‘mosh it up’), bermuda floreali sotto il ginocchio, Nike alte e bandana violacea in testa stile Mike Muir (quasi a fungere da spot per l’accoppiata Anthrax/Suicidal Tendencies che aveva visitato l’Italia per un concerto milanese di un paio di mesi prima e che purtroppo non vidi), che poi uno ha anche il coraggio di chiedersi come mai pure una milanese cessotta abbia rifiutato l’accompagnamento… va detto però che la sera del fatto ero comunque vestito in maniera decisamente più sobria: jeans lunghi, le immancabili Nike alte, maglietta bianca dei Ramones (‘cretin hop’) e bandana più prudentemente al polso. Ma certo, chi se ne frega, una persa cento trovate (anche se Pozzettianamente ci stava più un ‘dieci perse mille trovate’, vista l’elevata percentuale di insuccessi, anche con dei cessi così faccio la rima, di quell’estate!), adesso concentriamoci sulla pesca, che intanto siamo davanti all’Adda e ancora nessuna tirata, penso io. Stiamo per uscire dalla zona in cui il fiume si congiunge col lago quando sentiamo l’inconfondibile rumore della molagna che annuncia l’abbocco di un pesce. Recupero la pescata e abbiamo un cavedanaccio mica male. Dieci minuti dopo ne attacchiamo un altro più piccolo quando siamo quasi vicino alla foce del Mera (l’altro fiume che entra nel Lario). Non male dai, ci diciamo, il cappotto è salvo come si dice in questi casi, ma adesso ci vorrebbe un luccio o magari una trota di lago. Facciamo quindi rotta verso Domaso, la solita rotta di cui avete già letto prima. Niente di niente però. Intanto chiacchieriamo di calcio, dell’Inter campione d’Italia che ha appena sostituito Ramon Diaz col tedesco Jurgen Klinsmann e del Genoa che Scoglio si appresta a guidare nella massima serie, parliamo di musica, di questi Guns’n’Roses che stanno furoreggiando e che anche le ragazzine ascoltano dopo che è uscita quella ristampa del primo ep coi bonus delle ballatone acustiche, e speriamo che l’imminente nuovo Motley Crue (‘Dr. Feelgood’ in uscita da lì a breve) sia all’altezza dei dischi precedenti (e lo sarà eccome). I Motley erano una band che entrambi adoravamo ed una di quelle che ci mettevano d’accordo, il Genovese detestava il thrash per tacere di punk/hardcore ed era un grande fan di quello che adesso chiamano classic-rock oltre che di hard rock ed heavy metal classico. Infatti volevamo chiamare la barca Colico Jack, giocando sul nome di Calico Jack, il famoso pirata inglese, che diede il titolo ad un pezzo dei Running Wild, la metal band tedesca che piaceva ad entrambi. Arriviamo alla Punta di Domaso e viriamo a sinistra per il consueto ri-attraversamento del lago, puntando verso la solita Villa Osio, quel tragitto ripercorso più e più volte negli anni, sempre dimenticandomi degli eventi di quel lontano giorno dell’estate del 1980, tranne oggi e proprio in quel momento mi rendo conto che di quella storia non ne ho mai parlato nemmeno al Genovese e sono lì lì per raccontargliela. Però lui mi sta dicendo di quel nuovo attaccante uruguayano che ha preso il Genoa, un certo Pato Aguilera (che, Marco non lo può sapere ancora, entrerà nella storia del grifone rossoblu), ci mettiamo a parlare del Penarol (la squadra da cui proveniva il giocatore) e finisce che io mi dimentico di quello che volevo dirgli. E siamo giunti a metà lago, più o meno siamo nello stesso punto dove cominciarono gli eventi di nove anni prima, forse solo leggermente indietro rispetto ad allora. E, nel silenzio di una mattinata agostana ormai a metà, la molagna segnala una tirata terrificante. Sto remando io in quel momento, ma non c’è neanche bisogno di parlare, io e il Genovese sappiamo perfettamente cosa fare, manco fossimo due soldati addestrati: lui balza ai remi e io salto nel quadrato di poppa e inizio a recuperare il filo di rame. Solo che questo sembra bloccato, trattenuto nelle profondità delle scure acque lacustri. “Porca troia, ma cosa cazzo abbiamo attaccato??” esclamo, alzo la testa, guardo il mio socio e poi la distesa del lago e mi ritorna in mente tutto! Nove anni prima, io e mio padre, la stessa situazione, più o meno. Torno a guardare Marco e gli dico “Qui sotto una decina di anni fa era successa una cosa simile a me e mio papà, non so che bestia avevamo agganciato, s’era staccata a un certo punto, ma avevamo trovato il cucchiaino masticato da denti enormi”, lui mi risponde semplicemente e con fredda determinazione “Stavolta non lasciamo che si stacchi!”. Cazzo, certo che no, ho un conto in sospeso col bestione là sotto, so che è la stessa cosa che agganciammo nove anni prima, me lo sento e dico “Ok, può esserci anche uno squalo attaccato, non me ne frega un cazzo, stavolta lo tiro su a costo di star qui fino alla una in mezzo alla breva!” (la breva è il vento lacustre proveniente da sud, che in estate inizia a soffiare attorno al mezzogiorno). Rispetto a nove anni prima riusciamo a muovere un po’ la barca, più grande e pesante rispetto alla barchetta dell’epoca, ma non riesco a recuperare il filo, c’è veramente qualcosa di molto forte che sta tirando come un ossesso dall’altra parte. E’ una lotta ormai fra il Genovese ai remi e la cosa sott’acqua, io non so che fare, sto solo sperando che il mio socio riesca a stancare l’essere che è attaccato, di modo che io possa iniziare a recuperare il filo trascinando il peso morto del supposto bestione. Ed ecco che sì, adesso riesco a recuperare almeno un metro e mezzo di filo di rame, però davvero, abbiamo attaccato qualcosa di enorme, lo sforzo del mulinello è pazzesco, ma qualcosa sta arrivando. Non sappiamo nemmeno da quanto tempo siamo lì, la lotta Genovese-Essere forse è durata mezzora, non lo so, noi l’abbiamo vissuta come in trance, parlando pochissimo e forse nemmeno quello. Recupero i primi due braccioli, sono vuoti, ne abbiamo messi giù sette, nei prossimi cinque qualcosa troveremo e sarà qualcosa di grosso. Riavvolgo il terzo, ne mancano quattro, mi sale un brivido lungo la schiena, e se mi trovo davanti un mostro lacustre? Naahh, paure ancestrali, niente di più, mi dico, ti troverai davanti un luccio di quasi venti chili o forse un trotone di lago sui venticinque, cosa pensi di avere attaccato, uno squalo bianco? Intanto anche il quarto è vuoto, ormai ci siamo, il Genovese ha già messo a portata di mano il “capìn” (trattasi di uncino con manico, che serve per agganciare la preda infilzandola quando arriva vicino alla barca), anche se forse sarebbe più indicata una mazza da baseball per tramortire, viste le probabili dimensioni di quello che è in arrivo, e io mi sentirei comunque più tranquillo con un kalashnikov a portata di mano! E’ sul quinto, lo sento dalle vibrazioni che si propagano fino al filo di rame, “Preparati che ci siamo!” dico al mio compare. Ho gli occhi fissi sul pelo dell’acqua, voglio vedere cosa sta arrivando, da un lato possiamo scrivere una pagina di storia della pesca in questo lago (e lo sappiamo tutti e due), dall’altro, non lo nego, un brivido di paura continua a salirmi lungo la spina dorsale, siamo veramente convinti di conoscere tutto quello che c’è lì sotto nelle nere acque del nostro specchio lacustre? Ora, non so se questo è uno scherzo che mi gioca la memoria dopo anni, ma mi pare di ricordare di aver intravisto per pochissimi istanti una grossa sagoma nera, il Genovese era di spalle e non vide nulla. Poi, di colpo, il