Queste sono una serie di recensioni di vecchi dischi, molte delle quali datate pure loro: alcune (Panx Romana, Spermbirds/Walter Elf, Upright Citizens e Vomito) non apparvero nella stessa rubrica di ‘Nessuno Schema’ # 9 per meri motivi di spazio ed erano quindi state scritte fra 1999 e 2001 (naturalmente sono state aggiornate negli ultimi tempi), una (quella dei Bitch) fu la primissima cosa in assoluto che scrissi per questo # 10 e si parla della gloriosa estate 2002 (anche se presenta numerosi aggiornamenti scritti più di dieci anni dopo), quelle a nome dell’ospite bresciano [Pep “Guardiola” The Brescian, appunto] risalgono all’autunno 2003 e infine quelle dell’ospite tiranese [Ugo “Ex-Pentacolar” Scarsi] sono state scritte fra 2002 e 2008 circa. Le altre sono tutte (relativamente) recenti.
CLAUDIO
BILLY BOY E LA SUA BANDA “Biancosarti, trippa e sodomia” (Cd 00)
Magari mi sbaglio, però non mi sembra che la Oi! band di Piacenza sia ricordata come invece avrebbe meritato. Forse perché invece di darci dentro con slogans triti e ritriti, aveva sviluppato un approccio tutto suo alla materia Oi!: testi magari anche su argomenti classici del genere (birra, risse, anfibi, ecc.), ma trattati in maniera divertente/divertita (e non troppo ignorante!) che si affiancavano ad altre liriche, sempre col medesimo approccio, che mostravano un grande interesse verso il mondo ecclesiastico. Io non li ho mai conosciuti di persona, sono solo stato in contatto epistolare per anni col loro batterista, per una serie di incredibili coincidenze non li ho mai incrociati, ma me li sono sempre immaginati come un gruppo di ragazzi di una città di provincia (Piacenza appunto, il mio bisnonno materno veniva da lì) cresciuti prima fra strada e chiesa/oratorio (probabilmente imposti da genitori o nonni), e più tardi fra pubs e concerti, e che sapevano davvero farsi la classica risata tipica di una certa cultura Oi! al contrario di tanti/troppi altri. Con un nome preso direttamente da “Arancia meccanica” (Billy Boy e i suoi compari sono la banda che i Drughi di Alex affrontano e bastonano nella prima parte del film) i nostri esordiscono nel ’96 col demo “Piacenza fall out!” (versione emiliana del “Boston fall out!” di Choke degli Slapshot prima di saltar giù dal palco per una megarissa coi newyorkesi a inizio anni ottanta? Potrebbe essere!), a cui fa seguito il 7” “Preti e suore = t.n.t.” (’97, titolo-parodia della storica compilation “Skins e punks = t.n.t.”), prodotti decisamente grezzi ma contenenti già qualche pezzo-gemma. Le cose non fanno che migliorare col 7” “Morte e chupa-chupa” (’98), fino ad arrivare ad un ottimo dischetto con il terzo 7” “Bastardi dentro” (’99, per la Oi! Strike del Petralia, dopo che i primi due erano stati autoprodotti sulla loro etichetta Durango 95 Records), passando via via per qualche cambio di formazione (un esempio: fino al secondo sette il basso lo suonava una ragazza). Poi arriva questo cd, il cui titolo non so se sia una specie di versione piacentina di “Rum, sodomy & the lash” dei Pogues (titolo a sua volta tratto da una presunta citazione di Churchill a proposito della tradizione navale britannica: rum, sodomia e frustate, più o meno!), anche se a me piace pensare che lo sia. Il disco uscì per la Helen Of Oi!, storica etichetta Oi! inglese (anche se su questo cd viene riportato un indirizzo francese …ah bè, ovvia la parodia di Helen Of Troy, io ci avevo messo un po’ a capirlo!), con un ottimo booklet zeppo di foto (spettacolare quella con una marea di skinheads giapponesi, sì perché i Billy Boy avevano fatto un tour in Giappone!). A questo punto della loro esistenza i piacentini erano un quintetto, praticamente quattro skins e un chitarrista (entrato nel gruppo col 7” del ’99) dall’aspetto “ordinary” soprannominato Il Salesiano (per attività oratorial/ecclesiastiche passate o magari anche attuali dell’epoca? Potrebbe essere). Punto di forza dei Billy Boy come sempre le due voci, quella più roca e quella più urlata, dei due cantanti e la chitarra del suddetto salesiano che impreziosisce i pezzi con ottimi arrangiamenti ultra-rocknrolleggianti. Su questo cd la band aveva reinciso alcune delle sue “hits” passate, accanto a qualche pezzo più nuovo, per una carrellata di quattordici brani fra cui spiccano le nuove versioni di “Scarpe chiuse no remorse”, “Il Papa era un bootboy”, “Angeli con le chiappe sporche” e “Clockwork supermarket (bombette e coltelli alla cassa 2)”, e le più recenti “10, 100, 1000 tappi” e “Fottuto pub”. Presente anche la loro cover di “Mamma”, il classico della canzone italiana interpretato da Luciano Tajoli, e di contro il pezzo originale “Nonna” (già apparso sul demo), per finire con la delirante “Alleluja”, che cita il noto coro di chiesa! Gran disco, varie volte mi sono ritrovato in macchina con questo album sull’autoradio a singalongare come un cretino “scarpe chiuse no remorse, no future for sandali!” oppure “angeli con le chiappe sporche, noi sfidiam sempre la sorte…”. Gran disco eccome, peccato solo per la mancanza di “Il nano sodomita” (un altro loro classico) e “T.n.t. Biancosarti” (semi-cover degli Ac/Dc, musica di “T.n.t.” degli australiani e testo dei Billy Boy), che avrei voluto sentire con l’ottima produzione di questo cd. Dal vivo dovevano davvero essere divertentissimi e rimpiango di non averli mai visti, un po’ come rimpiango una notte in cui, contrariamente a quanto cantavano i vecchi Klasse Kriminale (restiamo in ambito Oi!), era la biondona ad essere troppo ubriaca ed io mi comportai da signore, per poi pentirmene dopo “ma del resto che ci vuoi fare, meglio dimenticare” mi consigliò il Balestrino dalla sua canzone ;-). Dopo questo cd (o forse appena prima, non ricordo) i Billy Boy fecero ancora un assurdo 7”-split coi Grabbies di Verona che parodiava lo storico split Indigesti/Wretched (infatti era accreditato a Billybesti e Grabbtched!) e uno split (su vinile 10” e su cd, per la Brutus Records, la nuova etichetta del batterista) coi giapponesi E.m.p.i. (i pezzi dei piacentini non sono spettacolari però, mentre meritano parecchio i jappi, specie per un brano che sembra una sigla di cartone animato giapponese virata Oi!) e poi si sciolsero. Non so che fine abbiano fatto i vari componenti, Carlo (il batterista) aveva formato i Bloodline (col cantato in inglese), buon gruppo, ma non al livello dei Billy Boy, che fecero un album e uno split-cd, prima di sciogliersi a loro volta.
BITCH “Be my slave” (Lp 83)
Questo fu un gruppo a suo modo originale nell’affollata scena Metal della California dei primissimi anni ottanta (nella folla c’erano anche degli imberbi Slayer, Motley Crue e Metallica, per intenderci!), quantomeno io, che li ho sentiti per la prima volta solo nella primavera del 2002 (!), me li ero sempre aspettati molto ma molto diversi: ma vediamo di andar con ordine, una volta tanto! I Bitch erano, per forza di cose, la band di Betsy Bitch (vero nome Betsy Weiss), la cantante le cui foto che apparivano sulla Bibbia del Metallo (il solito “HM!”) avevano il potere di suscitare in chi scrive all’epoca dei suoi 14/15 anni polluzioni notturne e diurne (serali, mattutine, e pure a mezzogiorno, citando Gastone Moschin in “Amici Miei atto terzo”)… ‘Sta Betsy non era poi una strafiga, a dire il vero, piccoletta di statura e dalle forme normali, ma aveva quel viso da zoccoletta di provincia che mi faceva impazzire, capelli castani con taglio da attricetta anni ’80 e una predilizione per un abbigliamento in cuoio decisamente sadomaso (e, per quanto personalmente detesti e non comprenda il S/M come pratica erotica, a livello estetico la presenza di latex et similia, in piccole dosi, non mi è mai dispiaciuta, anzi). In effetti l’immaginario lirico della band era decisamente orientato su tematiche sado-masochistiche, con titoli-culto come “Live for the whip”, “Be my slave” e “Leatherbound”. E comunque i nostri ci davano giù abbastanza pesante, basti solo pensare che la cantante di un gruppo chiamato Troia o Puttana (o fate voi a seconda del sinonimo che preferite o che meglio si adatta alla vostra provenienza geografica…che so, Bagascia, Mignotta, Battona, Pelanda, ecc. ….ok, sono il Re del Politically Correct!) si faceva chiamare Betsy (La) Troia (o La Puttana, o…fate voi – v.sopra), sfruttando il nome della band ed anticipando di qualche tempo la moda dei singers dei gruppi Hardcore straight edge con i vari Kevin Seconds (a dire il vero un suo contemporaneo), Ray Of Today, Kevin Insted, Mike Judge, ecc. ecc.! (e io anni fa ho pure suonato per qualche mese in un gruppo di Hardcore melodico chiamato Kurva -troia in polacco e in qualche altro idioma est-europeo-, con bassista e cantante donne, e pensavo di rinominare la bassista Sabry Kurva…Sabry se leggi, senza riferimenti effettivi o reali eh!). Ricordo che all’epoca fra noi imberbi fans del metallo era piuttosto popolare anche un’altra “Troiona da HM”, cioè l’inglese Lisa Dominique, famosa più per le foto “osè” che per i suoi insulsi pezzi di becero Metal-Rock…potete immaginare in questa diatriba simil Beatles vs. Rolling Stones (insomma…) su chi fosse la mejo fra le due, da che parte stesse il cuore (e non solo quello!) del sottoscritto! Vi dicevo che musicalmente i Bitch me li ero sempre aspettati diversi e infatti pensavo a loro come al classico gruppo fra Metal Classico e Glam con voce femminile o da micetta in calore o al limite simil-uomo (tipo Sentinel Beast, power-thrash band anni 85/86 che si capiva avessero la cantante donna solo dopo aver visto le foto di copertina del loro unico Lp! Peraltro un donnone di quelle che con uno schiaffo ti girano di 360°!)…tutt’altro, gente! La Betsy in questione ci dava dentro con urla su urla, in stile più Exploited che Bon Jovi per intenderci, e anche i cori della parte maschile della band (il cui chitarrista David Carruth era il marito di Betsy…è stato un duro colpo per me scoprirlo, e parlo di qualche mese fa soltanto, estate 2002…) erano più adatti ad un gruppo Hardcore che non ad uno tipicamente Metal. Tecnicamente non erano niente di che: chitarra a pioggia elettrica continua senza armonici o simili, base ritimica decisamente essenziale…musicalità del tutto (voce inclusa): poca! Eppure originali ed affascinanti, considerando tutto l’insieme. E che donna la Betsy, altro che quelle patetiche riot-grrrls… Dopo il mini-lp d’esordio “Damnation alley” dell’82 (con in copertina un primo piano della scollatura di Betsy), questo “Be my slave” fu il primo album dei Bitch, la cui front-cover è una foto di Betsy in tenuta total-sadomaso, frusta in una mano e catena nell’altra, con sul pavimento ai suoi piedi una serie di ammennicoli in tema! Sempre nell’83 uscì anche un 7”-split su Mystic Records, etichetta soprattutto Hardcore (NoFx, Dr.Know, Ill Repute, R.K.L., Battalion Of Saints, ecc.ecc., ma anche quei pazzi metal-punk dei Mentors), la cui altra band era quella degli Hellion (gruppo heavy metal capitanato dall’affascinante Anne Hull che si faceva chiamare Ann Boleyn e che era pure la proprietaria dell’etichetta metal New Renaissance Records, la quale fece uscire dischi di Necrophagia, At War, Dream Death, Blood Feast, Wehrmacht, Post Mortem, ecc.ecc.). L’ultimo disco a nome Bitch uscì nell’87 e la copertina mostrava Betsy nuda dalla vita in su (le parti basse erano sapientemente avvolte da del fumo) che si copriva il seno con le braccia e che fissava maliziosamente l’obiettivo come a simboleggiare il titolo dell’album, “The bitch is back” (la zoccola è tornata): grandiosa! La title-track in questione è comunque una cover di Elton John e nel disco c’era pure ospite il padre di Betsy al sax! Lo stile si stava ammorbidendo e Betsy dimostrava di saper cantare sul serio (e bene), oltre ad urlare. Poi la band cambiò il nome in un più accessibile Betsy e nell’88 uscì un album omonimo sulla cui copertina campeggiava la solita Betsy con un abbigliamento sempre zoccolesco, ma più da squillo di alto bordo che da club S/M. Anche la musica si era spostata su di un Hard Rock commercialotto e tipicamente americano, e pure i testi erano più “normali” rispetto al passato. Un mini-lp dell’89 nuovamente a nome Bitch pose fine all’avventura. Pur non sciogliendo mai ufficialmente la band, per molti anni Betsy e i suoi compari sparirono dalle scene, ma proprio nel 2002 (anno in cui li conobbi anche musicalmente) ci fu un ritorno dei Bitch che dura tuttora, anche se negli anni non hanno più fatto uscire nulla di nuovo (a parte un pezzo per la compilation celebrativa della Metal Blade), ma hanno partecipato a svariati festivals in giro per il mondo. Nel 2010 il batterista Robby Settles è purtroppo deceduto per un cancro. Al momento la band include in line up alcuni nomi abbastanza conosciuti del metallo californiano quali i chitarristi Steve Gaines (ex Abattoir e Bloodlust) e Danny Oliverio (ex Abattoir pure lui) e il batterista Rob Alaniz (ex Evildead e, again, Abattoir, cimentatosi pure nel black metal con Krieg e Noctuary); il bassista è tale Angelo Valdespino (negli anni ottanta con gli Uncle Slam, nei novanta coi Reverend e in tempi più recenti con gli Hirax). Contemporaneamente ai Bitch, Betsy canta anche per i quasi omonimi Witch, la Glam-Metal band losangelina (quella del mini-lp “The hex is on” nell’84 e del 7” “Nobody sleeps” nell’88, all’epoca avevano un cantante uomo) riformatasi qualche anno fa, il cui batterista era il marito della sorella di Tommy Lee dei Motley Crue. Cercando qualche notizia per questa recensione ho trovato il Myspace di Betsy e vedo che, nonostante abbia già 55 anni (in effetti i Bitch non furono la sua prima band, a fine 70’s cantava con una Ska band californiana), è ancora una bella donna, anzi, per certi versi e considerando l’età, anche meglio dei tempi di “Be my slave”. Adesso si è fatta bionda, ha dato un’evidente pompatina di silicone al seno ed è in ottima forma. Ma cosa leggo? Che è divorziata, single e si prende in giro dicendo di essere patetica perchè vivendo da sola tiene sempre la tv accesa perché le fa compagnia (in effetti anche dalle vecchie interviste ne usciva come una donna simpatica ed autoironica). E leggo pure che le piacciono i documentari e leggere di tutto, soprattutto il “L.A. Times” religiosamente tutti i giorni. Beh, ma Betsy mia, siamo fatti l’uno per l’altra: io leggo “La Provincia di Lecco” quotidianamente allo stesso modo, divoro carta stampata di ogni genere, adoro i documentari televisivi, come musica ci dovremmo trovare…sapete che faccio? Adesso come scusa per rompere il ghiaccio le mando un mp3 dei Gradinata Nord, per la precisione quello di “Una birra al naìt (in the naìt)”, e mi presento, poi domani vado in agenzia a fare un biglietto di sola andata per Los Angeles e ce provo, che ne dite? ;-)
