IF YOU SWEAR, YOU’LL CATCH NO FISH

L’idiota che firma questo articolo (cioè io, senza troppi giri di parole) è un ex pescatore. Sì, uno straight edge e pure vegetariano che fino a non molti anni fa impugnava ancora una canna da pesca per catturare e poi uccidere dei pesci. Sconvolti? Schifati? …. o più facilmente non ve ne frega un cazzo? Comunque sia, era così. E al mondo della pesca ho legato tanti bei ricordi.La passione mi venne, credo, nell’estate dell’80 (se non ricordo male), a 8 anni ancora da compiere. Prima non ero interessato, ma prima non ero interessato a nulla, se devo essere sincero, per tanti versi ero un po’ un bambino abulico. C’era mio nonno materno (colui che contribuì poi ad iniziarmi alla passione per il calcio) che era forse uno dei migliori pescatori di Colico e di tutto l’Alto Lario, c’era mio papà che, non così spesso come il nonno, andava a pescare, e c’era un prozio (fratello del nonno di cui sopra) che dedicava pure lui parecchio tempo alla disciplina pescatoria; ma non fu nessuno di loro a darmi il classico input decisivo (anche perché il nonno a quel tempo era già costretto a letto, o poco più, da una trombosi fulminante), bensì una vecchia milanese (ebbene sì, una donna ultrasessantenne!) che si metteva sugli scogli vicino al campo sportivo di Colico e catturava piccoli pesci lacustri (triotti, scardole, qualche alborella…per i più informati!) con una cannaccia di bambù e qualche cagnotto (quei vermicelli biancastri) infilato malamente sull’amo. Una mattina, mentre vagabondavo (perso fra i miei pensieri…nulli) in quella zona, mi fermai affascinato ad osservare la vecchina che estraeva pesci dall’acqua uno dietro l’altro con una precisione ed un tocco quasi meccanici! Due o tre giorni dopo ricapitai lì e lei mi chiese se volevo provare anch’io: dissi di sì, catturai subito una manciata di triotti uno dietro l’altro e il Cupido in stivaloni verdi al ginocchio, gilet da pesca e canna da lancio dietro la schiena, mi colpì (con la sua fiocina, ovviamente!) irrimediabilmente. Tornai a casa con un acquario al posto del cervello, mi feci dare dal mio vecchio una canna di quelle fisse, gli chiesi di farmi la lenza e il mattino dopo ero lì al fianco dell’anziana pescatrice a riempire il mio secchiello di piccoli ciprinidi. Tempo pochi giorni ancora e fui arruolato da mio papà per una spedizione in barca a molagna (attrezzo pescatorio tipico dei grandi laghi del nord Italia, non sto qui a descriverlo, se vi interessa chiedetemelo via lettera, cavo o e-mail, ok?); probabilmente prendemmo un paio di cavedani (che a molagna è un risultato da niente, come quello di un eventuale Barcellona-Colico 1-0…con la squadra del mio paese nelle coppe europee grazie ad un’ipotetica serie di rinunce dalla A in giù!), ma io ero al settimo cielo (per una volta tanto…) e da lì la mia vita non fu più la stessa, per molti anni a venire. Le uscite in barca erano però più che altro un lusso (visto che mio padre non aveva il tempo di effettuarle troppo spesso ed io ero troppo piccolo per essere lasciato uscire sul lago da solo), così che feci i miei primi passi e le prime esperienze nel mondo pescatorio da solo, provando a seguire qualche consiglio del parentado esperto, osservando i pescatori più vecchi in azione ed adattando tutto ciò alle mie scarse capacità e conoscenze; dopo un’estate passata a canna fissa, quell’autunno scoprii la pesca col pane e la canna da lancio (scardole grosse, pighi, qualche cavedano) e passai quasi tutti i pomeriggi di ottobre e novembre seduto sugli antichi muraglioni del molo di Colico, con qualsiasi tempo (ricordo giornate di acqua torrenziale con me impassibile stretto in un impermeabile giallo modello pescatore norvegese di balene, e mia mamma preoccupata e incazzata come una biscia che temeva per la mia salute!)