filo si affloscia, qualunque cosa fosse, si è staccata all’ultimo… Non bestemmio neppure, mi limito ad un “Merda…”, idem Marco che se ne esce con un “No, cazzo…”, siamo come svuotati, si siede anche lui sul maledetto parallelepipedo (che avevamo ribattezzato Il Monolite, vista la sinistra somiglianza col monolite nero del film “2001: odissea nello spazio”, solo che quello stava in posizione eretta mentre il nostro era sdraiato) a fissare il lago. Passa qualche minuto con la pescata che se ne va a fondo, per cui rientro in me e dico che sarà meglio recuperare tutto prima di fare qualche casino. Il primo bracciolo è quel quinto a cui era attaccato il bestione, pochi giri e sono pronto a riavvolgerlo, vedo che il cucchiaino c’è ancora, quando pensavamo che la cosa avesse strappato tutto o spezzato il nylon. Prendo l’esca di alluminio in mano, è piegata e con gli ami dell’ancoretta schiacciati verso l’interno, ma soprattutto reca due segni di denti terrificanti! Qualunque cosa fosse, per la seconda volta mi aveva fregato. Rientriamo, siamo convinti di aver agganciato un mega-luccio, l’idea è quella. Per un attimo consideriamo l’ipotesi del siluro (quel pesce enorme proveniente dall’Est Europa, adesso abbastanza diffuso anche in Italia, ma che all’epoca si trovava solo nel Po e in qualche altro fiume, non nei laghi), ma nonostante questi possa raggiungere dimensioni e peso considerevoli (si dice fino a quattrocento chili, ma a tutt’oggi in Italia al massimo ne han catturati esemplari sui duecento scarsi), non ha denti così grossi, tipici più del luccio. Il Genovese nel pozzetto di prua si rigira il cucchiaino fra le mani mormorando “Ma ci pensi a quanto doveva essere grande? Belìn, non ci ricapiterà mai più”. Io sono confuso, mi viene in mente il pesce-tigre di cui avevo letto su “Pescare”, con denti enormi ed affilati, una belva, ma quello vive in Africa nel fiume Congo e dubito che qualcuno di loro sia in qualche maniera finito nel Lario. Vabbè, ci mettiamo una pietra sopra, ci fa male parlarne perché in fin dei conti quello che è successo è che ci è scappato un pesce probabilmente da record, dei misteri su cosa fosse sinceramente non sappiamo che farcene. Ripasseremo ancora molte volte in quel punto e mai più sentiremo tirate attraversando il lago, capiterà una volta a mio padre in solitaria (e parlo di quattro anni fa al massimo) un pomeriggio di un giorno di gennaio e lui catturerà una trota di lago di un paio di chili abbondanti. Negli anni io, progressivamente, smetterò di andare a pesca: complici il lavoro e la “musica” da un punto di vista attivo (leggasi il suonare e le varie attività ad esso correlate), iniziai a pescare sempre di meno, riducendo il tutto a qualche lancio col Rapala (esca artificiale a forma di pesciolino) dai pontili dei battelli la sera di ritorno dal lavoro e a una manciata di uscite a fiocina in compagnie svariate. La mia definitiva “crisi di coscienza” mi venne a metà del ‘98, quando comunque, per mancanza di tempo e voglia, avevo già smesso di pescare da almeno un paio d’annetti: stavo cominciando a valutare la possibilità di intraprendere la scelta vegetariana (che presi senza ritorno a fine ’99) e il mio affetto per il mondo animale si stava facendo sempre più forte ed intenso, tanto che, riflettendo parecchio sul fine ultimo che in effetti è la pesca (cioè il catturare per poi uccidere dei pesci), decisi in maniera definitiva di chiudere con la disciplina lenzatoria. Nel frattempo, siamo nei primissimi anni novanta, a casa dei miei mi capita in mano una vecchia rivista di pesca di cui non ricordo il titolo, dove si fa accenno ad un non ben identificato Lariosauro e ad una vecchia copertina de “La domenica del Corriere”. E’ la prima volta che sento questo nome, Lariosauro, e mi scatta un ‘clic’ nel cervello. Quindi, verità o leggenda, qualcosa di strano venne avvistato nel nostro lago, quantomeno negli anni quaranta. E mi dico, e se quelle due volte là in mezzo al Lario pure tu avessi agganciato qualcosa di strano? E allora inizio a documentarmi, ma non c’era internet, pubblicazioni così di nicchia su certi argomenti non sapevo neanche dove trovarle, per cui mi limito a chiedere a qualche vecchio pescatore locale e sì, in effetti, qualcuno ricorda che forse c’era stato qualche avvistamento di un essere strano, ma tutti concordano che doveva trattarsi di qualche luccio enorme, se non di qualche trota di lago di grosse dimensioni. Io intanto ho occasione di vedere un lungo documentario televisivo sul Lago di Loch Ness nella Scozia settentrionale e noto che non è poi tanto diverso dal nostro, ha la stessa origine glaciale del Lario, per cui mi viene in mente che magari anche qui, come parrebbe esserci lassù, ci possa essere qualcosa di simile sott’acqua. Poi ne parlo a mio padre e pure lui rammenta il presunto avvistamento degli anni quaranta, anche perché ebbe luogo non troppo lontano da Colico (e ricordiamoci che secondo me lui non è mai stato troppo convinto, anche se nega, di quanto successo nell’estate dell’80) e si ricorda che quando era un ragazzino i pescatori locali dell’epoca avevano un sacco di racconti su pesci enormi, situazioni strane, cose impossibili viste sul lago, nelle scure notti invernali o nelle ore antelucane estive quando andavano a ritirare le reti, e queste storie, una volta spogliate delle ovvie esagerazioni tipiche della categoria, di qualche calice di rosso di troppo buttato giù nelle osterie presso i moli lacustri e delle superstizioni a metà fra il pagano e il cattolico della gente di quegli anni, un fondo di verità probabilmente ce l’avevano. E’ infatti provato che prima dell’avvento delle reti da pesca in nylon nel lago ci fossero dei pesci veramente grossi. Ho visto personalmente foto di mostruose trote di lago da venticinque/trenta chili e di terrificanti lucci fra i quindici e i venti pescati in queste acque e fotografati orgogliosamente negli anni trenta, quaranta e ancora nella prima parte dei cinquanta, anni in cui, in effetti, le reti da pesca erano fatte quasi tutte in cotone o, caso già più raro in quanto trattavasi di materiale molto costoso, in seta, cosa che rendeva piuttosto facile la fuga del grosso pesce (e spesso anche di quello meno grosso, specie quando le reti cominciavano ad essere vecchie e lise) che ci finiva dentro, il quale, o masticando le maglie o direttamente sfondandole, se ne andava lasciando spesso agli sgomenti pescatori che la mattina ritiravano le reti, dei buchi grandi quanto un’utilitaria di media taglia che davano parecchio ad intendere sulle dimensioni di questi pesci. Trote di lago nella quasi totalità dei casi. Poi, come dicevo sopra, con l’arrivo del nylon e le reti rese mille volte più resistenti, le trote di grosse dimensioni sparirono progressivamente dalle acque del lago, per vecchiaia le esistenti, per taglio preventivo quelle che venivano dopo, visto che erano catturate prima che raggiungessero taglie extralarge e adesso come adesso se qualcuno pesca una trota di cinque chili è già tanto. Eccezioni escluse, ovviamente, non possiamo negare a priori che qualche grossa trota si aggiri ancora là sotto e riesca ad evitare le reti dei pescatori. E poi ci sono i lucci: è proprio di questi giorni in cui scrivo (aprile 2013) la notizia dell’avvistamento di un luccione, stimato sui trenta chili, nella zona