DIOXINA “Nessuna pietà” (Ep 85)
Sì, sono quei Dioxina, il gruppo Oi! riminese conosciuto per i due pezzi sul 7”-compilation “Skins e Punks = T.n.t.”, per quello sull’Lp-compilation “Quelli che urlano ancora”, per il brano “Rimini brucia” poi ripreso dai compaesani Reazione e in genere per essere stata una delle bands storiche del primo Oi! italiano. Eppure qui, in questo disco dal titolo identico a quello di un pezzo al tempo ancora da scrivere e che diventerà un classico a fine anni novanta per un gruppo romano chiamato Colonna Infame Skinhead, c’è qualcosa che non torna… questi erano un gruppo Oi!, no? Ma allora come mai la copertina (in bianco e nero) mostra un lugubre albero contorto, la luna piena sullo sfondo e uno scheletro trafitto da un palo acuminato per terra?? E come mai sul retro campeggia un’enorme croce rovesciata?? E come mai nella foto dei quattro Dioxina c’è solo uno skinhead, mentre un altro componente sfoggia il devilock alla Misfits (quel ciuffo di capelli davanti al volto che arriva ben sotto il naso) e un terzo ha in mano una chitarra a forma di croce rovesciata?? E come mai l’etichetta su cui i nostri si sono autoprodotti il disco non si chiama, che so United Beer & Football Rebels Oi! Records, ma R.i.p. Records?? E come mai nei ringraziamenti non troviamo i Nabat e i Rough, ma gli Stormriders (una band heavy metal di Rimini dell’epoca) e soprattutto Paul Chain (oltre a “Satana e alla notte per l’ispirazione”, cito testualmente)?? Estraggo il disco e sui centrini non c’è uno skinhead con una birra in mano, ma c’è proprio Satana in persona, unghiuto ed ovviamente cornuto (nel senso fisico del termine, chiaro!) e il primo pezzo si intitola “Armageddon”…ma questo a me sembra un disco Metal! Ecco, tutto quello che ho appena scritto è ciò che pensai quel lontano giorno del 1991 quando mi arrivò per posta questo mini-lp che avevo ordinato (non ricordo più da chi) alla fine di un’estate in cui per il 90% avevo ascoltato solo Oi! (di varia estrazione politica peraltro!) e quindi anche le due compilations succitate più e più volte. Ricordo che lo misi sul piatto e non mi dispiacque affatto, anche se c’entrava coi Dioxina che conoscevo tanto quanto uno strato di maionese su una fetta di torta al cioccolato. E stasera, quasi ventidue anni dopo, lo rimetto sul piatto (non per la prima volta da allora, ma sono passati comunque un bel po’ di anni dall’ultima), per voi fedeli lettori e lettrici! ;-) I sei pezzi del mini-lp sono tutti cantati in italiano. I testi non sono inclusi nel disco, almeno nella mia copia, però si sa che cantare in italiano è sempre un’arma a doppio taglio, nel senso che se da un lato ci si fa capire dai connazionali, dall’altro spesso è proprio quel farsi capire che rappresenta un motivo di sconcerto e/o derisione da parte di chi ascolta, specie in caso di testi tipicamente metallari, come quelli di questo “Nessuna pietà”. Per intenderci, parecchi gruppi non anglofoni, cantando in inglese hanno scritto delle boiate terrificanti che tradotte in italiano lasciano senza parole. Faccio tre esempi a caso: “la mia vita inizia a mezzanotte, mi masturbo per uccidermi / stanotte parlo coi demoni della notte, faccio sesso e messe nere / sono il bambino di Satana, vi attacco col mio incantesimo” (Sodom, 1984), “lei ha il mio joystick (non traduco, suona meglio così!) dritto in bocca, dà il meglio di sé ma io rido, non è abbastanza, voglio di più, ti ha mandato Satana, sporca zoccola” (Hellhammer, 1983), “la vergine morta ora è stata scopata, sodomia questa notte, la negromanzia è completa / piacere e delizia, lussuria satanica” (Sarcofago, 1987)…e sono testi di tre gruppi che adoro, tratti da due dischi che amo alla follia e da un demo seminale per tutto il black metal che verrà. Ecco, spesso è meglio non capire i testi, oppure leggerli in un altro idioma, che suonano diversi da come invece suonano nel proprio. I Dioxina comunque non cadevano in questi abissi di demenza, i loro erano dei tipici testi metal-horror da storie del terrore. Dopo un intro orrorifico si parte con “Armageddon”, puro up-tempo metal/punk fra i Motorhead e gli al di là da venire DarkThrone degli ultimi dischi, con una chitarra molto Bloody Riot anni ottanta e qualcosina che rimanda anche ai miei Skunk (la band in cui suonavo fra ’92 e ’93)! La voce è tipicamente Oi! e, per restare in tema, il pezzo ha anche un ritornello coi cori. Giri semplici, ma il piede batte senza che te ne accorgi! C’è pure un solo di chitarra piuttosto melodico. “Una voce chiama” è uno speed-metal-punk dannatamente 80’s, elettrico ed elettrizzante, e che sa di vero e sentito. Doppia cassa a iosa, assolo stavolta impazzito, coro orecchiabilissimo. “Notte di peccato” è ancora speed-metal-punk, solo stavolta un po’ più virato sull’hardcore italiano dell’epoca. “Noi siamo il male” si apre con un breve intro che ricorda quelli medieval di un’altra band che ancora non esisteva, quella dei tedeschi Desaster, poi è italian hardcore vero e proprio con tanto di voce incazzata. “Città maledetta” (solo omonima del brano degli Atrox) è il pezzo più Oi! del lotto, quello dove il passato dei Dioxina torna per un momento a farsi sentire, solo appena appena sfiorato da tocchi di metallo anni ottanta (vedasi l’assolo molto metal). “Nessuna pietà” infine, dopo un inizio con cavalcata iper-metal ed ottima armonizzazione quasi black metal del futuro, ricorda qualcosa dell’ennesimo gruppo che verrà, quello degli A.D.L. 122 (la fascio-band milanese di estrazione Oi!, ma con parecchie soluzioni metalliche); qui il testo pare (non capisco bene tutte le parole) si stacchi da tematiche metal e ne tocchi di più tipicamente oi!/hardcore. Chiude l’outro, orrorifico come l’intro. Alla fine è un disco abbastanza vario, a suo modo fascinoso: quel fascino metal-occult-horror-religious della costa adriatica, quello dei vecchi DeathSS, del succitato Paul Chain, dei Requiem e di The Black, filtrato in un’ottica Oi!/Hardcore. Disco unico, non eccelso, ma unico! Qualcuno lo spedisca a Fenriz, secondo me ne andrebbe matto! ;-) E intanto ho avuto il flash di un tremendo esperimento Metal-Oi! che facemmo coi Gradinata nel 2001, quando componemmo un pezzo di cui non ricordo il titolo che era un assurdo mix di parti appunto Oi! e di riffs alla Slayer a tempo medio. Prima di abbandonarlo del tutto, lo suonammo una volta sola dal vivo, a Cesena, non troppo lontano da Rimini, probabilmente la vicinanza con gli autori di questo ep ci aveva inconsciamente ispirato! ;-) Tornando ai Dioxina per qualche nota biografica, va detto che la line-up che incise questo mini-lp presentava i soli bassista e batterista dei Dioxina periodo Oi!, a cui si erano aggiunti un nuovo cantante e un nuovo chitarrista, quest’ultimo dopo che il predecessore (Red) era andato a suonare coi Nabat con cui incise lo storico lp “Un altro giorno di gloria” (1985 pure lui). A proposito di chitarristi, quello dei Reazione (Ricky) cantò per un breve periodo coi Dioxina attorno all’84. La band riminese si sciolse poco dopo l’uscita di questo Ep e il batterista, assieme ad altri due elementi (non so se ex Dioxina pure loro, uno forse sì), formò i Deadyn, descritti dalle cronache dell’epoca come una clonazione totale dei Motorhead (fatta benone, s’intende)! Ai posteri, che io sappia, è rimasto solo il demo “Back street heroes” che però non ho mai avuto occasione di ascoltare.
ENZO JANNACCI “Enzo Jannacci in teatro” (Lp live 64)
Correva la primavera del 1988, sul treno che mi riportava a casa da scuola io e un pugno di miei coetanei ascoltavamo musica da un grosso radiolone portatile a cassette. Solitamente detto stereo era occupato (rigorosamente durante il tragitto di ritorno verso casa, quando tutti sentivamo di averla sfangata almeno per quel giorno) da Iron Maiden, Dio, Metallica, Helloween, Anthrax, a volte Scorpions e Bon Jovi (se c’era qualche tipetta seduta assieme a noi). Quel primo pomeriggio di ormai venticinque anni fa però un ragazzino mette una cassetta diversa da quelle solite. Questo giovane lacustre, attuale noto geologo forzista (che a breve mi avrebbe passato qualche cassetta tipo Dead Kennedys ‘Fresh fruit for rotting vegetables’ + ‘In God we trust, inc.’, G.B.H. “City baby attacked by rats”, Minor Threat “tutto” e anche D.B.C., il disco che un mio collaboratore recensisce più sotto, tutte a loro volta recuperate da un suo compagno di squadra di basket, quel Beppe batterista dei Vergogna di Erba e più avanti di Sacrarium Execratus e Profanatum, nomi storici del death/black lecchese), ha registrato su cassetta un album di Enzo Jannacci trovato fra i dischi del padre e si è esaltato al punto di portarsi il nastro a scuola e di sottoporlo all’ “airplay” ferroviario. Il disco era una raccolta intitolata “I successi di Enzo Jannacci” e per parecchi giorni avrebbe occupato lo stereo alternandosi con “Master of puppets” o “Dream evil”. A noi divertiva molto il pezzo “Aveva un taxi nero”, tragica storia di un Abele tassista e di un Caino ‘biondo e senza scrupoli’ che gli rubava le gomme, dato che fra di noi c’era un ragazzino chiamato proprio Abele che aveva clamorosamente un fratello, non so se senza scrupoli, ma biondo quello sì! In generale comunque io rimasi parecchio colpito dalle canzoni di questo Jannacci che conoscevo già di nome e di vista (da tv o giornali), ma che non pensavo potesse far musica in grado di esaltarmi. Poi però ricordai che parecchi pezzi di Cochi & Renato, che io adoravo e conoscevo a memoria, erano stati scritti assieme a Jannacci e quindi lo stesso non poteva essere troppo lontano da loro con la sua musica e le sue liriche. Mi feci immediatamente registrare il disco dal mio socio e mi godei anche privatamente dei gran bei pezzi come “La Balilla”, “Andava a Rogoredo”, il mega-classico “El portava i scarp del tennis”, “Faceva il palo” e “Ma mi” (col testo scritto da Giorgio Strehler per ricordare in modo realistico e senza retorica, oltre che pregno di milanesità, la guerra partigiana conclusasi pochi anni prima). E poi ricordai che anche mia mamma aveva un disco di Jannacci da qualche parte a casa, andai a cercarlo e lo trovai, questo “Enzo Jannacci in teatro”, disco dal vivo (il primo live-album in assoluto nella storia della musica italiana!) registrato a Milano e secondo album della poi lunghissima carriera del cantautore milanese. Il concerto da cui è stato tratto il 33 giri in questione faceva parte di uno spettacolo itinerante chiamato 22 Canzoni e portato in giro assieme a Dario Fo, cosa che spiega il fatto che gran parte dei testi di questo lp fossero stati scritti da Fo stesso. Le musiche non di Jannacci vennero composte dal pianista Fiorenzo Carpi (fra cui proprio “Aveva un taxi nero” che fra l’altro inizialmente era un pezzo proposto live proprio da Dario Fo addirittura dieci anni prima!!). Paradossalmente i due pezzi scritti interamente da Enzo, testo e musica, sono fra quelli dell’album che mi piacciono di meno. Accompagnato da una band i cui componenti sono ignoti, Jannacci è autore di una gran prestazione, con la sua voce sguaiata e a volte stonata (in certi casi probabilmente di proposito, in altri no!), che sa però essere molto interpretativa e comunicativa. Da menzionare anche le introduzioni ai pezzi, spesso assolutamente deliranti, giusto preambolo a quei testi perlopiù surreali/divertenti-divertiti, che vanno ad affiancare quelli più seri. Dodici brani, partenza con la trascinante “Ohè sunt chi” in dialetto milanese, poi pezzoni da novanta come la pluricitata ed incalzante “Aveva un taxi nero” con tanto di cori sgraziati, “La forza dell’amore” (rock’n’roll indiavolato, un po’ stile ‘Twist & shout’/’La Bamba’, con testo-delirio metà in italiano e metà in dialetto), “Veronica” (scritta da Fo assieme a Sandro Ciotti, sì proprio quel Sandro Ciotti, e che parla di una Veronica che la dà via come il pane, per una cifra modica e rigorosamente in piedi dentro un cinema dell’epoca, l’attuale Teatro Carcano. Ricordo di averla simpaticamente -? spero!- registrata come pezzo di chiusura di un cd-compilation regalo per la mia carissima amica Veronica, appunto, qualche anno fa!), la spettacolare “Prete Liprando e il giudizio di Dio” (dedicata ad un prete ribelle del millecento milanese e dal feeling tremendamente medievale, coi cori epici e simil-gregoriani e con delle suggestioni che anticipano di decenni certo ambient-black e neofolk…ok questa l’ho un po’ tirata per i capelli, ma neanche tanto, và!), “Il primo furto non si scorda mai” (dal sostenuto andamento folk in tre quarti, stile liscio per intenderci, e con uno Jannacci decisamente punk ante-litteram che prende a manate il pavimento del palco!), per finire con la classica “L’Armando” col suo ritornello-tormentone che tutti/e avrete sentito almeno una volta. Fra i brani anche la struggente “Qualcosa da aspettare” che è una cover del cantautore torinese Fausto Amodei. Superfluo dire che questo disco è finito in casa mia da lustri ormai, assieme ad altri vinili/cassette/cd dell’occhialuto cantautore milanese che ho recuperato nel corso degli anni. Gran personaggio Jannacci, medico cardiologo (e di un certo spessore, fu addirittura nell’equipe di Christiaan Barnard, il compianto chirurgo autore del primissimo trapianto cardiaco della storia) ma col cuore (appunto) per musica, cabaret, teatro, cinema e calcio (acceso tifoso milanista, scrisse pure l’inno della squadra pre-Berlusca). Riconosciuto pioniere del rock’n’roll tricolore e, aggiungerei, con un enorme spirito punk con almeno dieci anni di anticipo. Chiudo con un luogo comune che, come spesso accade ai luoghi comuni, è banalmente vero: di gente così non ne nasce più! Nota 2013: Jannacci purtroppo è defunto il 29 marzo di quest’anno a causa di un maledetto cancro. Che la terra ti sia lieve, grande Enzo!