… si prendeva bene e per nessun motivo al mondo avrei rinunciato alla puntatina pomeridiana a pesca, peraltro sempre in mezzo ad orde di vecchiacci brianzoli-milanesi e locali: pensionati che invadevano il molo, chi a pesca, chi a far passare il tempo. In primavera venni folgorato da alcuni articoli letti su certe riviste di pesca che avevo consultato febbrilmente durante l’inverno (stagione in cui avevo ridotto parecchio l’attività, dato che non è buona per le pesche in cui fino a quel momento mi ero cimentato) e mi buttai nella pesca al cavedano (il pesce di lago più furbo in assoluto!) con esche e montature invisibili (il mitico filo dello 0,06!), che abbandonai quando mi resi conto che, dopo tutti i miei calcoli modello fisica-nucleare, le catture erano irrisorie (a livello di grandezza del pesce), se confrontate con quei cavedani che prendevamo a molagna con metodi ben più rozzi, ma efficaci! Negli anni seguenti, grazie anche alle prime uscite in barca da solo, sperimentai un po’ tutti i tipi di pesca (adesso elencherò tecniche ed attrezzi incomprensibili ai più): cavedenera, moschera, cucchiaino, rapala (il mitico pesciolino-esca in legno che prende il nome dal suo ideatore, il finlandese Lauri Rapala -con l’accento rigorosamente sulla prima “a”, non sulla seconda o sull’ultima come ho avuto modo di sentire pronunciare per anni da ignorantissimi pescatori locali e non!-, R.i.p.), tirlindana (avete capito da dove hanno preso il nome gli italian-new wave-strappafighe-rockers del Centrolago?), la succitata molagna, al vivo, col pane, con lo scooby-doo, con vermi, cagnotti, gatoss, e poi amettiere e spaderne, fiocina (dalla barca, mica subacquea!) e addirittura dei pezzi di rete piazzati qua e là; le reti erano (e sono) illegali, come, a maggior ragione, un altro paio di “metodi” che mi sono sempre rifiutato di usare perché veramente da carnefici: il cosacco (trattasi di un finto pesciolino in piombo, pieno di ami e rilucente, che si dovrebbe calare nei branchi di pesci persici, quando durante l’inverno questi stazionano insieme in gruppi di decine e decine di unità: il rilucere li attira e quelli più vicini finiscono infilzati, solo che sono più quelli feriti, che moriranno dopo atroci sofferenze, di quelli che vengono effettivamente issati in superficie) e la dinamite (soprattutto perché al 99% sarei saltato in aria anch’io!). Insomma, un po’ tutti i sistemi esistenti (tranne la pesca a mosca con la cosiddetta coda di topo, che è il nome dato al tipo di filo che si usa, peraltro una delle pesche più difficili al mondo), tanto che dei pesci d’acqua dolce presenti nel Lago di Como e negli specchi d’acqua limitrofi, praticamente sono solo due le specie che non ho mai catturato (persico trota e lucioperca), che poi da noi sono rarissime. Dopo alcuni anni di pesca in solitaria o quasi (parentado escluso, in compagnia ero uscito a pesca soltanto due o tre volte con l’Andrea, un mio vicino di casa più vecchio di me che una quindicina di anni dopo sarebbe diventato il bassista degli Mtv-rockers milanesi Karma!), strinsi il mio primo vero e proprio sodalizio pescatorio con Marco “il Genovese” (residente nella città della lanterna, ma originario di Colico, dove passava quasi tutte le vacanze possibili): di due anni più grande del sottoscritto, il mio socio era pure lui nipote di un nonno (già defunto all’epoca) famoso come grande pescatore dell’Alto Lario e che in passato era stato il compagno di pesca inseparabile di mio nonno Enrico per anni e anni. Cominciammo le “battute” in coppia