fra Dervio e Bellano (il luccio è un pesce che vive/caccia in zone più vicine alle rive, per cui corre pochissimi rischi di finire nelle reti dei pescatori che vengono calate più al largo, contrariamente alla trota che è un pesce “d’altura” lacustre). Negli ultimi anni poi sono arrivati anche i pesci siluro. E magari si aggira ancora o si aggirava anche qualcosa d’altro, non dico che ci fosse davvero una specie di mosasauro d’acqua dolce sopravvissuto (manco so se ne esistevano al di fuori di mari e oceani), ma non si possono escludere a priori mutazioni genetiche e casi di evoluzione deviata (situazioni realmente esistenti in natura) delle varie trote, carpe o lucci, che agli occhi di quella gente semplice come i pescatori degli anni quaranta/cinquanta potevano apparire come veri e propri mostri venuti da un’altra dimensione. Mio padre mi suggerì però di chiedere qualcosa a suo zio Piero, cioè il mio prozio di Gravedona, sull’altra sponda del lago; elettricista in pensione, lo zio (defunto nel 2005) era un personaggio decisamente estroso ed affascinante: finito per anni in campo di concentramento in tempo di guerra (con due figlie appena nate a casa), ogni estate batteva i campeggi della zona, sempre gremiti di tedeschi, sperando di trovare in particolare due fra quelli che erano stati i suoi aguzzini e di rendergli pan per focaccia. Vendette anti-nazisti a parte, sapeva raccontarti storie di caccia e di paese con un eloquio che ti magnetizzava e che rendeva interessante anche racconti dei cui fatti non poteva fregarmene di meno. Una specie di Mel Brooks o Walter Matthau in salsa altolariana in pratica! E quindi in occasione di un natale o di qualche festività, ebbi modo di avvicinare lo zio e di fargli qualche domanda: e lo zio non deluse le mie aspettative, dicendomi, in quella sua maniera così coinvolgente, che sì, secondo lui, nelle profondità del lago si aggirava qualcosa di enorme e sfuggente, che lui definiva un “lemàri”, termine, altrimenti inesistente, da lui coniato per descrivere questa misteriosa creatura. E a supporto di ciò mi ricordò che di avvistamenti ce n’erano stati parecchi fra gli anni quaranta e cinquanta, e che non tutti erano finiti sulle cronache dell’epoca, dicendomi questo con un sorrisetto sornione che lasciava intendere che pure lui avesse intravisto qualcosa durante il suo peregrinare lacustre con la barchetta da cacciatore di anitre o scrutando il pelo delle acque del lago durante i suoi turni da tecnico addetto ai controlli dalle finestre della centrale idroelettrica di Gravedona. Iniziai allora ad appassionarmi veramente a questa storia del lariosauro e cominciai a cercare materiale a riguardo. Poco invero, dato che a parte la storia apparsa su ‘La domenica del corriere’ che ritrovai riproposta su una rivista tipo ‘Panorama’ o giù di lì in un mini-riquadro all’interno di un lungo articolo su Loch Ness e altri laghi teatro di apparizioni di fantomatici mostri d’acqua dolce, non recuperai un bel nulla, a parte un libro di tale Giovanni Galli (semplice omonimo dell’ex portiere di Milan e Fiorentina), che però usava la figura del mostro riemerso dalle profondità come parallelo col riemergere dell’ideale fascista la cui figura principale, quella del Duce, era morta proprio sulle rive del Lario; un bel romanzo, ma pur sempre un racconto di fantasia, non le testimonianze reali di cui ero in cerca. Finalmente, da un lato con l’avvento di internet e qualche informazione sparsa qua e là su vari siti, dall’altro con l’acquisto del libro di Maurizio Mosca (altro caso di omonimia con lo scomparso istrionico giornalista sportivo) “Mostri dei laghi” che dedicava un discreto spazio al Lago di Como, riuscii a sapere qualcosa di più su questo Lariosauro. La prima apparizione mediatica risale all’inizio di novembre del 1946 e si riferiva al presunto avvistamento sulle rive della località chiamata Pian di Spagna, quella zona pianeggiante che si estende fra le foci dei fiumi Adda e Mera alla sommità del Lario. Fu ‘Il Corriere comasco’ a dare la notizia, a firma di tale Achille Combi, secondo la quale due cacciatori brianzoli trentenni, che stavano attendendo sulla riva del lago il ritorno dei compagni di battuta con le auto, sotto un cielo nuvoloso e davanti ad acque cupe e mosse dal vento, videro (cito direttamente le parole di uno di loro, tale Amilcare Dolcioni, trentasettenne): “A una decina di metri dalla riva, alta, sul pelo delle acque una testa enorme di mostro crestato, dagli occhi mobilissimi annusava l’aria, tentennando, quasi sospesa. Il corpo dell’animale, della lunghezza di due o tre metri, affiorava, irto di squame durissime di un colore rosso-bruno”. ‘Sticazzi, dico io! Ma non è finita qui, infatti pare che la bestia dopo aver battuto la coda sull’acqua, spalancò la bocca, emise un sibilo acutissimo e si diresse verso il centro del lago coi due cacciatori che gli spararono contro ferendolo, pare, ad un occhio, cosa che l’animale ovviamente non gradì, visto che si voltò e cercò di raggiungere la riva. “La coda percuoteva paurosamente l’acqua mentre le zampe arrancavano per risalire il pendio del fondo lago” disse alla stampa tale Carlo Bonfanti, trentaduenne. Altri colpi di fucile convinsero la bestia alla fuga e altri cacciatori, accorsi nel frattempo, fecero in tempo a vedere “una macchia vagante” fra le onde. Chiaramente il Dolcioni e il Bonfanti saranno defunti da quel dì, al momento dovrebbero avere rispettivamente centoquattro e novantanove anni, potrebbero essere ancora vivi, ma tenderei ad escluderlo, per cui posso solo sognarmi di andare ad intervistarli, se non via qualche medium ;-)! Idem dicasi, immagino, per il giornalista Combi (e per molti altri, se non direttamente tutti, protagonisti di queste vicende/avvistamenti che sto per andare a trattare). Passa qualche giorno e il 21 novembre il giornale che a tutt’oggi sfoglio ogni maledetta mattina, cioè “La Provincia” (di Como, all’epoca Lecco provincia era molto al di là da venire), dove il cronista Enrico Remondina scrive della ricomparsa del mostro in quel di Varenna, a centrolago! Stavolta a vederlo erano stati tre pescatori piemontesi che parlarono, in maniera pittoresca, di “un enorme corpo crestato, lungo circa quattro metri, a squame argentee e bluastre coperto di macchie rosse, come i catarifrangenti delle biciclette” (una descrizione che in effetti corrisponde abbastanza a quella data qualche giorno prima dai due cacciatori brianzoli). E il Remondina si spinge anche oltre, sostenendo che sei anni prima (quindi nel 1940) un mostro lungo dieci metri con il “dorso a strisce verdi e nere” era apparso durante un temporale fra le acque nei pressi di Varenna. Grossa delusione però il 25 novembre, quando il Combi dalle pagine de ‘Il Corriere comasco’ scrive di “un gigantesco orrendo storione”, pescato da due ragazzi sui vent’anni, che potrebbe essere stato il supposto mostro avvistato nei giorni precedenti. La notizia del mostro lacustre ha però nel frattempo raggiunto i media nazionali e a dicembre si vede su ‘La Domenica del Corriere’ un articolo che riassume le vicende, corredato da una foto del lago con un indecifrabile movimento d’acqua e la didascalia ‘E’ lui?’