Trilogia della repubblica autoproclamatasi indipendente di K.

di Rocco D.N.

Atto I: aprile 2006

“Regina di periferia con gli occhi della rabbia e dell’arcobaleno che non conoscono la destinazione e che mi dicono buon viaggio, lacho drom”

 

(Litfiba – “Lacho drom”)

 

E’ un piacevole mercoledì pomeriggio di inizio primavera e, non senza fatica, cerco di chiudere il mio zaino che per l’ennesima volta pare troppo piccolo per contenere tutto quello che mi sono proposto di infilarci. Qualcosa in questa tasca, qualcos’altro nell’altra tasca, il sacco a pelo lo lego fuori. Tiro la cordicina con decisione, chiudo i lacci e guardo con soddisfazione l’opera completata. Un istante dopo suona il campanello. E’ l’amico Giulio. “Scendi”, mi dice. Carichiamo gli zaini in macchina e partiamo. Ci aspetta un viaggio lungo e faticoso come un disco dei Dream Theater. Da affrontare con tanta pazienza, la voglia di stupirsi, un buon libro e qualche chiacchiera. Destinazione: Mitrovica, Kosovo. Il buco del culo d’Europa. Uno sputo di terra tra la Serbia e l’Albania, qualche montagna, un po’ di colline qua e là, un paio di fiumi inquinati all’inverosimile, pianure mal coltivate. Una terra mal governata, da (quasi) sempre. Eppure una terra che ha visto da mezzo millennio a questa parte svariati eserciti combattersi fra loro per la sua spartizione. Seicento anni fa la resistenza dell’Europa cristiana contro i cattivoni persiani musulmani. All’alba del ventesimo secolo la conferma che nulla si è imparato dalla storia, se non le tecniche e le teorie per commettere un genocidio, l’ennesimo in quelle terre, di fronte alle telecamere di mezzo mondo e dopo lo sdegno della comunità mondiale davanti all’eccidio di Srebrenica, qualche centinaio di km più a nord, dinnanzi al quale tutti ma proprio tutti (pure le nostre tristissime popstar) gridarono all’unisono “Mai più”. Giulio è ormai un esperto dell’area, io sono al primo viaggio ma da mesi leggo libri, guardo documentari, ascolto musica per capire. Giulio tifa Palermo, e questo glielo posso perdonare, ma perdio non gli perdono di certo le sue terribili lacune musicali del tipo “Ah sì, fighi i Caliban, anche i Converge. Che dici, i Minor Threat? E chi sono? I Negazione? No, mai sentiti nemmeno di nome”. Eccolo il Ducato 9 posti che ha il compito di accompagnarci all’altra sponda dell’Adriatico a mò di Caronte. Sorpresa… sulla fiancata a caratteri cubitali la scritta “Misericordia di Segrate”. Sì, e spero che la Misericordia di Segrate, o di Vergate sul Membro o di cazzopuffo ci assista dall’alto dei cieli perchè questo catorcio non è messo benissimo. La conferma ci arriva anche da un tossico della Stazione Centrale poco più tardi, che ci avvicina dapprima per cercare un posto dove passare la notte, poi quando gli spieghiamo la faccenda del viaggio, che il pullmino non è nostro e che stiamo partendo per il Kosovo, questo sbotta qualcosa del tipo: “secondo voi questo rottame ci arriva in Kosovo?!”