nell’estate delle Olimpiadi di Los Angeles (delle quali entrambi, all’epoca in pieno trip-sport televisivo, perdemmo ben poche gare), quindi era l’84, con qualche uscita “al vivo” (cioè con piccoli pesci, tipo alborelle, innescati per la bocca su un amo come esca per pesci predatori) a persici e lucci nella zona del lungolago e dei pontili colichesi; non che prendessimo chissà cosa, ma la nostra costanza e affiatamento erano notevoli! Dopo questa “palestra” iniziammo ad uscire in barca a molagna, per almeno cinque o sei estati. Nella stagione 86/87 io facevo la prima superiore, ero un nerd-metallaro, andavo già in curva Nord a S.Siro e possedevo un motorino Peugeot 50 (ereditato dal nonno invalido): per tutto l’autunno e parte dell’inverno partivo alle otto della domenica mattina in direzione Colico Nord (mi allargo!), attraversavo i prati dei Bigiolli della Lariana Petroli, vicino alla ferrovia, e giungevo ad una piccola roggia: dieci minuti con canna fissa e verme e mettevo via dai venti ai venticinque vaironi (piccoli pesci sui 10/12 cm. massimo), prima che il branco si spaventasse e smettesse di mangiare, tornavo a casa per le 9 dopo una tappa in edicola dalla Nives a prendere la Gazzetta, mi cambiavo, facevo colazione con la rosea davanti e alle 10.34 prendevo il diretto per Milano (quando l’Inter giocava in casa, ovvio); alla sera, al ritorno, divoravo la frittura di vaironi davanti a Domenica Sprint: se l’Inter aveva vinto, una domenica così era il massimo della vita per il sottoscritto, a quattordici anni appena compiuti. D’inverno facevo questa pesca e intanto studiavo nuovi sistemi per la molagna in estate, quando il sodalizio col genovese si ricostituiva. La nostra estate fu quella dell’88 (altro che lo “spirit of ‘88” di marca Hc-straight edge! …tralascio l’altro significato di 88, quello nazista, ok?), quando nessuno prendeva niente (addirittura neppure il Maestro Titti, come lo chiamo io, il padre del bassista dei Karma): in tre o quattro uscite facemmo strage di lucci e grossi cavedani, tanto che il passaggio (obbligato) in piazza al ritorno in quei giorni di magra (per gli altri) equivaleva al giro del campo con la Coppa dei Campioni al cielo! Fu una settimana indimenticabile! I flashes di quei giorni sono parecchi: ricordo in particolare la barca ferma davanti alla foce dell’Adda, il sole che stava sorgendo, un grosso luccio sul fondo della barca, il mio socio seduto al motore con gli occhi che gli brillavano e io con un dito puntato al cielo in segno di enorme soddisfazione. Ricordo me ai remi con la maglietta di “Somewhere in time” degli Irons e gli occhi ancora rossastri dopo l’ennesima serata passata in giro tirando tardi col miraggio di qualche donna (mentre il genovese, all’epoca diciassettenne e più scrupoloso, la sera prima delle uscite pescatorie restava in casa e andava a letto alle dieci, per passare sotto casa mia fresco e riposato la mattina dopo alle cinque e mezza!). Ricordo la mia scena modello Schwartzeneggar in “Commando” la volta che avevo dimenticato a casa gli scalmi (i supporti per i remi) e, per non perdere troppo tempo, ero andato e tornato tagliando per un giardino, saltando cancelli e siepi, inseguito entrambe le volte da due cani lupo abbaianti e ringhianti! Ricordo un passaggio rasente la West Coast (eh bè!) una tranquilla mattina di luglio col lago piatto come un olio e le nostre convinte previsioni sull’Inter scudettata e il Genoa promosso in A la stagione calcistica entrante (e queste previsioni si avverarono!). Ricordo lunghe discussioni sull’allora recente inserimento delle tastiere nel sound degli Iron Maiden, complete di preoccupazioni per il futuro della band, anche se