. Il ‘Corriere della Sera’ parla addirittura di un “mostruoso sauro” e l’ipotesi preistorica porta al conio del nome Lariosauro. Sui vari giornali, locali e nazionali, per qualche tempo impazza il dibattito sulla natura del mostro: si pensa, come già detto, ad un grosso storione “pesce di mole ragguardevole dotato di squame tali da dare un’ apparenza crestata, coda particolarmente notevole e lunghi barbigli che una fantasia eccitata poteva scambiare per una spaventevole aguzza dentatura” (da ‘La Provincia’) o ad un’enorme carpa “il cui aspetto, se la si osserva di fronte, ha qualcosa di relativamente mostruoso. La testa schiacciata, la bocca larga e cascante ai due lati, gli occhi grossi e rotondi e infine il labbro inferiore munito di quattro barbigli conferiscono a questo pesce un’aria tutt’altro che domestica e in grado quindi di spaventare i cacciatori domenicali di anatre. Inoltre, invecchiando, il dorso diventa crestato, ciò che conferisce loro un vago sembiante di draghi” (da ‘Il Corriere della Sera’). Ancora ‘La Provincia’ riprende i vecchi scritti di Paolo Giovio, il vescovo comasco vissuto fra quattrocento e cinquecento che redasse alcuni libri a sfondo scientifico e parlò dei cosiddetti “burbari dei Grosigalli”, pesci grandi quanto un uomo che pare si nascondessero fra le caverne delle rocce nei fondali presso Bellagio. Un’ipotesi decisamente a sfondo criptozoologico questa! Apriamo ora una parentesi di fondata realtà, perché il Lariosauro esiste veramente e non è quello ipotetico con sembianze mostruose di cui abbiamo trattato finora, ma il nome dato al fossile ritrovato nell’ottocento nel calcareo nero sopra Varenna. Questo “the true” Lariosauro (come i Mayhem, eheh) era un animale di dimensioni ridotte: i resti, incompleti, misuravano cinquantasei centimetri di cui ventidue solo per il collo. Venne denominato “Lariosaurus Balsami” (da Balsamo Crivelli, professore che esaminò il primo esemplare ritrovato) da Giulio Curioni dopo che venne trovato un secondo fossile, sempre scavando nelle montagne sopra Varenna, a Perledo per la precisione. Assieme al Lariosaurus venne scoperto nella stessa zona anche un altro rettile della famiglia dei sauri, pure questo piuttosto minuscolo, la lunghezza totale era di ventidue centimetri e mezzo (essendo stato ritrovato nella zona dove Plinio il Giovane aveva una villa, il Curioni gli attribuì il nome di Macromirosaurus Plinii. La passata presenza del senatore romano, ma di nascita comasca, influenzò non poco l’area del Lario, basti pensare, giusto per fare due esempi, al paesello di Corenno Plinio ed al piroscafo attivo sulle nostre acque fino ai primi anni sessanta e che ora, dopo quasi trent’anni trascorsi a fare il frangiflutti al Centro Nautico di Colico, giace tristemente sul fondo del Lago di Mezzola, dove era stato trasferito a fine anni novanta e dove si è ingloriosamente inabissato qualche anno fa). Torniamo ora sul pezzo, sul Lariosauro come lo si intende comunemente (e quindi erroneamente, visto quanto appena scritto). Passano otto anni da quel 1946, l’Italia esce faticosamente dalle macerie della guerra e sul Lago di Como, più precisamente ad Argegno, ramo comasco del Lario, il 31 agosto del 1954 il signor Palmiro Bianchi, assieme al figlio Sergio, è testimone di un nuovo avvistamento. Riporto le parole del Bianchi: “C’era realmente. Guardi, questo lo posso giurare. L’ho visto benissimo. Ero giù da basso: ho un bel pezzo di terreno. Pescavo. Mi sono spaventato da matti. Ero lì a tre o quattro metri: non ero tanto lontano. E forse, se io non avessi parlato, sarebbe venuto ancora più avanti. Invece ho detto a mio figlio di darmi la fiocina. Ma quando è arrivato con l’arnese, l’animale si era già girato e se n’era andato. Se veniva fuori dall’acqua, gli davo un colpo. Sarà stato lungo un ottanta centimetri, novanta. E’ difficile fare un calcolo. Di dietro era come un maiale, più o meno. Ho anche visto sotto delle zampe, le muoveva. Ma è stato un attimo. Forse adesso ci starei più attento, ma allora mi dissi solo: ‘Cosa sarà quell’affare lì?’. Veniva dalla parte di Colonno. Quando era vicino ho detto: ‘Ma quello è un maiale!’. Però poi ho pensato: ‘Ma il maiale non va mica sott’acqua!’. Le zampe erano come quelle di un’anitra. Ho visto quell’animale, ma è stato un lampo. Non è mica stato lì ad aspettare me per farmi vedere come era fatto. Eh, se si fosse fermato un secondo, si poteva guardare. Più o meno, aveva un grosso muso come un pesce, ma era differente, perché quello del pesce è aguzzo, mentre quello lì era arrotondato. Ma davanti non l’ho visto molto. Zampe davanti non ne ho viste. Non ho fatto in tempo. E’ come se tiri un sasso ad un cavedano: va via di corsa. Comunque non era un pesce, neanche per sogno. Conosco il luccio, la trota di lago, la carpa, tutti i pesci. Ma quello non era un pesce. Il pesce non ha mica le gambe! Di pesci me ne intendo. Mio papà faceva il pescatore, mio fratello pure. Io abito proprio sul lago. La mattina e la sera guardo giù, do anche da mangiare ai pesci. Ho visto una specie di pesce che non avevo mai visto. L’ho detto qui ad Argegno. Un pesce che era un fenomeno. Una tinca non poteva essere e neppure una carpa, perché era troppo grosso.” ‘La Provincia’ e ‘Il Corriere comasco’ aggiunsero alle parole del signor Palmiro il ricordo di una leggenda secondo la quale nelle acque lariane un tempo vivevano “degli strani mostri che del maiale avevano la forma, della serpe la astuzia e del luccio la voracità e che durante il giorno vivevano nelle profondità del lago, si nutrivano a preferenza di pesci, ma durante la notte, quando cioè risalivano dal fondo e prendevano terra, non avrebbero disdegnato la carne umana”. Il Bianchi, interpellato a proposito di queste misteriose leggende rispose con del sano pragmatismo lariano: “No, non me ne sono mai interessato. Io ho un garage, mi interessa il mio lavoro!”. Nota di colore e di cronaca: un paio di settimane dopo a Como giunse un altro “mostro”, questo, però, ben conosciuto dalla scienza. In Piazza Vittoria fu messa in mostra una balena imbalsamata (catturata nei mari del Nord) lunga ventidue metri. “E’ uno spettacolo”, scriveva ‘L’Ordine’ del 14 settembre ‘54 annunciandolo per i due giorni seguenti, “da non lasciarsi sfuggire perché non sarà facilmente ripetibile”. Passano tre anni e siamo nel 1957, l’anno in cui Elvis Presley esce con “Jailhouse rock”. Qui sul lago, un giorno di inizio agosto, molta gente dei paesi di Musso e Dongo è testimone di uno strano avvistamento. L’articolista de ‘L’Ordine’ scrive che verso sera davanti alla spiaggia fra Musso e Dongo, appunto, “apparve tra le onde una testa mostruosa di forma triangolare, irta di creste e con due occhi enormi fosforescenti, con un corpo di forma cilindrica, munito di pinne e di coda che ad occhio e croce misurava circa sei metri di lunghezza. Si alzava sull’acqua come se giocasse e si divertisse a frangere i cavalloni. La spiaggia era piena di bagnanti, un codazzo di gente si era portato sulla riva per osservarlo”. Non viene fatto, però, nessun nome e ciò non depone certo a favore della veridicità della notizia… Il cronista riferisce però di una descrizione data da un testimone anonimo, il quale parlò di “un corpo nerastro con riflessi argentei sul ventre, coda larga e appiattita come quella delle balene, testa enorme con una bocca sempre spalancata e munita di denti aguzzi e bianchi, occhi cespugliosi e fosforescenti che mandavano lampi”. Altri