. Segue un buon quarto d’ora di toccate di palle, anche reciproche… Dunque si parte. Da molto ho in testa di compiere un viaggio simile e ora che sono sul pullmino con altri otto personaggi sono proprio contento. So che sarà un’esperienza forte, ma sono pronto a gettarmici di testa con un triplo carpiato alla Di Biasi dei tempi d’oro. Con chi parto? Bella domanda. Attorno a me appunto otto personaggi più o meno legati a un’Associazione Onlus con base a Milano che opera a Mitrovica da parecchi anni, ovvero da quando il Kosovo era disseminato di Onlus e associazioni di volontariato, pronte poi, una volta spenti i riflettori mass-mediatici sui Balcani, a fare in fretta le valigie per portarsi un po’ qua e un po’ là, lasciando l’area al delirio della gestione Unmik e Kfor (ovvero rispettivamente il contingente politico e quello militare delle Nazioni Unite di stanza in Kosovo) e alle mire colonizzatrici a stelle e strisce. Una Onlus, ovvero organizzazione non lucrativa a utilità sociale. Gente che fa tutto questo per hobby, per passione, perchè si sente in dovere in qualche modo di farlo e per altri motivi che indagherò nei giorni a venire. Questa gente conosce bene il Kosovo, non solo inteso come problema, ma soprattutto inteso come regione con le sue persone, le sue storie, il suo possibile futuro. E ben consapevoli di tutti i limiti che possono avere queste organizzazioni e qualsiasi tipo di appoggio assistenzialistico, oltre che consapevoli della fragilità di tutta quell’area, considerata la polveriera d’Europa. Partiamo da Milano in diciotto persone, due pullmini stracarichi. Alcuni arrivano da Roma e altri da Torino, umanità varia e variopinta. Sbarbatelli (e in questa categoria mi ci metto al volo), giovani dirigenti d’azienda, signore su d’età, buone madri di famiglia, un primario (uno dei due capi della spedizione), un paio di dentisti, un giovane giornalista (che poi si rivelerà uno spaccamaroni attirando su di sé tutte le antipatie del gruppo), una signora dai quarant’anni passati con i capelli biondo tinti che fuma il sigaro. In tangenziale est ovvero dopo dieci minuti dalla partenza il giornalista (“terrorista”, cit.) inizia a tempestare di domande chiunque, in particolare me e Giulio che avevamo preso l’ultima fila dei sedili credendoci così, rivangando vecchi ricordi del passato scolastico, al riparo dai secchioni e dai nerds. Ma il viaggio è lungo e lo spazio ristretto. Non si sfugge all’obbligo di socializzazione, soprattutto se non hai un lettore mp3 o cd che sia. E io ce l’ho, ma con le batterie scariche. Un po’ come quando ti ritrovi sui treni a lunga percorrenza tipo il Milano-Crotone nei mini scompartimenti da sei e all’inizio nessuno parla, poi quando si rompe il ghiaccio non c’è scampo, e di solito tra gli altri cinque ci sono una suora e un militare in congedo. Fortunatamente i ritmi biologici fanno il loro dovere e tutti crollano in piena Slovenia. Dopo qualche ora di sonno, proprio mentre mi sta andando in cancrena un ginocchio per via della posizione da mago Houdini che ho adottato per riuscire a dormire, Giulio mi sveglia per farmi ammirare l’alba su Zagabria. L’autostrada passa sopra la città illuminata da uno splendido colore roseo, i quartieri periferici ci guardano immobili mentre noi corriamo, corriamo sull’asfalto nero con a fianco una Golf scassata e stipata all’inverosimile di frutta e verdure, guidata da un vecchietto senza denti che tenta un improbabile sorpasso. “Benvenuti nei Balcani” sembra dirci il vecchio con quella sigaretta in bocca. E’ in questo momento che ho un’illuminazione, mi rendo conto