MASTER’S HAMMER “The Filenmice occultist” (Lp 92)
Lo so, insisto regolarmente ogni tot anni su questa band e in particolare su questo disco… E’ che non mi capacito come mai un gruppo talmente talentuoso e avanti per il suo tempo, con un album strepitoso come questo nella propria discografia, non abbia mai goduto di quella considerazione che in ambiti Black e Death Metal è invece andata a gruppi molto meno meritevoli. “The Filenmice occultist” è un vero capolavoro passato virtualmente inosservato. Come spesso accade in questi casi, osannato da pochi e ignorato da tutti gli altri: il triste destino di molti gruppi e albums di valore (negli ultimi anni, con internet, c’è stata una leggera riscoperta di questo discone, ma è ancora troppo poco…). I Master’s Hammer (il cui nome non significa Martello Del Mastro, in un’accezione edile, come purtroppo potrebbe anche venir naturale tradurre, ah ah) erano il nome di punta della fiorente scena Black Metal cecoslovacca fra la fine degli 80’s e l’inizio dei 90’s, scena che contava fra le sue fila i vari Root, Törr e Amon (poi Amon Goeth), tanto per citare qualche nome di quelli più noti, almeno ai fruitori del metallo più esotico/sconosciuto/underground. Fra l’87 e il ‘90 il gruppo di Praga aveva fatto uscire ben quattro demotapes (più una cassetta live) nei quali man mano, partendo da esordi decisamente Venomiani/Bathoryiani e passando attraverso vari cambi di formazione, si iniziava a delineare il suo originalissimo stile, cioè un Black Metal particolarissimo in cui si fondevano sulfurei riffs alla Mercyful Fate, tempi veloci tipicamente Black e progressioni classico-barocche! Senza dimenticare che la particolarità del gruppo era la presenza di un elemento dedito unicamente a suonare i timpani! I testi erano nella loro incomprensibile lingua madre. Dopo aver piazzato due pezzi sull’Lp-compilation della Monitor “Ultra Metal” del 1990 (dedicato alla scena Death/Thrash/Black cecoslovacca dell’epoca e contenente altre cinque bands oltre ai nostri), i Master’s Hammer esordiscono alla fine dello stesso anno col primo album, “Ritual”, seguito nel 1991 dal 7” “Klavierstück”, nel quale fa il suo esordio un tastierista (un figuro baffuto e con riga da parte somigliante incredibilmente al Fuhrer!), che già aveva collaborato sull’lp, trasformando così la band in un sestetto. Il primo album (nel quale in alcuni pezzi il basso era stato suonato da Milan Fibiger, vecchio bassista della band col soprannome di Bathory, ora pittore ed illustratore di fama mondiale) era uscito per la succitata Monitor Records, in pratica un’etichetta di stato che consentì ai Master’s Hammer (e ad altre metal-bands sotto contratto, come Krabathor, Debustrol, Root e Törr) di vendere parecchie migliaia di copie (si dice centinaia di migliaia, addirittura) in madrepatria, mentre il 7” era stato griffato (immagino in mille copie al massimo!) dall’etichetta tedesca Poserslaughter Records, label decisamente underground ed ora defunta da tempo (che fece uscire, fra gli altri, dischi di Nasum, Gorement, Dead, Agathocles, Regurgitate e Necrony, visto l’orientamento decisamente death e grind nel quale il sette dei cecoslovacchi fu un po’ una mosca bianca). Nel febbraio del 1992 la band fa uscire una professionalissima cassetta dal titolo “Jilemnický okultista”, che anticipa l’album dal medesimo titolo che i Master’s Hammer registrano e si autoproducono alla fine dello stesso anno. Il disco viene stampato anche dalla grossa etichetta francese Osmose Productions (che da lì a poco ristamperà anche “Ritual”) per il mercato mondiale, col titolo di “The Filenmice occultist” (l’ovvia traduzione in inglese). In questo album la band si spinge in territori sino ad allora inesplorati, arricchendo il suo già originalissimo Black Metal con arrangiamenti orchestrali, sonorità alla Celtic Frost del capolavoro dell’87 “Into the pandemonium” (disco che tutti/e dovreste possedere!), cantati simil-operistici maschili (non le voci femminili che iniziavano ad andare di moda allora) e sottolineando il tutto con un uso incessante dei timpani e delle tastiere (che non sono le tipiche tastiere black metal che vi potete aspettare, anzi!). Il disco è un’operetta in tre atti narrante le peripezie di un giovane occultista e venne scritta interamente dal leader del gruppo, František “Franta” Štorm, cantante e chitarrista oltre che professore di tipografia antica all’università praghese, artista tipografo e autore di alcuni libri sulla materia accolti positivamente anche a livello internazionale. E io che ho un video dove Franta Štorm (fra l’altro considerato completamente pazzo da parte di esimi esponenti della scena Black/Death ceca) è sul palco vestito con jeans e maglietta e un mantello da vampiro (abbinamento assurdo, un po’ come una donna in lingerie di gran classe e stivali verdi da orto…). Come look, dopo un periodo di face-painting (fra 1988 e 1990!), i nostri adottarono un look fra il metal-biker classico, la normalità di tutti i giorni e quello stile barocco fatto di camicie svolazzanti… I testi di questo lp pare siano tutti in ceco antico, anche se con la voce blackmetal (che comunque non è quella consueta e stra-abusata del genere) di Franta non ve ne accorgete neanche, sebbene la copertina della versione Osmose riporti i titoli tradotti in un inglese decisamente traballante! “The Filenmice occultist” anticipava un po’ certe tendenze classico/orchestrali delle scene Black e Death, ma la proposta dei Master’s Hammer risultava molto meno “patinata” di quelle che sono venute dopo, unendo il gusto per la sperimentazione e la grande tecnica in possesso dei sei membri del gruppo allo spirito cosiddetto “true” del vecchio Black Metal (non a caso Euronymous, che probabilmente era un personaggio discutibile, ma che di musica ne capiva eccome, li adorava ed avrebbe voluto farli uscire sulla sua Deathlike Silence) che fuoriesce da ogni singolo solco del disco. Se volete provare qualcosa di nuovo (anche se vecchio di più di vent’anni ormai!), recuperate questo album, scaricatelo o cercatelo originale (dura!) o ristampato (sia la Osmose una decina di anni fa, sia l’etichetta californiana Nuclear War Now! nel 2009 l’hanno riproposto in vinile e cd, sempre accoppiato al primo album “Ritual”), che non escludo ve lo offrano pure scontato! E lo stesso “Ritual” non è al livello di questo album, ma resta sempre un gran bel disco, già molto avanguardistico in ambito black. Infatti Fenriz dei norvegesi DarkThrone, molto onestamente dichiara che “è a tutti gli effetti il primo album di black metal norvegese, anche se la band è cecoslovacca!”. Dopo “The Filenmice…” i Master’s Hammer si fermarono, vennero dati per sciolti e in effetti così fu, anche se nel ’95, a sorpresa, uscì il Cd “Šlágry” (su Kron-H Records, una sottoetichetta della Osmose), in cui la formazione era ridotta ai soli Franta Štorm e Vlasta Voral (il tastierista “hitleriano”); il disco è un pastone di marcette, musiche da camera, pezzi folkeggianti, classici del Rock’n’Roll riarrangiati, ecc. e solo l’ultimo pezzo è tipicamente Black Metal (con la batteria elettronica però)…un album a metà fra la cagata solenne e la genialità malatissima (il disco è stato ristampato per la prima volta su vinile nel 2009 dalla Cell Rec., sottoetichetta della sopra citata NWN! Prod.). Dopo lo scioglimento Franta Štorm lascia la scena musicale, al pari del timpanista (si dice così?) Honza Přibyl detto Silenthell. Il chitarrista Tomáš Kohout detto Necrocock (‘sti cazzi! Commento appropriato, direi) forma la one-man band omonima, Dark Metal dalle liriche perverse (fa subito un demo datato 1992 e poi, dopo un lungo silenzio, un paio di albums fra 2004 e 2010), e un paio di anni dopo i Kaviar Kavalier, un duo fautore di un mix fra atmospheric-metal, industrial ed elettronica, con testi a base di perversioni sessuali varie (‘kaviar’ indica quel genere cinematografico tedesco in cui la coprofilia la fa da padrona…il nome della band comunque spacca, ’sto Necrocock dev’essere un bell’elemento!), con all’attivo tre albums e un 7” fra il 1996 e i giorni nostri. Del tastierista Vlasta Voral e del bassista Tomáš Vendl detto Monster (un tipo dal look inusuale rispetto agli altri, capello corto e stazza imponente) si perdono le tracce, anche se pare che i due avessero fondato una band chiamata Septagon Chimera di cui però non si saprà più nulla. Il batterista Mirek Valenta, infine, prima di sparire dalle scene, forma una one-man band di Industrial/Black Metal chiamata proprio Valenta, ma non farà mai uscire nulla di ufficiale. Alcuni anni fa la band si è rimessa in pista con la formazione proprio di “The Filenmice occultist”, meno Mirek (la batteria la suona Franta Štorm, ma è quella elettronica) e verso fine 2009 è uscito l’album “Mantras”, disco decisamente bizzarro, con poco a che vedere coi Master’s Hammer dei primi 90’s, ma come sempre nel caso di questi cechi, geniale, originale e personale. La band rimane attiva e recluta un batterista, il multi-strumentista Jan Kapák, già leader dei black/death metallers Avenger (nati nel ’92 e attivi ancora oggidì, sempre con lui a voce, chitarra e batteria), oltre che guest/session (quasi sempre dietro le pelli) per i connazionali Dark Storm, Maniac Butcher e In Articulo Mortis, i tedeschi Nargaroth, i serbi The Stone e gli americani Judas Iscariot e Krieg. Per un elemento che arriva, però, eccone tre che se ne vanno (mollano infatti Vlasta, Monster e Silenthell), col risultato che l’album successivo, “Vracejte konve na mìsto” (uscito nel febbraio 2012), viene inciso dal terzetto Štorm, Necrocock, Kapák (coadiuvato da un certo Joseph Harper che si occupa di alcune parti vocali). La traduzione del titolo è “Rimettete a posto gli innaffiatoi”, cioè quella frase che si legge nei cimiteri (e poi non sarebbero dei geni questi?), secondo quel matto di Franta l’idea che ci sta dietro è quella di un paio di idioti completamente fumati che, sotto la luna piena, innaffiano i fiori in un cimitero extraterrestre; un angelo alieno arriva e ricorda loro di rimettere gli innaffiatoi a posto quando hanno finito! Inizio a concordare con quelle opinioni citate prima sul leader dei Master’s Hammer ;-), il quale oltretutto dichiara seriamente che due fra le sue voci preferite sono quelle di Amanda Lear e di Boy George e di aver scoperto solo nel 2012 che grande band sia quella degli Iron Maiden. Il nostro è anche una persona modesta, specie quando dopo aver ascoltato un cd-tributo ai Master’s Hammer uscito qualche anno fa, dice che loro non sarebbero mai riusciti a suonare i propri pezzi in maniera così accurata e precisa come invece hanno fatto le bands coverizzatrici. Poi ride ricordando che le rullate della batteria di Valenta assomigliavano più a delle patate buttate giù dalle scale che a dei suoni sensati e a tempo! E afferma che i Master’s Hammer dal vivo suonavano (ora hanno abbandonato l’attività live) regolarmente scordati e fuori tempo, anche perché erano tutti decisamente ubriachi! Qualche mese fa è uscito un 7” in cui è ritornato il timpanista Silenthell ed è ospite alle voci Petr “Blackie” Hošek, il chitarrista storico dei Root. Comunque, se già avevo ascoltato “Mantras” di sola sfuggita, questi ultimi due dischi ancora non li ho sentiti. Sia i due albums che il sette pollici sono autoprodotti dalla band…vergogna, etichette di Metal estremo mondiale, vergogna! Franta dice che è una sua scelta, però rimane sempre una vergogna che una band come questa non sia minimo su Nuclear Blast, minimo! Ma per chiudere dobbiamo ritornare a quel fantastico disco del 1992, concepito in una Praga non ancora così globalizzata come oggi. E in effetti tutto il disco ha il sapore della letteraria “Praga magica”, mi sovvengono i quartieri Malá Strana e Nové Město, il quartiere ebraico, il Golem, la città vecchia, il Ponte Carlo, la cattedrale di San Vito, il castello, la stradina d’oro e gli alchimisti, i palazzi liberty, Keplero, Franz Kafka, e perché no? Jan Palach, Milan Kundera e dico pure Zdeněk Zeman…ci trovate tutto questo nelle suggestioni musicali di questa band unica al mondo. Sì sì, fai l’intellettualoide di ‘stocazzo e non citi Silvia Saint, penserà qualcuno! No, è solo che la Sylvie Tomčalová in arte Silvia Saint, è di vicino a Brno, non di Praga, non avrei certo perso l’occasione di citare una delle mie attrici preferite! ;-)
PANX ROMANA intrascrivibile titolo in greco! (Lp 87)
Su cassetta l’avevo già da almeno sette/otto anni, ma poi l’avevo trovato in vinile alla ex Contempo di Firenze nell’ottobre ’99 e non ho potuto fare a meno di acquistarlo (costava anche 3.000 lire soltanto!). E’ il primo dei quattro albums prodotti da questa band di Atene, attiva ancora adesso nel 2013. Che dire? Registrazione e suoni perfetti, gran tiro e canzoni che sembrano un incrocio fra Business e Klasse Kriminale col cantato nella lingua di Georgatos e Karagounis (grandi i coroni!). Amanti di Punk 77, Streetpunk e Oi! fatelo vostro e non ve ne pentirete di certo!