testimoni, sempre rigorosamente anonimi, ne parlavano come di “un lucertolone lungo più di dieci metri e del peso di diversi quintali”. Pare che a questo punto vennero chiamati dei pescatori professionisti perché cercassero di catturare lo straordinario animale, ma (riprendo sempre dall’articolo de ‘L’Ordine’) “siccome si era fatto tardi le tenebre resero poco visibile la bestiaccia, che, a dirla con la gente del luogo, per paura d’essere catturata si immerse negli abissi”. L’articolo terminava proponendo alcune ipotesi sulla natura del presunto mostro: per un vecchio pescatore del posto in vena di racconti a sfondo epico “quello è il biscione che Gian Giacomo dei Medici relegò negli abissi del Giardino del Merlo. Ogni dieci anni lascia la tana per venire a prendere un po’ di aria fresca sulla riva”. Per altri, già leggermente più realisti, era invece “un coccodrillo vecchio, buttato nel lago dal personale di un circo di passaggio”. Decisamente curiosa un’altra ipotesi sulla natura del mostro, quella senza saperlo più criptozoologa, si sarebbe trattato “di una tartaruga senza guscio che da secoli vive negli abissi dell’Alto Lario”. Passa un mesetto e a settembre, sull’altra sponda altolariana, nella fattispecie a Dervio, due bergamaschi, Luigi Percassi e Renzo Pagani, sono testimoni di un nuovo strano avvistamento. Il solito quotidiano comasco ‘L’Ordine’ riferisce dell’immersione con una batisfera del duo orobico per tentare di recuperare il corpo di una donna vittima di un incidente automobilistico nell’anno precedente e cita un “particolare interessante, fornitoci personalmente dal signor Percassi e suffragato dal socio Pagani: fu visto distintamente da ambedue, a novanta metri di profondità, affacciato ad una anfrattuosità della roccia, uno strano animale dalla testa arieggiante quella del coccodrillo. Del misterioso essere, dotato di lingua da rettile e di zampe (non di pinne), i due videro solo la parte anteriore. La lunghezza fu stimata tra i sessanta centimetri ed il metro e venti (il fatto che si vedesse solo una parte dell’animale rendeva difficile il computo). Si trattava dello stesso animale del quale si è parlato non tanto tempo fa, quello cioè avvistato nelle acque dell’alto lago? Comunque qualcosa nel lago c’è, poi naturalmente la gente galoppa con la fantasia”. Qualche anno dopo, nel 1962, un’altra sventura (un’imbarcazione si rovesciò ed i tre occupanti morirono annegati) richiamò sul lago di Como il Pagani e il Percassi con la loro batisfera. Anche in questa occasione i due, durante il loro lavoro, avvistarono degli animali insoliti: “degli stranissimi pesci abissali con la testa molto grossa” (nota di colore: il figlio del Percassi, Emanuele, ha scritto di recente un romanzo intitolato “Il mostro del lago di Como. Il lariosauro”, storia di due ragazzi maturandi e di due ricercatori svizzeri senza scrupoli a caccia del sauro lariano). E poi più nulla, almeno più nulla di documentato. Di sicuro, come il mio prozio mi suggerì, qualcun altro vide qualcosa, ma non disse nulla alla stampa. Io stesso, pur non avendo visto nulla, un paio di situazioni strane le avevo vissute, no? Bisogna attendere ben quarantun anni per trovare ancora qualcosa sugli organi di stampa. E’ infatti la volta del presunto avvistamento di un’anguilla gigantesca, lunga sui dieci/dodici metri, avvistata nelle acque vicino a Lecco nel luglio del 2003. Secondo il ricercatore Giorgio Castiglioni si trattava però semplicemente di un gruppo di pesci che nuotavano compatti in fila e la cosa ebbe comunque pochissima risonanza mediatica, specie rispetto agli episodi del passato. Comunque, in generale, le teorie volte a smontare le vecchie ipotesi del mostro lacustre sono molteplici, si è parlato di una lontra in riferimento all’episodio del 1954 (in effetti al tempo detto animale era presente sul lago), di un luccio gigante in riferimento a quello dell’episodio derviese del 1957 (e il luccio alligatore, dico io? Un terrificante pesce, che nulla ha a che fare col luccio vero e proprio a parte una vaga somiglianza che si aggiunge a quella con l’alligatore, da lì il nome. Il bestione è lungo anche più di tre metri, ma è presente nel solo Nordamerica, anche se si narra di catture casuali in Indonesia, Turkmenistan e Malesia, vuoi mai che ne sia arrivato qualcuno anche quassù?), di anguille giganti, di storioni enormi o addirittura la rara forma adulta di una specie anfibia (l’axolotl o salamandra messicana) che generalmente conduce nella forma larvale tutta la sua vita. Insomma, ci sono diverse ipotesi sul fenomeno, che in mancanza di prove scientifiche molti considerano basato esclusivamente su esagerazioni e mistificazioni (come ad esempio i casi del Pian di Spagna e di Varenna del 1946 e di Dongo/Musso del ’57). Anche perché gli unici due casi realmente credibili (Argegno e Dervio) si riferiscono a bestie fra gli ottanta centimetri e il metro e venti e dall’atteggiamento placido, non certo a dei colossi sanguinari di quelli che infiammano le fantasie della gente. Io però ogni tanto ci rifletto su, specie quando posso sedermi in riva al lago o guardare dalla strada la vastità del nostro specchio d’acqua. E penso che tutto sommato è un lago grande (è il terzo più grande d’Italia, dopo i vicini Garda e Maggiore, con circa 146 chilometri quadrati di superficie), profondo, dalle acque scure che qualcosa di strano possono nasconderlo eccome, perché no? La porzione del Lario che vedo dal mio balcone raggiunge i cento/centocinquanta metri di profondità, ma man mano che si scende verso sud il fondale si abbassa fino a raggiungere i 416 metri della cosiddetta Fossa di Argegno. Quasi mezzo chilometro di acque nere e insondabili. Siamo proprio sicuri che non nascondano nulla? E mi viene in mente di chiedere qualcosa a chi queste acque le conosce come le proprie tasche: il sig. Rinaldo Marcelli (già citato brevemente su ‘Nessuno Schema’ # 7 per via di quella che fu la sua professione per più di cinquant’anni, cioè il meccanico), espertissimo subacqueo con all’attivo circa cinquemila immersioni nelle acque del Lario, sia per diletto, sia per il recupero di cose o persone, sia per effettuare lavori sott’acqua. Ormai ottantenne, ma con un fisico che dimostra minimo vent’anni di meno, il Rinaldo mi riceve nella sua ex officina. Ci conosciamo da almeno venticinque anni, sono stato suo cliente col motorino prima e con l’auto poi, abbiamo lavorato assieme in occasione di interventi su pontoni galleggianti e pontili vari, avremo bevuto qualche migliaio di caffè assieme nel bar davanti a casa sua, dall’altra parte della strada. Il vecchio ed esperto sub mi spiega che i fondali del lago sono perlopiù fangosi, specie in Alto Lario, per via del continuo movimento generato dall’immissione nel lago dei due fiumi (Adda e Mera), e che in generale sono sempre fangosi e/o costituiti da ammassi di detriti vari. Scarpate di roccia a picco o quasi, oppure banchi di fango e detriti che si inclinano più o meno dolcemente verso gli abissi. Lui, da sub con le bombole è sceso fino a raggiungere la non indifferente quota di 80 metri di profondità (dove, come già decine di metri prima, non si vede nulla, solo un terrificante nero pece), i fondali più profondi li ha visti dalle ore ed ore di riprese delle telecamere (mi ha passato un video di circa cinquanta minuti coi