dove sono, realizzo dove sto andando. I Balcani, poesia e animalità, sacro e profano, amore e odio. Qualcuno disse che la gente dei Balcani sa amare e uccidere con la stessa passione. “Scendere a Sud”. Era il titolo di un disco dei cosentini N.I.A. Punx. E qui più scendiamo a Sud e più mi sembra di essere catapultato in un altro mondo. In Italia anche se scendi a Sud ci sono gli autogrill con le statuine di Padre Pio e il salame ricoperto di pepe a fare da bussola per l’orientamento. Per quanto l’autogrill di Novara sia profondamente diverso da quello di Salerno, il salame con il pepe lo trovi in entrambi, per cui possiamo dedurre che siamo entro gli stessi confini politico-amministrativi-linguistici. Qui invece no. Anche perchè l’ultimo autogrill era alla fine della Croazia. Da Belgrado in poi niente…niente più autostrada, niente più caselli, niente più corsie di sorpasso, niente autogrill…solo una strada stretta stretta che collega Belgrado a Prishtina, capitale del Kosovo, con tante buche, tante curve e una fatica boia per sorpassare i carretti trainati dai cavalli che incontriamo nei pressi dei piccoli villaggi di questo Sud. E ci aspettano ancora parecchie ore di viaggio. Attraversiamo Belgrado in una soleggiata mattina, qui è il trionfo dell’architettura socialista, palazzoni enormi, stradoni che tagliano la città, gente indaffarata o che aspetta impaziente il bus. Ha l’aria di essere una bella città Belgrado, e di sicuro lo è stata e lo è tuttora. Dopo due-tre ore arriviamo sul confine Sud della Serbia. La frontiera Serbia-Kosovo fa brutto, davvero brutto. Sarà che è sulla cima di un valico che si chiama Merdare, sarà che qui ho utilizzato il cesso (un Toi-Toi di plastica) più sporco che mi sia capitato di vedere, sarà che le facce dei militari sono brutte, le loro divise sono malconcie, i loro sguardi sono davvero poco amichevoli. Poi da lì si scende verso Prishtina passando dalla piana dei Merli (Kosovo Polje in lingua locale), la famosa piana dei Merli, dove seicento anni prima l’esercito serbo si immolò per impedire l’invasione della bianca Europa da parte dei persiani, subendo una sconfitta che ancora oggi fa piangere i Serbi, e qui in primavera i fiori sono rossi, così almeno dicono loro, perchè lì è rimasto il sangue degli eroi della patria serba. Piana che poi è diventata parte del territorio kosovaro, anzi ha visto nascere la regione kosovara (Kosovo vuol dire appunto qualcosa tipo piana o prati dei merli). E sempre qui Milosevic scatenò la furia della popolazione serba contro i traditori kosovari in uno dei suoi famosi comizi. Queste terre sono un mix incredibile di storie e di simboli: la più piccola collina o il più insignificante villaggio di contadini possono nascondere un delicato insieme di simboli e significati che da secoli sono il pretesto di rivendicazioni, di accuse, di scontri. E’ qui che si tocca con mano il pericolo dell’odio etnico/religioso e l’idiozia di chi lo fomenta. Prishtina è una grossa città, dobbiamo passare per il centro a ritirare i visti. E’ un’animata mattina di primavera, con il sole e tanta gente nelle strade. Da lontano vediamo la famosa gigantografia di Bill Clinton che domina la città dall’alto di un palazzone al quale è affissa. La via centrale si chiama Bill Clinton Avenue, colui