SPERMBIRDS / DIE WALTER ELF “Don’t forget the fun!” (7” 86)
A me gli split non è che esaltino poi tanto (visto che generalmente mi piace un gruppo e mi fa schifo l’altro!), ma questo fra due gruppi tedeschi (di Kaiserslautern per la precisione) è di sicuro nella mia personale top ten dei suddetti “dischi a metà”! Forse perché in pratica è sempre la stessa band: gli Spermbirds hanno un cantante (Lee Hollis) americano, G.I. di stanza in Germania (!) e cantano quindi in inglese, i Walter Elf sono sempre gli Spermbirds col batterista di questi ultimi (Matthias “Beppo” Götte) alla voce (in tedesco) e un altro drummer. I due chitarristi e il bassista sono gli stessi per entrambe le bands, le quali fanno il loro Hardcore: originale (quasi strano a volte), trascinante, pieno di carica e passione; più sparati gli Spermbirds, più melodici i Walter 11 (di cui resta storico il pezzo “Kaiserslautern”, dedicato alla squadra che qualche anno fa era allenata dall’indimenticabile Andy Brehme).
UPRIGHT CITIZENS “Facts & views” (7” 85)
Crucchi pure loro e autori di un discreto numero di dischi fra anni ottanta e primi novanta (tre lp, un paio di mini-lp e svariati 7”). Su questo sette dell’85, uscito per la misconosciuta etichetta svedese Skvaller Rec., troviamo cinque pezzi di Hardcore piuttosto originale, tirato, trascinante e in cui fanno spesso capolino quei bei giri Thrash veloci-grattuggiati (tipo i Metallica su “Kill ‘em all” per intenderci!). Guardando le foto, anche il loro look rifletteva questa via di mezzo fra hardcore-punk-crust e thrash metal. Buon gruppo, hardcore thrasheggiante d’assalto, appunto. Un peccato dimenticarli.
VOMITO “Vomito” (Lp 87)
Questo ce l’ho in versione cassetta piratata (dalla distro friulana Der Tod Verschont Niemand) uscita nei primissimi anni novanta. Spagnoli, ma farei meglio a dire baschi (sono di Irun), i Vomito su questo lp d’esordio facevano un Hardcore/Punk vecchia maniera che, vuoi per lo stile, vuoi per il cantato “mediterraneo” (in spagnolo, non in basco), riporta subito alla mente l’Accacì italiano degli anni ottanta; i cori in pieno stile Oi! accrescono l’incredibile forza trascinante di un disco veramente anthemico (oltre che registrato piuttosto bene). I Vomito faranno uscire un altro album e un 7” (oltre ad una videocassetta) prima di scomparire, ma questo lp (l’unico disco loro che conosco) non merita l’oblio.
V/A “OI! SIAMO ANCORA QUI!!” (Lp 91)
In piazza a Savona bisognerebbe erigere un monumento dedicato al signor Marco Balestrino (il Mr. Bean dell’Oi!, come più o meno lo definì Saverio dei torinesi Woptime qualche tempo fa!), cantante dei Klasse Kriminale e fondatore dell’etichetta Havin’ A Laugh Records, che negli anni bui dell’Oi! italiano ebbe il merito di tenere a galla il movimento per poi riportarlo alla ribalta con l’avvento dei 90’s. Su “Ordigni”, il libro scritto da Riccardo Pedrini (di Nabatiana fama) che narra la storia del punk-hardcore-oi! in quel di Bologna, l’autore dice una cosa di Balestrino, cioè che la virtù del nostro è quella di essere una persona sincera e che i ragazzi queste cose le percepiscono, quei ragazzi che il Balestra non ha mai lasciato a piedi. Io stesso lo apprezzo proprio per questo, contrariamente ad altri esponenti del medesimo genere che, per usare una frase trita e ritrita, predicano bene e razzolano male, anzi molto male! Avevo conosciuto i Klasse Kriminale leggendo un trafiletto su ‘Rockerilla’ e avevo contattato la band nella persona della chitarrista di allora Antonella (dalla quale avevo comprato il primo lp del gruppo “Ci incontreremo ancora un giorno” e, più avanti, il 7” d’esordio “Costruito in Italia”, con lei che era stata così gentile da mandarmi in regalo l’altro 7” “Ragazzi come tu e me”, quei dischi che alimenteranno le voci di ambiguità politica riguardo ai Klasse dell’epoca…). Non molto tempo dopo (estate 1991) acquistai sempre da loro questa compilation che era stata assemblata da Marco, il cantante del gruppo, appunto. Il quale (penso aiutato dal compianto Tiziano Ansaldi) aveva fatto veramente le cose in grande, curando nei dettagli il disco, a partire dalla confezione che andiamo ora ad esaminare. In copertina sopra il titolo campeggia la scritta “Il Comitato Oi! italiano e i ragazzi dello stivale, sono lieti di presentarvi per il vostro divertimento, il reale suono della strada…” (con un uso della punteggiatura piuttosto fantasioso, peggio del sottoscritto ;-) !), sotto c’è la foto di due bambini (in carne, ossa e bomber), uno skinhead ed uno col moicano, abbracciati da dietro da uno skin più cresciuto (disegnato stavolta). Sul retro foto per tutte le tredici bands (et similia) incluse nel disco, qualche simpatico disegno (di Alain Alteau, noto cartoonist francese) e la dichiarazione d’intenti a proposito di questo album e dello stato del movimento oi! dell’epoca da parte del comitato di cui sopra, nel classico stile “balestriniano” al limite dell’ingenuo, ma sincero fino al midollo e pure oltre! All’interno un mega foglio grande quasi quanto un plaid (!) con una breve storia dell’Oi! italiano (festivals, dischi e fanzines) e un discreto spazio per testi e foto di tutti i gruppi, che vengono anche brevemente intervistati (questo da una parte del foglione, sul retro la stessa cosa ma tradotta in inglese). Si parte con gli Asociale di Como e il pezzo “La gente reale non muore mai”, bell’oi! incalzante con mega-corone da sottopalco. Questa band farà poi un 7” (“Novum Comum”, 1992) sulla stessa Havin’ A Laugh, uno dei pochissimi dischi non dei Klasse Kriminale ad uscire per l’etichetta savonese. Poi è la volta dei bolognesi (ed amiconi dei Nabat) Ghetto 84, presenti con due pezzi, l’ottima “Feccia” e la al limite dell’imbarazzante “La mazurca del mio uccellino” (fiera di doppi sensi che fa quasi sembrare il classico “L’üselin de la comare” una canzoncina per bambini!), che musicalmente è una vera mazurca che si alterna a parti punk/oi! abbastanza veloci. Gli Alkoolnauti di Celle Ligure (provincia di Savona) fanno “Birra gratis per i lavoratori”, brano grezzo ma non privo di un certo fascino, anzi! E io, pur essendo uno straight edge trovo a modo loro simpatici versi come “se la birra è una religione io sono il papa / lavoro per bere, mi ubriaco per lavorare”. “Serenata” dei Teenage Mutant non è un vero e proprio pezzo, ma un coro da fronte-palco/stadio eseguito senza musica e che dura solo pochi secondi (suppongo registrato dal Balestra e amici vari). I Klasse Kriminale fanno la loro parte col futuro classico “Oi! siamo tu ed io vincenti” (spesso storpiato in “oi!, siamo tu ed io, Vincenzo” da parte di molti amici/colleghi/fans della band savonese!), gran bel pezzo con un ottimo testo sugli anni bui del movimento oi! a fine 80’s, e con “Uniti sempre, divisi mai”, leggermente inferiore ma dotata di un notevole coro nel ritornello. Si capisce che il Balestrino la sa lunga quando nelle influenze della band cita, oltre ai classicissimi dell’oi!, i rockers australiani Rose Tattoo! I torinesi Face The Facts (nome preso dal pezzo dei newyorkesi Cro-Mags) con “Giudica” si rendono protagonisti di un bel pezzo a metà fra quella disperazione tipica dell’hardcore di Torino e la potenza dell’accacì statunitense/newyorkese. Gruppo composto da due skinheads (fra cui il tatuatissimo cantante) e due hardcorers, qualcuno dei membri era pure straight-edge, e dai testi di matrice cristiana (!!!), vedasi versi come “sesso, droga, carriera, soddisfazioni: piaceri materiali è quello che la Bestia ci propone, ma Gesù Cristo è grande, ci ha mostrato la via”… Si resta nella capitale piemontese con gli storici Rough riformatisi apposta per questa compilation (e mai più riunitisi dopo)! Il loro pezzo è una nuova versione di “Restiamo uniti (n’oi!)”, melodica e dal discreto ritornello corale con tanto di hand-claps. Brano carino, ma non all’altezza del loro superclassico “Torino è la mia città”. Nota di colore: il batterista dei Rough suonerà poi (e tuttora) le percussioni con la conosciutissima reggae band degli Africa Unite, assumendo lo pseudonimo di Papa Nico… E adesso giù nel profondo sud, a Messina, con i Bulldog Skin e il loro brano “Oi! rivoluzione”. Gli stemmi tricolori sui bomber e il ritornello che fa “Oi! oi! oi! rivoluzione, oi! oi! oi! per la nazione”, li rendono leggerissimamente ambigui politicamente, ma forse non erano destrorsi quanto semplicemente nazionalisti (la qual cosa non ha necessariamente una matrice politica di destra). Poi però leggo che le loro influenze/bands preferite (oltre ai Klasse Kriminale) sono Peggior Amico ed Intolleranza, un verso del loro pezzo recita “fai il servizio di leva con molto onore, l’anno seguente sei ancora per strada” e i componenti della band dichiarano di essere interessati alla politica (contrariamente a quasi tutti gli altri gruppi della compilation), anche se non si sbilanciano…boh, diciamo che erano effettivamente ambiguetti, và! Fanno un oi! grezzo giocato su di un legnoso mid-time registrato in maniera piuttosto amatoriale, ma hanno comunque un certo fascino. Giriamo il disco e arriva quello che è forse il pezzo migliore della compilation, “Un’altra primavera” a firma The Stab, terzetto bolognese con due ex Nabat in formazione: UiUi alla batteria (lo storico ex, nonché futuro, batterista della band di Steno) e Davide “Abbondante” al basso (che aveva suonato nei primissimi Nabat e che suonerà nuovamente con loro quando si riformeranno da lì a breve). Anche loro dimostrano di saperne a pacchi quando fra le influenze citano Pogues e The Man They Couldn’t Hang! Il loro brano è un perfetto esempio di trascinante punk ’77-style fra Clash e Stiff Little Fingers, con chitarre rockeggianti e la particolare e melodica voce di Romano (che in futuro transiterà pure lui nei Nabat in qualità di chitarrista). Altro gran pezzo è “Iron plate” (cantato comunque in italiano a dispetto del titolo) dei genovesi Fronte Del Porto (che avevano pure un gran bel nome, d’ispirazione Marlon Brando ovviamente), con l’Antonella dei Klasse Kriminale alla chitarra e il cui batterista proveniva dai disciolti Gangland (la oi! band anni ottanta di Genova, autrice del classico “Sangue in gradinata”), mentre il cantante sosteneva (scherzando) di essere un ginecologo… Nelle influenze citano nazi bands quali Skrewdriver e Brutal Attack, ma mettono in chiaro che lo sono solo a livello musicale e non ideologico/lirico. Il loro brano è spettacolare ed ha un ritornello corale strepitoso. Purtroppo questo è l’unico pezzo mai inciso dalla band, un vero peccato dato che promettevano meraviglie! I faentini Doctor Doom non c’entrano praticamente nulla con l’oi!,
a cominciare dall’aspetto (un paio di capelloni, look in genere più sul thrashcore) per proseguire con la musica del brano “Non contare su di me”, il cui testo (niente di che, comunque) è di uno scrittore all’epoca emergente, nientepopodimenochè Carlo Lucarelli (paura, eh?)! Un misto rock-punk-metal-grunge davvero ben suonato per un pezzo effettivamente bello, che però, ripeto, non c’entra nulla col resto della compilation. Suppongo che l’inclusione di questa band fosse dovuta ai trascorsi di un paio di membri in gruppi oi! emiliano-romagnoli quali Rip Off e Skins Army (fra l’altro il batterista Fabio Pantera, che aveva militato in entrambe le bands appena citate, proveniva dai Boohoos, i garage-rockers pesaresi con anche Paul Chain in formazione, e aveva suonato sui loro due ottimi albums). E’ poi la volta di una cover di un classicissimo dell’oi! di oltremanica, “Chaos” dei 4 Skins, eseguita da una sorta di super-gruppo composto da Rude dei Ghetto 84 alla voce, Antonella dei Klasse Kriminale alla chitarra, Massimo dei Loveless (band a me totalmente sconosciuta!) al basso e UiUi degli Stab alla batteria, che prese il nome di Oi! Connection. Il pezzo è dedicato ad un certo Cicci, un amico defunto da poco, la cui canzone preferita era proprio questa dei 4 Skins, qui riproposta musicalmente identica, ma col testo cambiato e dedicato all’amico scomparso. Bel pezzo (beh, si sapeva!) e testo toccante in italiano. E per finire ecco Magic Manlio L’Herbert, all’epoca bassista dei Klasse Kriminale, che, accompagnandosi col piano, si esibisce in una simpatica e trascinante ballata a tempo sostenuto denominata “Per favore!!! (sparate al pianista…)”. Il testo è splendido, vera poesia oi! Alla resa dei conti, “Oi! siamo ancora qui!!’ è un bel disco! Le bands poi sono decisamente molto meglio di quelle degli ultimi anni, qui ci sono ancora testi non stereotipati, attitudine sincera, più senso della realtà e meno atteggiarsi. Su tutta la compilation aleggia lo spirito dei grandi assenti, i Nabat. Assenti in quanto al tempo sciolti, chiaro, ma presenti a livello di influenza musicale ed attitudinale, col nome di un gruppo preso dal titolo di un loro pezzo (parlo degli Asociale) e con tre ex e/o futuri membri in un altro (The Stab)! D’altra parte senza i Nabat ci sarebbe stato un oi! italiano? Se sì sarebbe stato parecchio diverso! Di questi gruppi adesso come adesso sono attivi i soli Klasse Kriminale, che con lo spirito che contraddistingue il Balestrino non hanno mai mollato da allora diventando un’icona dell’Oi! mondiale. Gli Asociale si erano riformati per qualche concerto alcuni anni fa, se non erro. Gli Stab sono tornati pure loro da qualche tempo a suonare dal vivo. Dopo questa prima compilation (o compilazione, come amava dire il Balestra!), la Havin’ A Laugh ne farà uscire alcune altre nel corso degli anni. Dapprima “Oi! it’s world league!!” (1992), ambizioso progetto internazionale lp + 7”, con bands estere mica da ridere come le due icone dell’oi! britannico Business e 4 Skins, gli statunitensi Anti-Heros, gli svedesi Agent Bulldogg e i tedeschi Die Lokalmatadore. Poi è la volta del cd “Oi! against Silvio” nel ’94, quando il Berlusca diventa presidente del consiglio (per la prima di quattro volte…), con ben 25 bands tutte italiane (Nabat, Rough, The Stab, Erode, Asociale, Los Fastidios, Reazione, Fuori Controllo, ecc.ecc.), alcune con testi a tema anti-berlusconiano. Nel ’98 tocca all’lp “Oi! against racism”, con gruppi non da poco quali Sham69, Angelic Upstarts, Red London, Attila The Stockbrocker, Oppressed, Red Alert, Templars, Nabat e Klaxon. Negli anni duemila infine arriva il cd “Stay punk!” con, fra gli altri, grossi nomi quali U.K. Subs, Vice Squad, Angelic Upstarts, Business, Sham69, Agnostic Front e Murphy’s Law (particolarità di tutte queste compilation è sempre la presenza di almeno un pezzo dei Klasse Kriminale, giustamente direi).