fondali da Olgiasca a Dorio: affascinante ed inquietante al tempo stesso). Riguardo ad avvistamenti strani, in anni e anni di discese subacquee, niente da segnalare, al di là di qualche luccio extralarge e di un paio di trotone sopra la media, oltre ai nuovi arrivati, i siluri, e ad uno storione tempo addietro. Certo, anche lui ricorda le storie apparse sui media al tempo e quelle da osteria del molo raccontate dai pescatori del passato, però di persona non ha mai visto niente di niente nelle migliaia e migliaia di ore trascorse là sotto. Anche se il lago è ingannatore e parecchie volte, in parte per la suggestione data dagli abissi, a qualcuno può sembrare di vedere cose o esseri che non ci sono o scambiare oggetti inanimati per creature gigantesche (al contrario parecchi pescatori a fiocina -quella notturna dalla barca con la lampara ad illuminare i fondali vicino alla riva- raccontano di aver visto quello che pareva un grosso tronco d’albero e di non aver quindi puntato l’attrezzo, per poi assistere alla fuga del supposto tronco rivelatosi un luccio di proporzioni enormi). Il re dei sub lariani concorda con me che mutazioni genetiche ed evoluzioni deviate possono essere state all’origine degli avvistamenti di cui sopra, ma riguardo a un presunto mostro prestorico, quello no, anche perché, mi dice, solo uno? Ce ne dovrebbero essere di più, quantomeno una piccola famiglia, anche i sauri del passato non si generavano da soli no? E pure in caso di unico ed ultimo discendente, anche questo prima o poi crepa. Loch Ness è una montatura, mi dice, lassù sostengono da secoli che il mostro è sempre e solo uno. Loch Ness. Nel maggio del 2011 sono stato in Scozia e ovviamente una delle condizioni che avevo posto ai miei compagni di viaggio per quel weekend fu la visita al Lago di Loch Ness (una tirata terrificante in pullman da Edimburgo con partenza al mattino e ritorno in serata). Veniva giù che dio la mandava e il lago era mosso da un vento gelido di pioggia. Luogo suggestivo, ma a conti fatti una delusione: un lago lungo e stretto, profondo al massimo 230 metri, con delle colline ai lati e dal paesaggio circostante piuttosto monotono. Il Lago di Como è tutta un’altra cosa! E non lo dico solo io, ricordo infatti l’autista del pullman, con cui stavamo chiacchierando durante una sosta, che ci magnificava i luoghi in cui stavamo transitando, ma che quando apprese da dove venivamo noi disse: “Lago di Como? Ah! Dimenticatevi quello che ho appena detto allora!” (in inglese dal forte accento scottish, ovviamente). Di Loch Ness mi ha colpito soprattutto il megabusiness che gli scozzesi hanno costruito sulla leggenda del mostro (chiamato affettuosamente Nessie), vendevano ogni possibile gadget, compresi i preservativi griffati Nessie! Dovremmo fare la stessa cosa anche noi sul Lario e costruire un business sul nostro Larrie, altrochè! Nessie, secondo la leggenda e gli avvistamenti, reali o presunti che siano, ha le fattezze di un plesiosauro, cioè quel dinosauro marino del Giurassico caratterizzato da una testa piccola, un collo lungo e sottile, un corpo largo e piatto, una coda corta e quattro zampe trasformate in pinne allungate. Resti di plesiosauri sono stati ritrovati soprattutto in Germania e Gran Bretagna, solo un caso? Non in Italia, e difatti gli avvistamenti lariani non hanno mai riportato di esseri simili a loro. Però sul Lario abbiamo un paese che si chiama Plesio (da plesiosauro?) e un altro che si chiama Nesso (cosa a che fare con (Loch) Ness?). ‘azzo, neanche Giacobbo a Voyager arriverebbe a tanto! Eppure i paesini del lago con le loro viuzze strette, i tetti in pietra cadenti, le case coi muri fatti di sassi fra cui si insinuano muschio ed erbacce, a me hanno sempre ricordato la lovecraftiana cittadina di Innsmouth sulle coste atlantiche, i cui abitanti avevano stretto un patto con gli abitanti degli abissi marini, una razza malvagia di esseri a metà fra pesce, uomo e rana, sacrifici umani in cambio di oro, finchè, obbligati da “quelli di sotto” avevano iniziato ad incrociare le proprie specie, dando vita ad ibridi che fino ad una certa età mantenevano caratteristiche umane, seppure con occhi fissi e sporgenti, palpebre immobili e piaghe intorno al collo che ricordavano le branchie dei pesci, e poi iniziavano a trasformare i propri tratti, prendevano a camminare con un’andatura strascicata, fino a diventare del tutto deformi. Acquisita la capacità di vivere in acqua si trasferivano per sempre nell’oceano con i loro avi dove sarebbero vissuti per sempre. Ora, io qualche persona con le caratteristiche appena citate (quelle fino ad una certa età, intendo e, ovvio, non in maniera molto marcata) l’ho vista qui nei paesini sul lago! D’accordo che un conto sono i quattrocentosedici metri di massima profondità del Lago di Como e un altro i quasi quattro chilometri di media dell’Atlantico, però chi mi dice che i nostri fondali non ospitino una strana razza più antica dell’uomo e che qualcuno qua sopra non abbia iniziato qualche blasfemo commercio con i suoi rappresentanti? Avevo una vecchia teoria, espressa più volte al mio ex collega di fanza Marco, volta a spiegare il perchè le ragazze di un particolare paese dell’Alto Lario, anche le più carine, avevano tutte qualche piccola anomalia fisica, un difetto appena accennato, specie a livello di occhi, di postura o di andatura. In un primo momento avevo pensato a segreti esperimenti nucleari nel tranquillo paesino lacustre, ma se fossero invece il risultato degli incroci con “quelli di sotto”? Vorrei vedere queste ragazze passati i sessant’anni! ;-) D’altronde i due bergamaschi del batiscafo videro una strana creatura munita di zampe nei pressi di un paese dell’altolago, no? Lo ammetto, mi sto lasciando fuorviare dal fascino per gli abissi che ho mutuato da anni e anni passati a leggere H.P. Lovecraft, però chi mi dice che là sotto non ci sia addirittura quella razza giunta dal cosmo, i cosiddetti Grandi Antichi, le abominevoli creature aliene che si insediarono sulla Terra quando ancora la vita terrestre era al di là da venire. La progenie di Cthulhu nelle nere acque del lago. Iä! Shub-Niggurath! Il capro dai mille piccoli! (che non c’entra un cazzo, ma questa frase mi ha sempre entusiasmato quando saltava fuori nei racconti di Lovecraft, per cui non posso certo perdere l’occasione di metterla). Lo so, sto delirando lucidamente, me ne rendo perfettamente conto, però in fin dei conti, tornando su piani più terreni, riguardo al Lariosauro stiamo trattando forse di una creatura preistorica sopravvissuta fino ai giorni nostri, se non di una specie totalmente nuova e sconosciuta, qualcosa che esiste da sempre, ma che nessuno ha mai scoperto e portato alla luce. E il solito Lovecraft scrisse “Non è morto ciò che può vivere in eterno e in strani eoni anche la morte può morire” (fra l’altro gli Iron Maiden inseriranno questa citazione sulla copertina del doppio dal vivo “Live after death”), frase enigmatica (e che si presta a diverse interpretazioni) che da un lato potrebbe spiegare gli avvistamenti di questa specie eterna nel secolo scorso nella prima parte e la cessazione di essi negli ultimi cinquant’anni (episodio dell’anguillone lecchese a parte) nella seconda, ma da un altro lato suggerisce l’immortalità di questo essere misterioso. Che i mostri del buon