che tanto volle l’intervento militare in Kosovo per far cessare l’assedio serbo, qui c’è l’ hotel Victory con una riproduzione della Statua della Libertà sul tetto. I signori anziani portano tutti il classico zuccotto bianco in testa e ci guardano senza denti dai numerosi bar all’aperto mentre sorseggiano il loro splendido caffè turco. Contraddizioni su contraddizioni, eccole esplodere. A volte fanno ridere, a volte mettono tristezza, ma non lasciano mai indifferenti, questo è certo. Mitrovica non è lontana da Prishtina, un’oretta, ancora un po’ di pazienza…per il pomeriggio dovremmo arrivare. Pensavo proprio questo mentre sulle colline poco dopo Prishtina il motore del Ducato inizia a fare strani rumori, un po’ di fumo e infine la morte. Non riparte. La misericordia di Segrate ci ha voltato le spalle. Il tossico in Centrale con la sua profezia ha messo k.o. con una serie di colpi ai fianchi la Misericordia di Segrate, la Madonna, Giuseppe, il Signore padre nostro santissimo, il bue e l’asinello. E’ il trionfo del profano sul sacro, del rock’n’roll sul canto liturgico, del Tavernello sul vin santo. L’altro furgone, fortunatamente ancora funzionante, ci trascina fino ad un meccanico che troviamo sulla strada. Sembra ben fornito, una bellissima officina dell’Alfa Romeo con tanta forza lavoro pronta ad aggiustare in un baleno il nostro furgone. E invece no, o meglio il furgone ce lo aggiustano, ma per farlo smontano qualsiasi parte del furgone impiegandoci tutto il pomeriggio. Si riparte che è il tramonto. Il tramonto del giorno prima partivamo da Milano. 24 ore di viaggio e ancora ne manca una, la peggiore per la mia malandata schiena reduce da una discotomia lombare L5 S1 (leggasi: operazione chirurgica per un’ernia al disco in fondo alla schiena poco sopra il culo), le due ore nel cuore del Kosovo tra voragini nell’asfalto e curve da gran premio. E il Kosovo degli ultimi dieci anni è lì tutto da guardare; nelle case distrutte e poi rifatte un po’ come venivano, nelle case distrutte e mai rifatte, nei bambini ai lati della strada che ti guardano divertiti, nelle montagne di rifiuti e detriti ammassati qua e là, nelle basi ormai abbandonate dell’UCK (l’esercito paramilitare di liberazione del Kosovo). E’ sera quando arriviamo a Mitrovica. Sono stanco, ho mal di schiena, ho fame e forse mi scappa la cacca. Parcheggiato il maledetto furgone che ormai odio alla pari del nazismo e della Juve, dobbiamo scaricare un intero rimorchio di un tir carico all’inverosimile di qualsiasi cosa preferibilmente ingombrante e pesante. Dobbiamo scaricare il tutto e stiparlo in un magazzino grande la metà del rimorchio dove oltre alle merci devono stare a dormire diciotto persone (ovvero noi) e i loro bagagli. Che sballo. Solo dopo tre ore riusciamo a portare a termine il lavoro, mangiare un piatto di pasta preparata nella minuscola cucina e ben innaffiata da vino e birra. E per concludere faccio conoscenza della letale Rakia, la grappa locale, vero e proprio monumento balcanico, l’elemento che forse più di ogni altro accomuna i popoli aldilà dell’Adriatico. Il mio letto è una brandina pieghevole messa a fianco dei fornelli. Sono sicuro che qui dormirò da dio per i prossimi giorni, soprattutto se andrò a letto con tutto quest’alcool nelle ossa.