convenivamo entrambi sul fatto che “Seventh son of a seventh son” (uscito quella primavera) fosse un disco della madonna! Il sodalizio durò almeno fino al 91, per altre estati non certo avare di soddisfazioni pescatorie (anche se i “trionfi” dell’88 mai più vennero raggiunti!), poi, non saprei neanche dire di preciso perché, smettemmo entrambi, quasi in contemporanea, di andare a pescare (io da allora ho pescato solo saltuariamente, lui ha ripreso un po’, ma adesso se ci vediamo due volte all’anno è già tanto e non posso essere più preciso. E’ rimasta quell’amicizia, che però è più una sorta di cameratismo, che può nascere solo fra chi ha condiviso ore di lago, fra albe estive, brezza mattutina, piogge e sole a picco sull’acqua a cuocere la pelle). L’altro mio compagno di tante ore di pesca (fra l’88 e il 91/92 circa, periodo autunnale-invernale soprattutto) è stato il Taba, mio coetaneo compaesano (e adesso anche vicino di casa grazie al matrimonio con una polacca del quartiere Yiddish dell’East End di Colico…quartiere che ovviamente non esiste, ma mi piaceva dirlo!), dotato di collo taurino, braccia da pugile portoricano e, ahimè, vista da talpa cieca (a cui cercava, e cerca tuttora, di rimediare con degli occhiali spessi come fondi di bottiglia). Personaggio che ci vorrebbe un interno NS per rendere giustizia alle sue gesta (e di conseguenza farmi prendere a cartoni se mai avrò la malsana idea di vendergli la fanza!); basterà dire che era un motociclista (trialista, per la precisione) completamente fuori di testa (con comunque due o tre risultati di rilievo anche a livello nazionale, con tanto di trafiletti sulla Gazzetta), capace di farsi in impennata continuata tutta la via centrale colichese (un km. circa) nelle ore di punta, nonché di reclutarmi come passeggero (per aumentare le difficoltà) negli “allenamenti”, che consistevano in vagabondaggi motociclistici per i boschi delle colline o delle montagne dietro a Colico, abbandonando rigorosamente i già impervi sentieri per finire in pendii scoscesi in mezzo ad alberi di castagno, oppure nel letto obliquo di certi torrentacci sassosi. Superfluo dire che ci saremo ribaltati almeno un centinaio di volte, di cui una storica con me da una parte in un cespuglio di rovi e il Taba dall’altra in un nido di formiche rosse che in men che non si dica lo avevano reso simile a Hellraiser! Avevamo sedici anni, facevamo scuole diverse e i nostri interessi erano diversi (io col calcio e il metallo, più i primi approcci all’Hc, lui con le moto e il Reggae alla “Bob Mallo”), ma ci univano l’adorazione per i film comico-trash italiani e la passione fervente per la pesca. Con un cuore grande così, ma casinaro fino all’eccesso, il mio socio mi trascinava quasi ogni pomeriggio in improbabili battute pescatorie (a volte in barca, ma spesso, purtroppo, col temuto trial!), o nei dintorni o nella vicina Valchiavenna (e ricordo una tragica uscita nella discretamente lontana Valsassina, non appena lui aveva fatto la patente dell’auto), nelle quali raramente si faceva un bottino degno, ma che erano veramente delle esperienze (nel senso che quando uscivo di casa, sempre un po’ titubante, non sapevo proprio a cosa sarei andato incontro: avremmo litigato con qualche contadino che ci avrebbe sparato dietro? Ci saremmo ribaltati in moto una volta per tutte giù per qualche dirupo? Saremmo annegati grazie a qualche manovra maldestra del mio compare? Le abbiamo rischiate tutte più di una volta…). Oltre a tutto ciò, il Taba era (ed è) un grande bestemmiatore, uno dei migliori/peggiori (vedete un po’ voi) che abbia mai incontrato (e col lavoro che faccio state certi che ne incontro da stufarmene): una