H.P. c’entrassero veramente qualcosa? ;-) Ma scherzi a parte, l’idea di un qualcosa dato per estinto che poi invece si ripresenta in pieno skrewdriveriano “back with a bang”-style è sempre decisamente affascinante (faccio l’esempio del celacanto, un pesce oceanico lungo circa due metri che era dato per estinto addirittura dal Cretaceo, ma che a fine anni trenta venne pescato vivo e vegeto e in seguito altri esemplari ogni tanto sono finiti in qualche rete sino ai giorni nostri. Anche gli squali, poi, sono dei veri e propri fossili viventi) e, tutto sommato, penso che se là sotto ci sia qualcosa (o ci sia stato qualcosa), probabilmente si trattava di qualche caso di mutazione/evoluzione mancata (i pesci avevano le zampe prima che queste diventassero pinne no? Una caratteristica del passato che si ripresenta dopo millenni spiegherebbe il “maiale” del sciùr Palmiro e la strana creatura vista dai bergamaschi del batiscafo), ma, perché no?, anche di una specie di un’era remota sopravvissuta fino almeno alla metà del secolo scorso. D’altra parte molte leggende potrebbero essere state ispirate da semplici, per quanto inusuali e spaventose, soprattutto per quei tempi, bestie che in qualche maniera e in certe zone non si erano estinte del tutto, se non da specie al tempo presenti in zone dove ora non si immaginerebbe nemmeno potessero vivere (una prova è la presenza in molte chiese della bassa padana di, nel primo caso, strani ed enormi reperti ossei e, nel secondo, di quei coccodrilli appesi alle volte). Ad esempio il cosiddetto “mostro Tarantasio” che si dice vivesse nel Lago Gerundo (un vasto specchio d’acqua padano, formato dagli straripamenti delle acque dell’Adda, dell’Oglio e del Serio, scomparso nel corso del tredicesimo secolo) e che si narra fosse stato ucciso dal fondatore della nobile famiglia Visconti (da cui il Biscione nello stemma della città di Milano), poteva benissimo essere un rettile acquatico sopravvissuto dall’era preistorica o un grosso coccodrillo, facendo la dovuta tara all’enfatica descrizione fornita da un monaco dell’epoca che parlava di corpo serpentiforme, testa molto grande munita di corna, coda e zampe palmate, oltre naturalmente alla capacità di sputare fuoco dalle fauci (ovvio il riferimento infernale per spaventare la povera gente e soggiogarla alla propria religione…) e al fatto che, cosa effettivamente già più credibile (pensiamo solo agli alligatori della Florida, giusto per fare il primo esempio che mi viene in mente), attaccava anche gli esseri umani e li divorava orribilmente. Al di là di questo episodio a metà fra la realtà e la saga epica (sulla scia di San Giorgio e il drago e compagnia), noi lariani siamo indiscutibilmente quelli che possono vantare il mostro lacustre più famoso in Italia e il numero più elevato di avvistamenti strani. Molto staccato segue il lago di Garda col caso del supposto plesiosauro nel 1965, che alcuni pescatori avrebbero visto mangiare direttamente dalle loro reti pesci e rete stessa. E fra l’altro si parla di un plesiosauro, che in teoria in norditalia non ci dovrebbe mai essere stato, nè ai suoi tempi, né tantomeno nell’anno della seconda coppa dei campioni interista, della beatlemania e dell’assassinio di Malcolm X. Ergo, quella del Garda è una balla. Orgoglio lariano, altrochè! ;-) Per quanto comunque in tutto il mondo esistano decine e decine di laghi col proprio mostro, da quelli in cui effettivamente qualcosa sembrerebbe esserci davvero a quelli che invece l’hanno semplicemente mutuato da qualche leggenda o storiella da camino accesso di secoli e secoli prima. Negli ultimi anni sono poi venuto a conoscenza che Davide Van De Sfroos, il cantautore dialettale lariano per eccellenza (è di Mezzegra, ramo di Como), nel 2001 su uno dei suoi dischi inserì un pezzo intitolato “El mustru” (trad. Il mostro, beh era facile anche per i non locali, eheh) che parlava proprio del Lariosauro! Cavolo a sapere che anche il Davide ne era appassionato gli avrei chiesto qualcosa a riguardo quando nei primi anni 90 mi chiamava a casa per cercare di piazzarmi qualche copia della cassetta dei De Sfroos (la band pre-carriera solista del nostro) per la mia distribuzione La Fiera del Bestiame! Ricordo che avevano fatto un bell’album su cassetta, appunto, intitolato “Viif” (trad. Vivo) e che alla fine ne avevo prese dieci copie per la distro, dato che a me piaceva e pensavo che, per le sue caratteristiche del cantato in dialetto e del tipo di musica (un folk-pop-rock decisamente fruibile da diverse fasce di potenziali ascoltatori), potesse interessare anche altra gente. Feci invece una fatica impressionante a darli via, ci misi dei secoli. Poi quando nel ‘95 usci “Manicomi” (trad. Manicomio: il dialetto del Lario meridionale non è una lingua particolarmente ostica, come potete vedere), il primo album vero e proprio, gran bel disco, e loro stavano cominciando a diventare famosi gliene presi venti (dieci cd e dieci cassette mi pare) che andarono via in due settimane, manco fosse un disco di Vasco Rossi, non ne ho più nemmeno una copia originale io, che col senno di poi ne tenevo qualcuna e adesso su ebay… ;-) ! Negli anni ho perso i contatti con Davide, ma sono contento del suo successo, meritatissimo, specie per certi suoi testi (più che per la musica), che per me sono dei veri e propri affreschi della vita sulle sponde nel nostro lago. Detto questo non ho seguito molto la sua carriera solista, ho solo sentito qualcosa ogni tanto e scaricato alcuni pezzi dal web, pur continuando ad ascoltare spesso i vecchi De Sfroos. Comunque vengo a sapere dell’esistenza di questo pezzo dedicato al mostro del Lago di Como e vado a cercarmelo, ovviamente in rete. Bella la musica, ma splendido il testo (in dialetto, naturalmente), con un anziano che parla in prima persona dalla casa di riposo in cui è stato confinato e che ricorda di quella volta in cui anni e anni prima, quando era un pescatore di professione, una notte vide il mostro del lago, (traduco direttamente) “dalla forma di un’anguilla, grande come un battello, una biscia color catrame con la bocca spalancata e due occhi d’oltretomba”. E Van De Sfroos dimostra di saperla lunga quando canta di “un mostro finito in un tempo che non era più il suo”. Lo sfortunato pescatore del pezzo racconta che “m’han trovato lungo disteso con gli occhi da indemoniato che parlavo da solo” e che gli dissero che questo era da attribuire al diabete “per non dirmi che ero matto”. E “quando passavo per strada la gente mi salutava, quando mi giravo la sentivo ridere…nemmeno i bambini mi hanno mai creduto ed ero il re dei rimbambiti”. Il finale del pezzo è epico e da pelle d’oca: “Adesso sono in pigiama, ma son qua sopra un pontile ad aspettare che salti fuori. Sono pieno di medicine, tutti mi parlano di arteriosclerosi, ma sono qui per risolvere la questione definitivamente. Ti aspetto seduto con in mano solo una fiocina e di paura proprio non ne ho. Fai vedere a questi pezzi di merda se sei davvero dentro le acque del lago o soltanto nella testa di un rimbambito. Un mostro che senza i miei occhi non ci sarebbe mai stato”. Ecco, io sarà meglio che la smetta con ‘sta storia del Lariosauro, che non vorrei finire anch’io così! ;-) Eppure resto convinto che qualcosa nel nostro lago ci sia, o ci sia stato. E forse è un bene che nessuno lo sappia mai.