 

Atto II: aprile 2007

“Fai la ninna bimbo finché ti credi in salvo, il tuo benessere qualcuno doveva pur pagarlo. A distanza di gommone, a trenta miglia di mare, puoi anche andare in gita lì a guardare che effetto fa morire”

 

(Assalti Frontali – “A trenta miglia di mare”)

 

C’è una canzone nella mia testa che continua a risuonare, mi tormenta. “Radio Assalti parla”, continuo a ripetermi “su tutte le bande, sul cielo rovesciato della Serbia la terra urla: ferma la guerra…”. Sono di nuovo in Kosovo, steso dalla Rakia e da venti ore di furgone, su una brandina malconcia all’interno di un magazzino polveroso e pieno di scatoloni e mobili da assemblare. Di nuovo. E’ passato un anno esatto dallo scorso viaggio. Attorno a me altre persone; alcune dormono, altre fumano, altre ancora parlottano sottovoce. Un sole pallido che filtra prima dai vetri e poi si fa spazio tra gli scatoloni ammassati ci sveglia. E’ il primo giorno di questa settimana kosovara. Non c’è tempo da perdere, un caffè veloce al bar, il tempo di incrociare gli sguardi incuriositi delle persone che incontriamo tra i tavolini all’aperto e già siamo in piena attività. Che facciamo? Dunque, prendiamo un pò delle cose che abbiamo stipato nel magazzino, le infiliamo su due furgoni e giriamo questa strana città consegnando nelle case che visitiamo sacchi di farina, piastrelle, mobili, biciclette, chitarre, libri, quaderni e ogni altro ben di dio regalato da famiglie benestanti della ricca e annoiata Brianza e dell’hinterland milanese. Qui non ci si annoia di certo. Alla luce del sole Mitrovica mi appare con tutta la sua assurdità. Davanti a un buon caffè turco (che figata il caffè turco, bello brodoso con tanto fondo) Giulio, lui che parecchie altre volte è stato qui, mi parla di questa apparentemente tranquilla cittadina. E’ la seconda città del Kosovo, città multietnica da sempre, kosovari musulmani e di lingua albanese vivono da sempre insieme ai serbi, cristiani ortodossi e di lingua slava. Così come Sarajevo in Bosnia e Belgrado in Serbia, anche qui in Kosovo Tito fino agli anni ottanta è riuscito a mettere in pratica efficacemente l’idea della convivenza multietnica per il bene comune della Federazione Socialista Jugoslava. Poi vennero gli anni novanta, venne l’esplosione dei fondamentalismi etnici e venne la fine di una straordinaria convivenza durata decenni, servendoci tra l’altro una triste profezia di quello che sarebbe successo, su scala mondiale, qualche anno più tardi. Nessuno allora, ai primi scontri, alle prime rivendicazioni riuscì ad immaginare anche solo lontanamente in che spirale di violenza si sarebbero poi cacciati i Balcani, e un decennio più tardi il mondo intero. Uno sguardo a questa città insegna ben più di qualsiasi libro. La città è tagliata in due da un fiume, l’inquinatissimo Ibar, la zona sud è quella messa peggio, dove sono più evidenti i segni della distruzione e della difficile ricostruzione. E’ la zona abitata dai kosovari di etnia e di lingua albanese, con la moschea e il suo muezzin, i locali che servono tè e caffè, il caratteristico mercato pieno di vecchi uomini con il classico cappello a zuccotto bianco e ovunque lapidi e targhe commemorative che recano l’immagine di giovani guerriglieri dell’UCK e la bandiera albanese che sventola nell’aria. Nella piazza principale la riproduzione a grandezza naturale (e quindi alta si e no un metro e mezzo, come un panò tagliato, direbbe un muratore valtellinese) di Madre Teresa di Calcutta, il personaggio albanese più famoso al mondo alla pari, dico io, di John Belushi. Sul fiume passa un ponte: venti metri presidiati dai caschi blu dell’Onu oltre il quale si estende Kosovska Mitrovica, la Mitrovica serba e ortodossa, che ha come punto di ritrovo il bar “Dolcevita”, covo degli estremisti serbi e più volte fatto saltare in aria. Questa parte è una città che assomiglia nei suoi palazzoni di periferia e nella facce delle persone a una città dell’Est Europeo. Ad animare queste strade bar e insegne di birre, tabaccai, macchine improbabili, uomini anziani, caratteri cirillici, donne con le gambe lunghe e dai lunghi capelli biondi, bambini vivaci e giovani con la passione per Dj Coccoluto e Gabry Ponte (come Nino, nostro interprete serbo). Tra le due zone