volta, era il ‘90, eravamo andati in “missione-gatoss” (i gatoss sono dei vermicelli da torrente, andavamo al pomeriggio a prenderne un po’ nella zona del torrente Inganna e li avremmo usati il giorno dopo) e io mi ero nascosto un mini-registratore nella tasca interna del bomber: venne fuori, alla totale insaputa del mio socio, “Taba live”, missaggio dei venti minuti salienti, a base di cristoni spettacolari, e vera e propria hit della primavera colichese (ma quando una mattina in stazione -dei treni- venni avvicinato da una tipa a me sconosciuta che mi disse entusiasta: “fantastica la cassetta di te e del Taba! Ne ho duplicate tre per le mie amiche e anche loro si sono gasate!”, temendo per la mia incolumità, decisi di non fare più circolare la k7, anche se la duplicazione “pirata” da parte di terzi andò avanti ancora fino all’estate), che ancor’oggi conservo come una reliquia! Lui a pescare ci va ancora, e pure tanto; se vado sul balcone rischio di vederlo anche in questo momento in piedi su uno dei pontili dell’aliscafo, canna a lancio in mano e cestino a tracolla. Spesso rimembriamo quegli anni e quei momenti tragicomici, sempre con quell’atmosfera di amicizia-cameratesca che citavo prima, ma ai ripetuti inviti di accompagnarlo almeno una volta a pesca (senza pescare, ovvio) dico sempre di no, neppure oggi so a cosa potremmo andare incontro fra le “opzioni” di cui sopra! Insomma, è difficile riportare su carta tutte le sensazioni provate in quegli anni; lo so che dette così sembrano solo delle cazzate, ma vi assicuro che il decennio, anzi il più di un decennio, 80-93, dal punto di vista pescatorio è stato molto importante per la mia crescita a livello personale e, dico la verità, la quantità di pesce catturata passa proprio in secondo, se non terzo, piano! Non posso neppure negare che le uscite “in famiglia” (quelle col mio vecchio) abbiano contribuito a sviluppare un certo tipo di legame fra padre e figlio, di cui ancora oggi si possono avvertire le conseguenze (conseguenze positive, s’intende!). Negli anni novanta, complici il lavoro e la “musica” da un punto di vista attivo (leggasi il suonare e le varie attività ad esso correlate), iniziai ad andare a pescare sempre di meno, riducendo il tutto a qualche lancio col rapala dai pontili dei battelli la sera di ritorno dal lavoro e a una manciata di uscite a fiocina col vecchio o l’immancabile Taba. La mia definitiva “crisi di coscienza” mi venne a metà del ‘98, quando comunque, per mancanza di tempo e voglia, avevo già smesso di pescare da almeno un paio d’annetti: stavo cominciando a valutare la possibilità di intraprendere la scelta vegetariana (e ci ho messo più di un anno poi per decidermi!) e il mio affetto per il mondo animale si stava facendo sempre più forte ed intenso (penso aiutato dal fatto di aver avuto in quegli anni una cucciolata di cani in casa, di cui ben tre sono poi rimasti alle nostre “dipendenze”), tanto che, riflettendo parecchio sul fine ultimo che in effetti è la pesca (cioè il catturare per poi uccidere dei pesci), decisi in maniera definitiva di chiudere con la disciplina lenzatoria. Da allora sono passati ormai tre anni e, sinceramente, il mondo della pesca non mi manca; mi mancano un po’ le succitate spedizioni col Genovese e col Taba, questo sì, ma so che sono momenti che non possono più ritornare…del resto Mattheus non giocherà più nell’Inter, gli Slayer non faranno più un altro “Reign in blood”, non ci saranno mai più i Wretched e il Virus, le ragazze che mi piacevano nell’87 non saranno mai più belle e giovani come allora, io non avrò più diciotto anni, non ci sono più le mezze stagioni, non ci sono più gli inverni di una volta…