V/A – “PEOPLE OF THE PIT…” (Lp 87)
In ambito Hardcore, Punk e Metal hanno da sempre avuto un’importanza enorme le compilations, spesso su queste raccolte in formato vinilico o su cassetta (e più tardi anche su cd) hanno mosso i primi passi formazioni ora conosciute in tutto il mondo. Non starò qui a fare sterili elenchi di compilations storiche (ne avrò anche già citate abbastanza durante tutta la ‘zine!), ma voglio parlarvi di quelle che, nella seconda metà degli anni ottanta, realizzò un tipo di Ascoli Piceno, un certo Carlo Cannella, che cantava negli Stige e che nel corso degli anni aveva già fatto uscire alcune compilations su cassetta (con nomi, allora sconosciutissimi, tipo Offspring, Ludichrist e Final Conflict) per la sua etichetta, la Goddam Church. Durante il 1986 il nostro decise di produrre la sua prima compilation su vinile, questa “People of the pit” di cui vado ora a parlare. Dato che il Cannella (che non conosco) pare essere personaggio in possesso di una certa cultura, il titolo potrebbe tributare quello del racconto fanta/horror del 1918 di Abraham Merritt (scrittore americano che ebbe una certa influenza su H.P. Lovecraft, con cui collaborò anche ad un racconto), traducibile come ‘la gente degli abissi’, giocando qui sul doppio senso della parola “pit” che in senso hardcore/metal intende il sottopalco, per cui ‘la gente del sottopalco’, ben esemplificata dalla foto di copertina che ritrae una tipica “rovina hardcore” al Virus di Milano durante un concerto degli Indigesti (la storica band biellese) di qualche anno prima. Copertina che è in bianco e nero con all’interno, sulla busta contieni-disco, da una parte il classico collage di foto stile hardcore-thrash dell’epoca ritraente immagini delle varie bands e dall’altra testi e contatti per tutti i dieci gruppi contenuti nell’lp. Si parte con gli statunitensi Corrupted Morals, californiani per la precisione, e i loro due pezzi registrati un annetto prima. La band era stata formata da tre membri ex Desecration (la death/thrash band di San Francisco, legata a doppio filo ai Possessed, che purtroppo non andò mai oltre la produzione di alcuni demotapes e all’inclusione di due pezzi sull’ lp-compilation “Satan’s revenge I”) e nelle sue fila per un certo periodo ha militato pure Billie Joe dei Green Day (anche se non so se suona su questi due pezzi). Fra l’altro nel gruppo poco tempo dopo entrerà anche il chitarrista-extraordinaire Larry Lalonde (ex Possessed, appunto, e futura star coi Primus!) che suonerà sul loro unico lp dell’89. Qui i nostri fanno un hardcore sparatissimo tipicamente americano e tipicamente 80s’, con qualche giro vagamente thrasheggiante giocato su ritmiche stoppate/grattugiate. Seguono i Pure Hate, olandesi di Haarlem, due pezzi cantati in inglese (nota di cronaca: sono l’unico gruppo della compilation che non canta nella propria lingua) di velocissimo hardcore un po’ caotico con la voce urlata. Nel primo brano, anche per via di un certo feeling “scuro”, ricordano un po’ alcune cose di un gruppo che verrà qualche anno dopo, i finnici Impaled Nazarene col loro black-core. Il secondo pezzo è più tipicamente hardcore, un mid-time con delle armonizzazioni abbastanza inusuali. Chissà che fine hanno fatto? Terzo gruppo i Puke, svedesi, grande band! Due brani (più un breve pezzo “a cappella” divertente/divertito, su quell’aria di J.S. Bach poi ripresa negli anni sessanta dai Procol Harum nel loro classicissimo ‘A whiter shade of pale’, che chiude il lato a dopo i Corruption) cantati in svedese e trascinantissimi! Dotati di ottima tecnica i Puke hanno qualcosa degli R.K.L., ma sono comunque molto personali e si sente la provenienza nordeuropea per via di quel nonsochè di malinconico accentuato anche dal cantato in lingua madre. Nel 1987 fecero un disco della madonna, l’lp“Back to the stoneage”, prima di sparire nel nulla. Uno di loro riemergerà nei primi duemila coi discretamente noti Mobile Mob Freakshow, un altro nei primi novanta coi melodic-hardcorers Identity e più avanti negli sconosciuti Lisa Gives Head, che però avevano un nome mica male ;-). Poi ecco gli Stige, il gruppo del Cannella, che all’epoca erano ancora agli esordi. Unica band italiana della compilation, anche loro presenti con due pezzi cantati in lingua madre. Un feroce assalto hardcore/thrash con una chitarra che ricorda i Motorhead a 78 giri e l’originalissima voce di Carlo, quasi parlata nel primo brano, cantata/urlata nel secondo. Band particolare e personale, che farà poi un ottimo lp, “Uniti nell’abbraccio” (’89), e un secondo album (“Nuova sensazione freak”, ’91) mai pubblicato se non postumo in tempi recenti. Poi il Cannella fonderà gli Affluente, attivi ancora oggi ma con un altro cantante. Ultima band del primo lato i Corruption, americani e californiani come i Corrupted Morals (a cui sono accomunati anche dall’assonanza fra i due monicker), con due pezzi di hardcore a palla con qualche ritmica più sul thrash, assolazzi e soluzioni chitarristiche abbastanza particolari. Decisamente trascinanti! Il batterista ricomparirà poi in gruppi metal quali gli storici Riot (brevemente) e gli Steel Prophet, il cantante (che tre anni fa si è suicidato…) aveva al tempo appena sostituito Katon Da Pena dietro il microfono degli Hirax. Aprono il lato b i False Liberty, americani sempre dalla costa ovest, ma stavolta molto più a nord, da una Seattle in cui le prime grunge bands stavano affacciandosi sulle scene. Anche per loro i brani sono due e sono due schegge di hardcore a manetta con rallentamenti e cori da ‘people of the pit’ davvero! Ancora U.s.a. coi floridiani No Fraud, hardcorone tipicamente U.s.a. anni ottanta, molto trascinante e pure in questo caso pane per i denti della ‘gente del sottopalco’! Il primo dei loro due pezzi si chiama “Suicidal maniac”, ma i Suicidal Tendencies (che oltretutto a quei tempi avevano pure loro un pezzo intitolato così) non c’entrano nulla, anche se curiosamente entrambe le bands provengono da una Venice, i No Fraud dalla Venice della Florida e i Suicidal da Venice Beach, California! I No Fraud fecero un album nell’88 per la Nuclear Blast quando questa era ancora un’etichetta hardcore. Il bassista Pete Jay suonerà poi coi grinders Assück sul 7” “Blindspot” (’92). Si torna in Europa con gli altri svedesi Raped Teenagers, trio che fece quattro albums e svariati sette pollici fra seconda metà degli anni ottanta e primi novanta. Ben quattro i loro pezzi, tutti piuttosto brevi, tutti cantati in svedese. Hardcore veloce, schizzatissimo e pieno di stacchettini strani e di giri/riffs inusuali; finale del quarto brano addirittura jazzato. Tecnica sopraffina (già allora in Svezia si suonava alla grande), trascinanti ed originali, hanno un qualcosina dei brianzoli Atrox. Dopo secoli di silenzio, nel 2011 gli ex membri hanno formato la hardcore band Pusrad, già con alcune uscite discografiche all’attivo. Rimanendo in Scandinavia è la volta dei Barn Av Regnbeum, band hardcore norvegese che fece un paio di 7” in quegli anni (i due fratelli Andreassen formeranno subito dopo i più conosciuti Life But How To Live It?, il batterista ricomparirà poi recentemente in garage-rock bands quali Incubators e Yum-Yums). Qui propongono tre pezzi col cantato in norvegese, hardcore veloce e pieno di stacchi, voce semi-roca e chitarra rimembrante quella dei romani Bloody Riot dell’album ’85. Nel primo pezzo c’è un clamoroso stacco ska/reggae in anticipo sui tempi, nel testo dell’ultimo ci sono delle tematiche anti-cristiane (che lassù in Norvegia pare quindi non fossero prerogativa dei blackmetallers soltanto, eheh!). E infine tocca ai Subterranean Kids, hardcore band spagnola da Barcellona. Quattro Lp e qualche 7” fra fine 80’s e primi 90’s. Per loro due brani cantati in spagnolo. Il primo è un hardcore velocissimo con parti rallentate ed anthemiche, il secondo è un mid-time quasi epico, in cui fa capolino una chitarra flangerata, che poi diventa hardcore veloce. Il cantato in lingua madre dona la classica marcia in più a questi catalani che pare fossero anche straight-edge. I Subterranean Kids si sono riformati di recente e dovrebbero
tuttora essere in giro, credo siano gli unici della compilation ancora attivi oggidì quindi! Tutte bands minori alla fin della fiera, però tutte con qualcosa da dire, in possesso non di originalità ma di personalità da vendere, non le sterili fotocopie dei grossi nomi degli anni a venire, o meglio diciamo dalla fine dei novanta in poi. Questo disco l’avevo trovato in una distro (ricordo quale? ovviamente no!) ad un concerto al Leonca attorno al ’92, pagato 8.500 lire, c’è ancora l’etichettina col prezzo sopra, non riuscivo a toglierla e per non rovinare la copertina è rimasta fino ai giorni nostri. Avevo invece comprato direttamente dal Cannella nella primavera del ‘90 il doppio-lp “ATTITUDINE MENTALE POSITIVA” (che uscì a inizio 1989, mi pare), un immane sforzo su due vinili, dalla copertina a colori, che raggruppava ben 32 bands (hardcore, metal, garage), tutte italiane stavolta, con un pezzo a testa. Sebbene in parecchi casi i gruppi siano a livello decisamente amatoriale (anche come incisioni), questo disco è un’istantanea non priva di un certo fascino di quanto succedeva nei garages e nelle cantine della nostra penisola in quegli anni. Gente piena di passione e di voglia di suonare, anche se le strutture erano pochissime, i concerti si tenevano in situazioni quasi sempre disastrate, la strumentazione era agghiacciante e i soldi, beh lasciamo perdere! E, bands più amatoriali a parte, ci sono comunque grupponi (spesso anche con pezzi inediti) quali Atrox, Infezione, Contropotere, Maximum Feedback, Digos Goat, Maze e Stige stessi in ambito hardcore, e Madhouse, Hardened Sinner, Randagi, Eversor (sì, quelli che poi vireranno sull’hardcore melodico), Angel Death e No Rules in ambito thrash e death. Non fu prodotta dal Cannella, ma la menziono lo stesso: “ATTITUDINE MENTALE POSITIVA, VOL. 2”, stavolta su un solo disco, uscita nel 1992 per la Panorama di Siena (con la collaborazione del negozio Underground di Borgomanero) a cui il Cannella passò il testimone, assemblando e supervisionando comunque il tutto. Sedici bands (con un brano a testa), fra cui la prima apparizione su vinile dei poi famosissimi Marlene Kuntz, l’ultimo pezzo mai inciso dai comaschi Hide Out del mio socio Depla, l’unica testimonianza vinilica dei Vergogna di Erba (vedi recensione di Jannacci in questa rubrica), un pezzo dei brianzoli De Crew (che all’epoca erano ancora The Crew), uno dei thrashers del pavese Alligator, uno dei Mudhead, e uno degli ormai sciolti Stige (ovvia presenza fissa su tutte e tre le compilations in esame), tratto dal secondo lp al tempo ancora inedito. Segnalo infine l’ottimo libro scritto dal Cannella, “La città è quieta…ombre parlano” (titolo che omaggia un 7” degli alessandrini Peggio Punx), uscito nel 2005 e che parla di punk e hardcore ad Ascoli raccontando l’epopea degli Stige e delle varie bands venute prima e dopo di loro, ponendo spesso l’accento sulle persone più che sull’aspetto musicale e senza tralasciare una forte componente autobiografica personale. Cercàtelo!