“Penso che la cosa più misericordiosa al mondo sia l’incapacità della mente umana di mettere in relazione i suoi molti contenuti. Viviamo su una placida isola d’ignoranza in mezzo a neri mari d’infinito e non era previsto che ce ne spingessimo troppo lontano. Le scienze, che finora hanno proseguito ognuna per la sua strada, non ci hanno arrecato troppo danno: ma la ricomposizione del quadro d’insieme ci aprirà, un giorno, visioni così terrificanti della realtà e del posto che noi occupiamo in essa, che o impazziremo per la rivelazione o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella sicurezza di una nuova età oscura.”
(Howard Phillips Lovecraft, 1926)
Appendice semiseria (oddio, non che fino ad adesso…) :
Durante la mia personale ricerca della verità, come un Fox Mulder la cui ossessione non è la sorella scomparsa, ma il Lariosauro, sono entrato recentemente in possesso di questo strano e riservato carteggio telematico datato luglio 2007…
—– Original Message —– Sent: Friday, July 13, 2007 8:52 AM From: roland.skinner@fbico.com To: p.s.a.@colicontro.it CC: fox.murder@fbico.com Subject: Lariosauro
Mi giungono notizie di un possibile attacco del Lariosauro in Alto Lario, confermate da lassù? Bisogna aprire un X-File o…?
—– Original Message —– Sent: Saturday, July 14, 2007 6:18 AM From: p.s.a.@colicontro.it To: roland.skinner@fbico.com Cc: fox.murder@fbico.com Subject: Re: Lariosauro?
Sì direttore, confermiamo. E, come spesso accade in questi casi, qualcuno nelle alte sfere in Regione e nelle due Province di Como e Lecco ha cercato di insabbiare la notizia che solo pochi siti (subito oscurati) e giornali non compromessi (e dalla diffusione risibile) hanno riportato e che noi PSA (Pistoleri Solitari Altolariani), abbiamo recuperato decriptando dei files inviatici da uno dei nostri informatori: [Morbegno, 10 Luglio 2007] [ritrovato in forte stato di shock presso le spiagge alla foce dell’Adda in località Ravighèt, comune di Gera Lario, il direttore di reparto di una grossa catena di ipermercati dato per disperso qualche giorno fa. A.R., anni 34, che non ricordava assolutamente nulla di quanto successo nei giorni precedenti (eccetto il ricordo persistente di sibili laceranti), è stato ricoverato all’ospedale di Morbegno ed esaminato a scopo precauzionale. I medici hanno riscontrato nel soggetto segni di artigli non identificati sui fianchi e delle lacerazioni dello sfintere, accompagnate da tracce di liquido. I dottori sono concordi nel ritenere A.R. vittima di un violento stupro. Si indaga già negli ambienti omosessuali dei ritrovi clandestini sulle spiagge altolariane. Messa subito in ridicolo e scartata da alcuni luminari (stranamente inviati in tutta fretta sul posto dalla Regione) l’ipotesi avanzata da un giovane assistente (che vuol mantenere l’anonimato) che attribuisce la violenza a un essere non identificabile; a sostegno della sua fantasiosa tesi, le tracce di liquido, che il giovane non esita a definire spermatico, nonchè le impronte dei grossi artigli, non hanno riscontro con quelle di nessun altra specie, umana o animale, conosciuta. I luminari interpellati negano addirittura lo stupro e parlano invece di giochi omosex di ruolo con travestimenti e liquidi artificiali acquistabili in ogni sexy shop…]
Fate voi 2 + 2 ! Trust no one!
—– Original Message —– Sent: Wednesday, July 18, 2007 8:35 PM From: roland.skinner@fbico.com To: p.s.a.@colicontro.it Subject: Re: Re: Lariosauro
Ottimo lavoro! Chiedo scusa per il tardivo riscontro, ma ero impegnato in un’indagine a tutto campo su un misterioso essere da alcuni identificato come il Big Foot della Brianza. Il vostro rapporto è chiaro ed esaustivo e vi invito ad approfondire il caso, cercando di raccogliere dei campioni del liquido ritrovato all’interno del retto dello sfortunato direttore di supermercato, onde inviarli poi a Quanticomo. Teneteci informati sul procedere delle indagini e vi invito alla massima prudenza, le alte sfere e chissà chi altro ci tengono sotto tiro. A presto.
Roland Skinner
—– Original Message —– Sent: Friday, July 20, 2007 10:28 AM From: p.s.a.@colicontro.it To: roland.skinner@fbico.com Subject: Re: Re: Re: Lariosauro?
Direttore, seguendo le sue indicazioni abbiamo già attivato un certo M.B., morbegnese 30enne, che si è detto certo di riuscire a raccogliere campioni del liquido dal retto dello sfortunato direttore di supermercato con mezzi, ehm, propri! Le faremo sapere! Temo però che saremo costretti a togliere internet per un po’, dopo una visitina da parte di alcuni misteriosi emissari della Regione a seguito di questa nostra indagine, quindi dovremo comunicare solo via telefono per un po’! Via linea sicura, s’intende. La verità è là fuori!
—– Original Message —– Sent: Monday, July 30, 2007 8:09 AM From: p.s.a.@colicontro.it To: roland.skinner@fbico.com Subject: Fw: Re: Re: Re: Lariosauro?
Direttore, non l’abbiamo più sentita e temiamo che che l’Uomo che Fuma giù in Regione abbia intercettato e distrutto i nostri e i suoi messaggi. Attendiamo riscontri.
E da lì più nulla… Che ne dite? Fu un insabbiamento? Ci furono pressioni sul direttore comasco? E magari in seguito anche sui suoi agenti e sui pistoleri altolariani? Il mistero permane tuttora…