“AMERICAN HARDCORE – LA STORIA DEL PUNK AMERICANO 1980-1986” (DVD 2006)
L’Hardcore è americano. Non fate quella faccia, ovvio che ogni nazione abbia avuto ed ha il suo, però diciamolo, è un genere che è nato in U.s.a. Certo, Jello Biafra dei Dead Kennedys nei primi 80’s adorava scene contemporanee come quella italiana e quella finlandese, ma ciò non toglie che la patria vera e propria dell’hardcore, inteso a 360° non solo musicalmente, siano gli odiati/amati States, con buona pace della perfida Albione di Discharge e compagnia (ancora punk bands per quanto mi riguarda). E del resto tanti altri generi/sottogeneri delle musiche che amiamo sono nati in quelle lande sconfinate. A partire dai Rolling Stones, inglesissimi certo, ma che hanno preso il Blues degli stati del sud degli U.s.a. e l’hanno poi reinsegnato agli americani. Altri esempi? Beh certo, il Punk ’77 fu un fenomeno prettamente britannico, però al di là dell’oceano erano già attivi da un bel po’ Ramones, Dead Boys, Real Kids, i Voidoids di Richard Hell, ecc. La New Wave Of British Heavy Metal (quella di Iron Maiden, Def Leppard, Saxon, ecc.), come da nome si sviluppò in Gran Bretagna, ma negli States giravano già precursori come Kiss e Van Halen. L’hard rock inglese fine sessanta/primi settanta della sacra triade Led Zeppelin-Deep Purple-Black Sabbath aveva già da tempo il suo contraltare oltreoceano con nomi di livello assoluto quali Iron Butterfly, Blue Cheer, Grand Funk Railroad, Vanilla Fudge e Steppenwolf. Vero che per Death Metal si pensa subito alla Svezia dei primissimi anni novanta coi vari Entombed, Dismember, Grave e compagnia, però le origini del genere furono nella seconda metà degli 80’s in U.s.a. con Possessed, Death e Morbid Angel, a cui seguì la colata floridiana contemporanea a quella svedese. Lasciamo stare il Thrash, dato che basterebbe nominare Metallica/Exodus/Slayer/Anthrax, i padri fondatori, tutti ovviamente americani. Forse il solo black metal fu un fenomeno inizialmente prettamente europeo, dai capostipiti Venom e Mercyful Fate, ai vari Bathory, Hellhammer/Celtic Frost, Sodom e Destruction, per arrivare al black della seconda ondata, greco, cecoslovacco e soprattutto scandinavo (anche se non va assolutamente dimenticata l’influenza innegabile dei grandissimi brasiliani Sarcofago sul black norvegese della prima ora). Anche il Progressive anni settanta ha matrici inglesi (ed italiane) in primis, ma non sono un grandissimo conoscitore della storia di questo genere e non vorrei scrivere qualche cazzata… Insomma, più che altro si sviluppavano scene diverse nelle varie nazioni, con gli americani comunque (quasi) sempre avanti o comunque subito pronti a rivaleggiare. Tornando sull’Hardcore, in Italia abbiamo avuto grandissime bands (devo citare per l’ennesima volta Negazione, Indigesti, Kina, Bloody Riot, Wretched, ecc.ecc.ecc.?), ma fatalmente destinate a rimanere emarginate dal grande pubblico americano per via del cantato in lingua madre. Con l’eccezione degli emiliani Raw Power che, come gli Stones nei sessanta, hanno preso l’Hardcore degli americani e gli hanno reinsegnato a suonarlo nei vari tours che fecero oltreoceano (con tanto di famosa data coi Guns’n’Roses agli esordi come gruppo-spalla)! Furono un’eccezione però, assieme ai toscani C.C.M., che registrarono un album negli States, li girarono in tour ed erano parecchio apprezzati da quelle parti, in misura decisamente minore rispetto ai Raw Power comunque. Gli Indigesti fecero un apprezzatissimo (dal vivo davano la paga a molte bands statunitensi) tour americano di un mese nell’86, ma la cosa non ebbe seguito. E i Negazione quando passarono al cantato inglese non ebbero però grossa fortuna in America. Tutto ‘sto pippone serve ad introdurre questo dvd, versione italiana ad opera della ShaKe Edizioni di Milano, un film realizzato dal regista Paul Rachman che porta sullo schermo il libro “American Punk Hardcore” di Steven Blush (libro di cui io mi comprai l’edizione inglese quando uscì e qualche anno dopo pure quella tradotta in italiano…). Un’immagine live di Springa, microfono alla mano, negli S.S.D. dei primi anni ottanta si staglia in copertina, mentre aprendo la confezione digipack del dvd sbucano fuori una foto di H.R. dei Bad Brains dal vivo a Zurigo e una di Henry Rollins a torso nudo e tatuatissimo durante un live milanese dell’87. Booklettone di più di trenta pagine a corredo con una lunga intervista al regista e all’autore del libro ispiratore. Ma veniamo finalmente ai contenuti filmati su cui è inutile dilungarsi in descrizioni che lascerebbero il tempo che trovano. Diciamo quindi solo che ci sono immagini d’epoca di una serie di bands da urlo (Black Flag, Minor Threat, D.O.A., Bad Brains, Circle Jerks, M.D.C., Gang Green, Negative Approach, Adolescents, Void, ecc.ecc.ecc.) ed interviste recenti a vari componenti di questi gruppi (sia di quelli sciolti da secoli, sia di quelli ancora attivi). Il film dura la bellezza di un’ora e quaranta minuti e presenta anche altri ottanta minuti di contenuti extra (le solite scene tagliate, foto, pezzi live e uno spazio dedicato alla scena italiana dell’epoca con intervista a Mungo dei torinesi Declino sui loro tours in Germania e Olanda nella prima metà degli 80’s: interessante, ma un po’ fuori posto tutto sommato). Traduzioni in italiano per i sottotitoli ad opera di Syd Migx (che fu il cantante dei succitati C.C.M.), opera buona e giusta dato che io il film l’avevo già visto nella versione americana e, come è facile immaginare, nelle interviste non ci avevo capito quasi nulla… Nella sua interezza questo dvd è un ottimo affresco di quello che fu il fenomeno dell’Hardcore negli Stati Uniti del doppio mandato Reaganiano e le persone intervistate dicono tutte (beh, facciamo quasi tutte, và!) delle cose intelligenti. Di sicuro comunque non ci si annoia, anzi. E anche il montaggio del film è studiato in maniera che la pellicola scorra via fluidamente e senza cali di tensione. Alla fine cosa rimane da dire? Beh, che Vic Bondi (degli Articles Of Faith) assomiglia paurosamente a Roberto Saviano, anche per il modo di gesticolare e per la mimica facciale. Che Joey “Shithead” Keithley dei canadesi D.O.A. (gli “intrusi” stranieri del film) ha raggiunto i cinquant’anni in buona forma anche se il capello oscenamente biondo nun se po’ vedè! Che il leggermente più vecchio Keith Morris (cantante per icone quali primi Black Flag e Circle Jerks), intervistato su una sedia a dondolo ai bordi di una piscina californiana, è diventato un bolso personaggio di mezza età con orrenda acconciatura rasta ed altrettanto osceni occhialini rotondi. Che Mike Watt (dei Minutemen) è uguale a Maurizio Nichetti! Che Ian MacKaye (Minor Threat, Fugazi) è uguale a…Ian MacKaye, non cambia mai. Che Greg Hetson (Circle Jerks, Bad Religion) è un signore prossimo alla cinquantina, quasi completamente calvo e con occhiali da vista, che sembra più un mite impiegato del catasto che non il chitarrista-folletto visto tante volte sui palchi di mezzo mondo. Che Ken Inouye (dei Marginal Man) ricorda clamorosamente un Recoba più vecchio, grasso e pelato (Ken è hawaiano, ma il padre, scomparso di recente, fu per quasi cinquant’anni il senatore rappresentante delle Hawaii, per cui la famiglia viveva a Washington DC). Che Springa (degli S.S.D.), mentre nelle immagini dal vivo dell’epoca ricorda un Hernan Crespo giovane, ora è diventato un orrendo capellone sovrappeso con baffetti ed abbigliamento atrocemente da quindicenne… Che Henry Rollins (Black Flag) si è un po’ ingrigito in testa, ma rimane sempre in ottima forma e tiene fede alla propria meritatissima fama di intrattenitore di primo piano (fra l’altro Henry da anni si cimenta anche come attore e anche voi profani/e probabilmente l’avrete visto in qualche film di seconda/terza fascia). Che Jeff Atta e Mike Patton (semplice caso di omonimia col cantante dei Faith No More, non è lui) dei Middle Class (che furono probabilmente la primissima band hardcore americana ad incidere su vinile col loro 7” del ’78) sono due signori di mezza età, sobri e tranquilli, che danno l’idea di essere o due funzionari di alto livello in qualche ente o due ingegneri-capo in qualche megaditta. Che Dave Dictor (M.D.C.) è dimagrito parecchio, cristo non vorrei che ci fosse qualche virus di mezzo (Dave è sempre stato orgogliosamente un gay d’assalto. E ai vari significati della sigla della sua band io ho sempre aggiunto anche Masnada Di Culattoni, battuta molto poco politically-correct lo so, ma mi piace prendere in giro bonariamente uno dei miei gruppi hardcore preferiti). Che Chris Doherty (Gang Green) porta addosso tutta l’eredità di anni e anni di eccessi, vista la voce da tossico e una mezza paresi facciale (“You’ve got the beer, we’ve got the time, you’ve got the coke, gimme a line”, appunto). Che Steve Soto (Adolescents, Agent Orange), per look ed eloquio, potrebbe fare l’attore comico, anche in films di alto livello. Che Brett Gurewitz (Bad Religion) e Greg Ginn (Black Flag) hanno l’aria degli imprenditori, quali in effetti sono. Che Jack Grisham (dei T.S.O.L.) è un surfista cresciuto e leggermente imbolsito, oltre ad essere un bel testa di cazzo, detto in senso positivo, eh! Che l’invecchiato Paul Mahern (Zero Boys) sembra terribilmente Beppe Severgnini. Che H.R. (Bad Brains) è un vecchio signore di colore in giacca e capello rasta. Che Tony Cadena (Adolescents) sembra una via di mezzo fra l’Ozzy Osbourne di adesso e il Ron Jeremy sempre degli ultimi tempi. Che David Brockie (Death Piggy, poi nei famosi Gwar con lo pseudonimo Oderus Urungus) ha una faccia da caratterista e lo vedrei bene a Zelig o a Colorado! Che Dez Cadena (Black Flag e Red Kross) è un businessman con le physique du rôle del caso (no, non è parente del Tony sopracitato). Che Chuck Treece (dei McRad, oltre che skateboarder professionista) sembra Spike Lee. Che Kira Roessler (la bassista dei Black Flag) è diventata una normalissima signora sulla cinquantina. Che Hank Pierce, uno straight edge bostoniano che faceva da roadie per le bands di quella città, è ora il reverendo Pierce, pastore di una delle mille chiese che proliferano negli States, e nel film lo si vede cantare gli inni dietro un altare! Che Dave Smalley (D.Y.S., Dag Nasty) sembra Enrico Preziosi, il presidente del Genoa! Che Kevin Seconds (7 Seconds) è ancora un bell’uomo anche approssimandosi ai cinquanta. Che Al Barile e Jaime Sciarappa (entrambi S.S.D.) sono in buonissima forma (il secondo negli anni ha preso un look da picciotto siciliano in linea con le sue origini!) e che le loro mogli sono due simpatiche italo-americane da sit-com. Che l’ipertatuato Harley Flanagan (dei Cro-Mags) si rivela un bel personaggio che dice cose interessanti. E che Vinnie Stigma (Agnostic Front) e Jimmy Gestapo (Murphy’s Law) sono abbigliati in una maniera che non sfigurerebbe affatto in un film a base di mafiosi e gangs di strada della loro New York. Compaiono anche nomi mainstream che ebbero un passato Hardcore, come Moby (che fu chitarrista dei Vatican Commandos), Flea dei Red Hot Chili Peppers (suonò nei Fear), Duff McKagan, bassista dei Guns’n’Roses (già batterista nei Fartz, il cui cantante era Blaine Cook, poi singer degli Accüsed) e Phil Anselmo dei Pantera (che non si capisce cosa cazzo c’entri e in più assume un atteggiamento che lo fa risultare particolarmente antipatico). Da tutte queste interviste (e dalle altre, oltre ai succitati ci sono infatti molti nomi che non ho citato) emerge il fatto che anche da loro i concerti erano quasi sempre organizzati (anzi, disorganizzati) come da noi! Fra i filmati d’epoca menzione particolare per quello dei Poison Idea, con Jerry A. e il compianto Pig Champion solo grassi, ma ancora non obesi; per quello dei primissimi Bad Brains pre-acconciature rasta (quattro negretti giovanissimi, ben vestiti e dai capelli corti. E spaccavano il culo già allora!); per quello in cui vengono intervistati un giovanissimo Choke (Negative Fx, Slapshot) assieme ad un altrettanto giovane skinhead, Al Barile, a cui segue il clip di un live dei Negative Fx con rissa allegata in cui Choke, vestito naturalmente da giocatore di hockey, va avanti a cantare sbattendosene di tutto e tutti; e per quello con gli S.S.D. ultimo periodo versione glam/hard rock, imbarazzante anche solo a doverlo guardare! Fra i filmati recenti la scena in cui Vinnie Stigma suona un corno è decisamente degna di nota ;-) ! Grandi assenti: Jello Biafra e i Dead Kennedys. E anche Glenn Danzig e i Misfits (che compaiono di striscio grazie a due brevi scambi di battute con Bobby Steele, l’ex chitarrista che poi fonderà gli Undead). Pare infatti che ci siano stati problemi di licenze e contratti vari, anche per via dei contenziosi ancora in atto fra i vari membri delle suddette bands, per cui, dato che il film andava finito, venne deciso di non aspettare altro tempo e la pellicola soffre della grave mancanza di queste due influentissime (specie i Dead Kennedys) bands. Visione del film consigliata a tutti/e: dai fans di vecchia data del genere alle nuove leve, per finire coi semplici curiosi/e!
E ora spazio ai miei collaboratori :
PEP “Jumanji” THE BRESCIAN :
D.B.C. “Dead Brain Cells” (Lp 88)
Grande disco!! Ebbene si, cazzo, questa volta, ascoltando il pezzo di plastica prima di comprarlo, avevo proprio visto giusto! Quartetto canadese alla prima prova vinilica, musica abbastanza anomala per il periodo, tecnica sopraffina con tempi abbastanza complessi anche se mai velocissimi e cambi di tempo a raffica…uno dei primi gruppi dell’infornata denominata poi Techno-Thrash (chiaro che se non avete capito che quel Techno nulla c’entra col “tuz-tuz” da discoteca, non dovreste nemmeno avere in mano queste pagine… – n.d.C.). Già dalla prima canzone, “Deadlock”, l’headbanging è inevitabile, fra assoli di Metallichiana memoria e una voce aspra e rabbiosa che si alterna ad uno pseudo-parlato innovativo per il periodo…a volte i D.B.C. ricordano i grandissimi connazionali VoiVod (ascoltare “Monument” e “Negative reinforcement” per credere!) o i primi Nuclear Assault (vedi “Outburst”), mentre altre riescono ad essere decisamente singolari non ricordandomi nessun gruppo in particolare. I testi sono piuttosto sul personale ed è meglio non scendere nei dettagli…copertina abbastanza orrenda, ma il disco merita sicuramente almeno trecentoventuno ascolti!! Un grande disco!! Ricordo che invece il loro secondo lavoro, l’Lp “Universe”, mi aveva particolarmente deluso…ma adesso provo a riascoltarmelo!
PS (Claudio) : i D.B.C. si sciolsero nel ‘91 e si ritirarono dalle scene, uno dei chitarristi passerà purtroppo a miglior vita nel ’94. Nel ‘95 uscirà postumo un terzo album contenente un demo registrato fra ’90 e ‘91. Dal 2006 ad oggi la band si è riformata con due membri della line-up originale, più un paio di nuovi elementi, unicamente per suonare ogni tanto qualche show nel loro Quebec.
DEATH WISH “Demon preacher” (Lp 88)
Questo disco è di una pallosità enorme! Cazzarola, mi erano stati spacciati dai soliti giornali specializzati come una ventata di freschezza nel panorama Thrash e io ci credevo! Copertina invitante, tutta nera, logo del gruppo in carattere gotico e un disegno di un teschio cornuto (potrebbe essere quello di Ceccarini, l’arbitro di Juve-Inter 97/98, che negò un rigore a noi nerazzurri e regalò l’ennesimo scudetto ai gobbi!) con tanto di catene! Al primo ascolto, dopo l’intro “Death procession” ci si aspetta qualcosa di veramente cattivo, ma dal primo riff di chitarra del pezzo “Demon preacher” si capisce che i nostri quattro eroi [dalle lande sconosciute! (erano inglesi, te lo suggerisco io dal primo banco! – n.d.C.) ] sono solo dei cloni di Metallica e Sacred Reich (nei tempi più mosh…), che condiscono il tutto con qualcosina di Heavy Metal più classico…e alla voce hanno un eunuco! La cosa che ho sempre odiato in gruppi del genere (eccezion fatta per i Vio-lence…) è la voce con urletti in pseudo falsetto da castrato! Ok, vada per King Diamond o per i gruppi Speed Metal à-la Helloween, ma per un vero gruppo Thrash, no!, cazzo! (sono assolutamente d’accordo! – n.d.C.) Morale: 10 pezzi, suddivisi sui due lati del vinile, che possono andare benissimo come sottofondo a del cazzeggiamento vario in casa, tanto quasi non si sentono data la loro noiosità! Spero che i Deathwish abbiano fatto solo questo disco…! (ebbene…no! Esiste almeno anche l’esordio “At the edge of damnation”, datato 1987 – n.d.C., sempre dal primo banco)
PS (Claudio) : i quattro inglesotti di Brighton dopo questo album spariranno per sempre dalle scene musicali e non si sa che fine abbiano fatto, ad eccezione del batterista Brad Sims che è attualmente proprietario di un grosso studio di tattoos a Londra.
QUICK CHANGE “Circus of death” (Lp 88)
Ma quanti soldi ci hanno fatto spendere quasi inutilmente?! Anche questi yankees, secondo i soliti giornali specializzati, avevano tutte le carte in regola per diventare l’ennesima new-sensation, ma qui le idee erano veramente pochine! Troviamo un poco di Thrash/Heavy Metal, la tecnica latitante (il drummer sembra un manovale che sta scavando una buca!), la voce anche qui è da brividi (e in più cerca di copiare quella dei Flotsam & Jetsam)… L’unica cosa che salvo è qualche assolino qua e là e la parte iniziale della penultima song del lato A…fa schifo pure la copertina!
PS (Claudio) : la band di Chicago si sciolse nel ’90 dopo aver inciso un mini-lp mai pubblicato. A sorpresa il ritorno sulle scene a fine anni novanta con una formazione quasi uguale a quella di “Circus of death” (uscito clamorosamente su Roadrunner!), che ha visto la produzione di due nuovi albums in studio e di un disco live, tutti autoprodotti, fra 2000 e 2004. Il gruppo è in teoria ancora attivo al giorno d’oggi, con attività limitata alla zona della propria città.
SACRED REICH “Ignorance” (Lp 87)
Chi non ha mai fatto agli amici una domanda tipo “Quali sono i 3 dischi Thrash Metal che ti porteresti nella tomba?”…ecco, dopo i soliti Slayer e Metallica (e gli Anthrax dove me li metti?!??!??!?! – n.d.C.) il terzo gruppo era/è a scelta: chi i Megadeth, chi i Death Angel, chi i Kreator (tua moglie suppongo! ;-) – n.d.C.), chi i Sodom (non mi scorderei di Exodus, Destruction e Testament, però, eh! – n.d.C.), ecc. …io mi porterei questo disco d’esordio dei Sacred Reich!! Dalla recensione uscita tempo addietro si era invogliati a comprare questo capolavoro solo leggendo l’ultima frase: “…i thrashers troveranno pane per i loro denti!”. Detto fatto. Tra le mie mani il prezioso pezzo di vinile che da subito “spacca tutto”! E’ necessario un solo ascolto per amarlo o odiarlo. Io lo amo! Sorprendenti quei riffs taglienti e a volte mosheggianti che non hanno nulla da invidiare ai migliori Slayer e Metallica, un drummer alla pari di Dave Lombardo e Gene Hoglan, dei testi politico-impegnati (con un “entro-copertina” che la dice lunga…) e il cantato cattivo, ma rabbioso, non da poser com’era di moda ai tempi (e anche adesso se è per quello!). Insomma un capolavoro del Thrash che dal primo brano “Death squad” e fino alla strumentale un po’ alla Metallica “Laid to rest”, passando per “Ignorance” e “Violent solutions” (senza togliere nulla alle altre canzoni!), lascia il vero thrasher incollato allo stereo per tutti i 32 minuti di durata…. Eh, speriamo che questi quattro cavalieri dell’apocalisse ammaregani si riformino come han fatto i Death Angel !! Estremamente consigliato!!
PS (Claudio) : le preghiere del Pep sono state esaudite, visto che nel 2006 il gruppo di Phoenix, Arizona, scioltosi nel 2000 dopo aver fatto uscire altri tre albums, si è riformato con la line-up proprio di “Ignorance” e, saggiamente, gira solo come live-band suonando i propri classici (un dvd di un live del 2007 al Wacken Festival tedesco è uscito lo scorso anno).
SUDDEN IMPACT “Split personality” (Lp 88)
Non ricordo perché comprai questo disco! Boh, forse per le loro fotografie sul retro-copertina, che non erano le classiche da poser-thrasher, ma erano di loro dal vivo con maglie di Metallica, Crumbsuckers e Malhavoc. O forse l’avevo trovato a 3/5 mila lire… Comunque anche riascoltandolo adesso, non rimango deluso dall’acquisto. Questi cinque canadesi [? (non ti so aiutare, mi sa che mi bocciano in Thrashologia! Penso di sì però – n.d.C.) ] facevano un onesto Thrash-Core, suonato anche benino, che fa muovere la testolina… Il drummer è decente, non eccelso, le chitarre taglienti quanto basta e la voce, seppure troppo monocorde, è cattiva al punto giusto. Una buona mezz’ora di mosh e dal vivo saranno stati ancora più fichi! Nessuna canzone è sopra le altre, forse solo la title-track è degna di nota per un buon uso della doppia cassa. Chissà se fossero stati supportati da una grossa casa discografica che figata di suoni avrebbero avuto! In definitiva, un bel disco!
PS (Claudio) : “Split personality” fu il secondo lp di questa band di Toronto (ho controllato, erano proprio canadesi: 8 in Thrashologia per il sottoscritto ;-) !), dopo un primo album dell’85 decisamente orientato sull’Hardcore, e rappresentò anche il suo canto del cigno. Dei cinque componenti non si hanno più notizie, deduco quindi che abbiano o lasciato le scene musicali o continuato in formazioni molto minori.
UGO “High Valley Black Emperor” SCARSI
(Claudio) Le prime due recensioni del black-glamster tiranese non sono degli usuali dischi minori da riscoprire (scopo di questa rubrica), bensì di due albums storici ed importantissimi nell’economia della scena Black Metal (anche se dei Bathory a questo fine sono stati forse più importanti il secondo album, “The return…”, e il terzo, il mitologico “Under the sign of the black mark”, e anche “Blood fire death”, la quarta fatica della band svedese) che chiunque osi blaterare a proposito di questa particolare branca del panorama metallico deve possedere e conoscere a memoria. Le ho inserite perché Ugo è stato un prime-mover del black metal italiano (cito per l’ennesima volta i Sagatrakavashen) ed è interessante leggere le sue opinioni a proposito di due classici del metallo nero e della situazione attuale di questo genere.
BATHORY “Bathory” (Lp 84)
Otto brani di primordiale, selvatico, spartano, veloce, occulto, misterioso, ispirato, oscuro, orrorifico, geniale Black Metal!!! Questi sono solo alcuni degli aggettivi che possono essere associati a quelle otto notturne schegge create dalla mente del compianto Quorthon (morto d’infarto a soli trentotto anni nel 2004)…ma la musica dei Bathory era ed è molto di più. Non riesco a descrivervi le sensazioni che provo tuttora quando ascolto questo disco che è stato molto importante per me e per la mia “crescita” (accanto ad altri capolavori come i primi albums di Celtic Frost, Necrodeath e Schizo). Su questo bellissimo album non si ostenta quella merdosa cattiveria fine a se stessa dei gruppi black metal odierni…ma poi il black metal esiste ancora? Che cazzo c’entrano il latex e tutte queste donnine con le facce da troie con il black metal?? Che cosa c’entra il Gothic? Che cosa c’entra la tecnologia con il suono più selvatico e primordiale che esista?? No, il vero Black Metal non esiste più! Poi se per voi black metal è Cradle Of Filth, Dimmu Borgir, (ultimi) Emperor o salcazzo cosa, allora è un altro discorso… Tornando ai Bathory, pezzi come “In conspiracy with Satan”, “Armageddon”, “Hades” e “Necromancy” sono unici nella loro ossessività. Il disco è oltraggioso (per il 1984) quanto basta: copertina raffigurante il caprone e retro con un pentacolo e una mano cornuta, tutti simboli per antonomasia dell’occultismo nel Medioevo. Nei solchi del vinile ci sono un basso oscuro, una voce misteriosa, una batteria percossa ad arte e senza troppa rabbia, e una chitarra non esageratamente distorta che dipinge tetri scenari in modo semplice ma efficace. Atmosfere sulfuree e maledette che rendono “Bathory” un disco che resterà nella storia di questo genere (forse il primo disco che si possa definire veramente Black Metal, assieme ad “Apocalyptic raids” degli Hellhammer uscito nel marzo dello stesso anno, dimenticandomi volutamente di Venom e Mercyful Fate, che non considero black metal al 100% –n.d.C.). Ricordate che il Black Metal non è uno show, non è odio e distruzione e non è blando e pacchiano satanismo, il Black Metal è mistero ed occultismo, è ciò che ci affascina ed è dentro di noi da sempre!
CELTIC FROST “Morbid tales” (Lp 84)
Loro furono la band che in gioventù più mi affascinò grazie ad un’incredibile miscela di heavy metal ed hardcore dal suono scardinante, primitivo e selvaggio. Il fantastico disco di debutto degli svizzeri Celtic Frost (di cui qui recensisco la versione in lp con due pezzi in più rispetto alla versione ep 12”) è un capolavoro, una pietra miliare del metallo occulto, un macabro riassunto di ciò che gli Hellhammer (la precedente band di Tom Warrior e Martin Ain, le due anime dei Celtic Frost) sperimentarono nei primissimi anni ’80. Il gruppo dei dintorni di Zurigo creò uno stile, il Black-Occult-Metal, e si inventò un suono: un girotondo di atmosfere cupe e musica a tratti veloce e in altri momenti tremendamente slow, eppure sempre così dannatamente distorta e tagliente. Il look del trio (a Warrior ed Ain si era unito il batterista Stephen Priestly) verteva sulla più classica ed oltraggiosa estrinsecazione della tradizione occult fatta di facce pallide, occhiaie demoniache, borchie e catene (davvero tante!). Tematiche a base di stregoneria, paure più ancestrali dell’uomo, mitologia sumera e Dei del pantheon di H.P. Lovecraft. Il disco si apre con un intro, è come se centinaia di voci spettrali cantassero una sola nota e sempre quella dentro un’immensa cattedrale. Poi di colpo l’inizio di “Into the crypt of Rays”, veloce e claustrofobica, con la voce di Tom Warrior che narrava le nefandezze compiute da Gilles De Rays (il barone francese del quattrocento che sacrificò ai demoni quasi centocinquanta bambini). Si continua poi con “Visions of mortality”, più lenta, ma sempre di sicuro effetto: una sorta di suono alla Black Sabbath passato e filtrato attraverso il metal estremo anni ’80. In un crescendo sempre più esaltante sfilano poi la magica “Dethroned emperor”, la tetra “Morbid tales”, la diabolica “Procreation (of the wicked)” e la depravata “Return to the eve” (con una parte recitata da una voce femminile). Il massimo dell’inquietudine è però raccolta in “Danse macabre”, un’orrenda litania con sgraziati violini, violoncelli, triangoli e pianoforti, che supportano con enfasi i sussurri e le grida lontane di anime senza pace erranti nel limbo, mentre una voce a dir poco raggelante ed ipnotica ripete sino alla trance “come to me, come to me, come to me…”. A chiudere questo scellerato pezzo di vinile la stupenda e velocissima “Nocturnal fear”, devastante con il suo instancabile martellamento infernale. Mentre riascoltavo per l’ennesima volta “Morbid tales” il cielo è stato coperto da nuvoloni neri come il carbone, il sole è sparito e l’oscurità ha preso il sopravvento…solo un caso?
RIPPER “…And the dead shall rise” (Lp 86)
Questo è un disco fantastico uscito nell’ormai lontano 1986 per la Iron Works (etichetta metal minore dalla California, attiva fra anni ottanta e primissimi novanta, il cui nome di punta furono i Liege Lord – n.d.C.), anche se qualche anno fa un’etichetta italiana, la Black Widow di Genova, lo ha ristampato. I Ripper nascono in America (precisamente a Houston in Texas) nel lontanissimo 1977 ad opera del chitarrista Rob Graves e della bassista Sadie Pain. Appassionati di films horror e di musica hard rock/heavy metal i due decidono di reclutare altri due bizzarri musicisti, il batterista J.D. Shadowz e il secondo chitarrista Johnny Crypt (ovviamente tutti nomi d’arte e ad hoc, per chi non l’avesse inteso! – n.d.C.), per completare l’organico di una band dalle idee e dai propositi un po’ particolari. Infatti la storia dei Ripper è molto simile a quella dei nostrani DeathSS da Pesaro. Anche i Ripper amavano i vecchi films dell’orrore e, come i loro simili marchigiani, ogni singolo musicista si era scelto un personaggio dalle tinte gotico-orroristiche, tutto proprio come in uno stupendo vecchio film della Hammer. Rob Graves era il becchino, Sadie Pain la vampira, J.D. Shadows il boia e Johnny Crypt il tristo mietitore…insomma, una bella compagnia teatrale! Bella l’immagine, ma molto interessante anche il loro heavy metal così oscuro, a volte veloce e macabramente fascinoso. Un Heavy Metal classicheggiante dalle forti reminescenze Doom e dalle tinte darkesche. Nulla a che vedere comunque con ciò che si produce oggigiorno nello stesso ambito. Il disco si apriva con la deviata “Death awaits you”, preceduta da una funerea introduzione e cantata dalla ruvida e sgraziata voce di Johnny Crypt. Interessante notare come ogni pezzo fosse preceduto da una sinistra e suggestiva intro, per le quali, e per alcuni arrangiamenti di tastiera nei vari brani, il gruppo si serviva del valente aiuto dell’amico Steve Bogle (il cui stile tastieristico ricorda molto quello tanto caro agli italiani Goblin, il gruppo prog-rock autore delle colonne sonore di alcuni film di Dario Argento). Tra il sibilo del vento, il rumore dell’acqua che scroscia furiosamente, l’inquietante soffiare di una fiamma ossidrica e il pauroso cigolio di una bara che si apre in un’angusta cripta, parte la strana ed evocativa “Sinister minister”, cantata dalla voce tranquilla ma malsana di Rob Graves. Ma la notte è appena cominciata, la luna è alta nel cielo, un urlo lacera la quiete e si continua con “Night cruiser”, canzone diabolicamente unica, recitata dalla strana voce di una Sadie Pain super-ispirata e dannatamente vampiresca. La vampira lascia poi il posto a Rob Graves, un terribile boia che si scatena nella ritmatissima “The executioner”. E se il primo lato del disco è “mostruosamente” geniale, il secondo non è da meno. Con un pezzo come “Don’t tie me down” il gruppo dal vivo probabilmente non aveva nulla da temere! Da temere casomai avrebbero avuto invece tutti quei bambini che sarebbero usciti non accompagnati nella notte del 31 ottobre, se si fosse realizzato ciò che i Ripper profetizzavano nella grandiosa e riuscitissima “Halloween” (brano molto in tema, con sinistri fruscii di piatti e chitarre taglienti come rasoi ben affilati). E così, tra ragnatele mosse dal vento, pipistrelli che volano maldestramente qua e là, lapidi sfiorate da mani scheletriche e viottoli cimiteriali percorsi silenziosamente da eteree entità, iniziava la sincopata “Wake the dead”, molto Sabbathiana nel suo lento incedere. I morti poi uscivano e camminavano dopo la mezzanotte con l’inno horror della thrasheggiante “Metal mission”, che chiude l’album di questa creatura horror-metal-glam da…paura (!!), nata in una magica notte avvolta da spesse coltri di nebbia. Procuratevi questo interessantissimo disco, ma non ascoltatelo nella notte di Halloween, se volete essere lasciati in pace…
PS (Claudio): Questo lp (preceduto da un demo dell’85) restò per lungo tempo l’unica prova vinilica del gruppo (oltre all’apparizione sulla compilation “Metal Massacre” nel volume 8), anche perché i nostri si sciolsero nel 1990. Johnny Crypt diventa Johnny Crystal e va a suonare con gli L.A. Guns a metà anni novanta. Nel 2005 la band si riforma, coi soli Rob e Sadie della vecchia line-up più due nuovi elementi a batteria e seconda chitarra. Nel 2009 esce il secondo lp, intitolato, direi anche giustamente, “The dead have rizen”, in cui compare una cover di ‘God of thunder’ dei Kiss, band che sicuramente ispirò i Ripper a suo tempo, oltre ad essere fra le fonti d’ispirazione dei primi DeathSS. Infine Steve Sylvester (all’anagrafe Stefano Silvestri), cantante di questi ultimi, ha collaborato al terzo disco dei Ripper in uscita a breve. E tutto quadra! ;-)
SLUTT “Slutt” (Lp 88)
Nella primavera del 1989 la rivista “Metal Shock” uscì con un’intervista ai quattro componenti di questo gruppo inglese: accanto alle loro foto a colori c’era un nome che mi colpì da subito: Slutt! Mi ricordai che avevo già letto di loro su un “HM!” dell’anno prima nel quale si parlava di un concerto che i nostri tennero a Katowice in Polonia, esibizione andata male, visto che il pubblico aveva tirato di tutto in loro direzione! [avendo pure io quell’ “HM!” posso dire che era un festival Thrash, in cui gli Slutt, con le loro sonorità decisamente fuori luogo e probabilmente in virtù dell’ amicizia con i concittadini Atomkraft, erano stati infilati fra le bands di apertura polacche -Dragon e Wolf Spider- e il trio di punta Exumer, Nasty Savage ed Atmokraft appunto. Non giustifico, ma posso capire il comportamento del pubblico di fede thrash/speed metal ;-) – n.d.C. !]. Iniziai da allora a simpatizzare per questi Slutt, gruppo Glam Metal ultra-borchiato davvero rispettabile. Piergiorgio Brunelli, allora giornalista di “HM!”, ne scrisse male, ma siccome tempo prima aveva parlato male anche dei mitici Wrathchild (altra grande glam-band inglese), io mi incuriosii perché sapevo che il Brunelli mica sempre ci azzeccava, anzi…! Purtroppo all’ epoca il disco non riuscii a recuperarlo e quindi decisi di mettere da parte per un po’ la faccenda, anche se ogni tanto rileggevo con entusiasmo la loro intervista e guardavo le foto: capelli sparati, cipria a vagonate, nuvole di lacca, borchie ovunque e perizomi in pelle sopra degli spandex neri e luccicanti. Questi erano gli Slutt e io cercavo di immaginare con la fantasia anche il loro suono! Nel 1999 me ne andai a Milano a vedere il festival Gods Of Metal. Prima dell’esibizione dei Motorhead salì sul palco un tizio dalla bassa statura, con capelli neri sparatissimi e pieno di borchie e pellame, che mi ricordava tanto Randy Preston, il chitarrista degli Slutt. Il glamster in questione era accompagnato da due musicisti non identificati. Fino a quel momento il Gods era stato di una noia mortale, ma quando attaccò questo birbantello con un pezzo di selvaggio rock’n’roll tutto cambiò di colpo! Lui teneva il palco in maniera incredibile, suonando e cantando alla grande. “Grandissimo!” pensai. Giuro, era l’unica vera “rockstar” vista fino a quel momento e non era neanche in programma. Abbandonò il palco dopo due o tre canzoni per lasciare il posto ai Motorhead. Più tardi lo rividi in giro tra la folla vestito normalmente, ma lo riconobbi e lo raggiunsi per dirgli quanto era stato grande (il migliore di quel pomeriggio insignificante…). Quel ragazzo era il mitico Randy Preston degli Slutt? Ancora mi girano le balle per non averglielo chiesto, eppure tutto (statura, acconciatura, vestiti, trucco) lasciava pensare che fosse lui, anche perché in un’intervista avevo letto che Randy era amico di Lemmy e guarda caso quel tizio faceva da roadie ai Motorhead, quindi… Questa cosa riaccese in me la voglia di ascoltare gli Slutt e di avere loro notizie. Chiesi in giro ad amici vari, ma nessuno sapeva niente. Poi, la sera di un mio compleanno, apro il regalo dell’Alessandra, la mia ragazza, ed ecco il tanto ricercato vinile finalmente tra le mie manine! Album che uscì per la storica etichetta Neat Records dei dintorni di Newcastle (quella di Venom, Atomkraft, Warfare, Blitzkrieg, Raven, Artillery, ecc.ecc.). Passato all’ascolto ho potuto appurare come un’altra volta il Brunelli si fosse sbagliato…e di molto anche! Grande band e grande disco. Sì, qua e là c’è qualche ingenuità per via della loro giovane età, ma il disco si erge a livelli davvero ottimi. Si tratta di vero Glam Metal come si faceva una volta, con ritornelli orecchiabili sostenuti però da una musica davvero heavy, originale e ben suonata. Il disco è veloce, sporco, ruvido ed espressivo, proprio come veniva descritto all’epoca da Kelly Wilde, il bassista. Randy Preston in questo disco suonava alla grande, coadiuvato dal basso preciso e pulito dello stesso Kelly. Jay C., il cantante, era a tratti un po’ stonatino, però il timbro della sua voce, che a tratti mi ricorda quella di Klaus Meine degli Scorpions, è molto bello ed anche abbastanza originale. Il batterista Wakko Wade si lanciava in tempi da cardiopalma senza sbagliare un sol colpo: niente stupidi fronzoli nella batteria di Wakko, solo decisione e precisione! In questo disco sono contenute delle gemme preziose e i pezzi sono tutti belli. Dalla ritmata “Angel” alla veloce e rock’n’rollistica versione del classico anni ‘50 “Blue suede shoes” (suonata dal vivo a Newcastle, la città di provenienza della band), il disco scorre senza avere cali di tensione ed è buono pure il lavoro di produzione svolto da Conrad Lant (il vero nome di, nientepopodimenochè, Cronos dei Venom!). Sul vinile ci sono pezzi micidiali come “Breakin’ all the rules”, “Twisted” e l’avvincente “T.k.o.”. Canzoni poi come “Shootin’ for love” e la dinamitarda “Moddel youth” scrivono un altro capitolo della storia di quel fantastico genere che è il Glam Metal! Brevi, coincisi ed efficaci gli assoli di Randy. Tra l’altro il gruppo non aveva sovrainciso la chitarra ritmica durante i solos, sotto rimanevano soltanto basso e batteria, ma il suono “non se ne va” quando il grande Randy parte con la solista, cosa che dimostra come probabilmente la band se la cavasse alla grande anche dal vivo! All’epoca gli Slutt furono ingiustamente sminuiti solo per il fatto che arrivarono sulle scene quando suonare Thrash Metal era molto più in voga, ma il gruppo c’era eccome e chissà cosa riusciva a combinare sopra un palco…posso solo immaginarlo per il resto dei miei giorni, visto che la band non c’è più. Me li immagino ora in quel di Newcastle (che, fra parentesi, dev’essere un postaccio infame! – n.d.C.) a fare chi il meccanico, chi a vendere fish&chips sul ciglio della strada, chi a guidare pullman o a strofinare vetri sporchi in qualche vecchia autorimessa… Un altro gruppo caduto in battaglia, un altro grande gruppo dimenticato e all’epoca ingiustamente deriso. E fece un disco eccezionale!
PS (Claudio): spariti. Cercando velocemente in rete non ho trovato nulla su di loro, a parte qualche pagina dedicata al loro unico album, questo. L’infame destino di troppi eroi minori…
SOHO ROSES “Whatever happened to…” (Ep 87)
Un altro bellissimo disco scoperto, a dire il vero, non moltissimo tempo fa grazie ad un amico che, rovistando su internet, spesso riesce a trovare vecchi e “ragnatelosi” dischi che qualche altro appassionato come noi trasporta da vinile a files mp3, rendendo così possibile la masterizzazione di interessantissimi lavori altrimenti persi nei meandri del tempo (il quale, purtroppo, scivola ignobilmente a tutta velocità…). Questo mini è quello che si può definire a tutti gli effetti un capolavoro del Glam degli anni ’80! Del vinile si parlò su un vecchio “HM!” in mio possesso e, rileggendo la recensione, devo dire che Alessandro Massara (il recensore) non ci azzeccò proprio in pieno, nel senso che non ne scrisse in termini molto lusinghieri, quando invece il disco avrebbe meritato una promozione a pieni voti! Forse è vero che non era registrato e prodotto molto bene, ma a parer mio le canzoni sono tutte degne di nota. La band proponeva un ottimo Glam-Punk-Rock dal piglio stradaiolo ed euforico, con molti cori e ritornelli davvero azzeccati. I pezzi contenuti su questo Ep a 12” (di color lampone trasparente!!!) erano ultra-trascinanti, torrenziali, veloci e bizzarri. Bizzarri perché il suono dei Soho Roses risultava divertente ed anche originale grazie ad un’esplosiva miscela rock’n’roll un po’ stile Hanoi Rocks, Sweet, vecchi Kiss, con un tocco di Punk ’77. Chitarre distorte ma non troppo, basso e batteria funambolici, e una voce a volte un po’ roca e a volte così deliziosamente melliflua ed accattivante (Paul Blittz era un vero cantante glam-rock con un pedigree di tutto rispetto, oltre ad un look ultraglam veramente allucinante). I pezzi sono solo quattro: “Cos of you” in apertura è una canzone che gente come Kiss o Sweet sarebbero stati fieri di aver scritto, “Crazy about me”, veloce e straripante di allegria, si affianca alla stupenda ed indovinatissima “Just a girl”, per concludere poi con la bellissima e gioviale “Sweet sixteen” che vi renderà un po’ di quell’adolescenza smarrita strada facendo! Questo “Whatever happened to…” è un disco che dovreste procurarvi come ottimo rimedio contro depressione e tristezza. E già che ci siete riempite la vostra casa di palloncini colorati e lecca-lecca “fragolosi”, vestite la vostra donna con solo un boa di piume bianche e con un paio di zeppe rosse super-arrapanti, e date il via alla vostra festa, ovviamente con i Soho Roses a manetta come colonna sonora…e buona tromb…ehm, buon divertimento! Ah, dimenticavo, i Soho Roses, come da nome, sono inglesi (di Londra, appunto) e si sente! Il glam inglese è sempre meglio di quello americano.
PS (Claudio): questo Ep era stato l’esordio dei Soho Roses, che fecero poi un secondo mini seguito da un Lp (con cover di ‘What do I get’ dei Buzzcocks a marcare le loro notevoli influenze Punk ’77), prima di chiudere la baracca già nel 1989. Dopo lo scioglimento il bassista Joolz e il batterista ne(g)ro Pat suoneranno in una delle prime formazioni dei Wildhearts e poi nei Guns’n’Wankers, progetto punk-rock-british-style capitanato da Duncan degli Snuff. Il chitarrista Andy militerà in punk bands molto minori, mentre Blittz formerà gli effimeri Silent Tears per poi ritirarsi dalle scene.