che prima della guerra erano ben amalgamate, l’incomunicabilità totale, le lapidi abbandonate dei serbi nel cimitero della zona albanese e viceversa, due lingue diverse, gli Euro da una parte e i Dinari dall’altra, targhe automobilistiche diverse, arsenali di armi nascoste, qualche centinaio di morti per parte, e non odio, ma tanta diffidenza e l’orgoglio, o la testardaggine, di non voler mai abbassare la testa di fronte a quello che ora è il nemico mentre qualche anno prima era il vicino di casa o il compagno di scuola. Qui la città è viva, più viva di un qualsiasi mercoledì mattina nei quartieri milanesi della Barona o del Gratosoglio. La disoccupazione sfiora il 40%, la gente passa le proprie giornate in strada, strade che quasi mai portano novità rispetto alla solita routine quotidiana. Un pullmino carico di ricchezze varie guidato dai ricchi (solo in confronto a loro) italiani genera fermento nella città. Al nostro passaggio la gente urla il nome di questo o di quell’altro giocatore (i più gettonati Shevchenko e Adriano, anche se il Pupone Totti si difende bene), gruppi di bambini ci inseguono entusiasti correndo o pedalando su scassatissime bici. Ogni tanto al bar bevendo il solito caffè turco capita di incontrare qualcuno che è stato in Italia a lavorare e un ricordo tira l’altro… Il clima nel nostro gruppo è ottimo e sereno. Fatichiamo molto durante il giorno e la sera ci svaghiamo dalle brutture viste andando a mangiare nei pochi ristoranti della città. Per i carnivori è davvero difficile resistere alla tentazione del piatto nazionale, lo Skandenberg, un mega polpettone che deve il suo nome all’eroe nazionale albanese, ma per la cui forma sarebbe stato più opportuno il nome Stronzenberg. Anche per i vegetariani ci sono ottime prelibatezze, su tutte il Borek al formaggio di capra. E poi birra, vino e l’immancabile Rakia. Nella zona serba ci sono addirittura un paio di discoteche, una è grande quattro metri quadrati e spara i Ramones a manetta. L’arredamento è stato portato qualche anno prima direttamente dalla Brianza. Ci allontaniamo da qui in dodici su un furgone da nove posti, tre di noi si nascondono sotto i sedili al momento del controllo dei soldati sul ponte. Quando la sera arriviamo al campo base tutti hanno voglia di farsi una bella doccia, ma l’acqua a volte non c’è e la corrente c’è solo per qualche ora al giorno. Ciò vuol dire che farsi una doccia calda è una combinazione quasi impossibile perchè presuppone che ci siano l’acqua e la corrente che la scaldi. Non sono mai stato bravo in matematica, ma la percentuale di riuscita posso dire con certezza che è alquanto bassa. Un giorno partiamo di buon ora con un furgone per andare a Kotlina, attraversiamo tutto il Kosovo, passiamo davanti alla base di Kacanik, la base militare americana più grande d’Europa, qui gli americani possono fare veramente quel cazzo che vogliono, hanno abbattuto delle colline per costruirla e pare che all’interno ci siano dei missili puntati su Iraq e Iran. Kotlina è un piccolo paesino di un centinaio di anime arroccato sulle montagne del Kosovo meridionale. Qui c’è un ambulatorio dentistico gestito da dei volontari dell’associazione. A collegare il piccolo paese con il resto del mondo ci sono una decina di km. di strada in terra battuta che s’arrampica su per delle montagne poco accoglienti. Tutti i bambini del paese sono lì che ci aspettano, gli uomini adulti sono pochissimi, la maggior parte di loro è seppellita in una fossa comune poco sopra l’abitato. A segnalarne la presenza una bandiera albanese e il gesto commosso di un ragazzo mio coetaneo che me la indica con il dito. Le milizie serbe sono salite quassù una sera di qualche anno fa cercando dei guerriglieri dell’UCK che qui si nascondevano e hanno raso al suolo il paese. Catturarono gli uomini del paese, li ammazzarono e li seppellirono in una fossa comune, consumando così una strage di più di cinquanta civili. Alla fine del conflitto, quella fossa fu localizzata grazie alla testimonianza di un ragazzo che, nascostosi in cima al minareto del villaggio, aveva assistito impotente alla tragedia che si consumava sotto di lui; questo ragazzo è ora uno dei testimoni d’accusa al processo dell’Aja contro Milosevic per crimini di guerra. Trenta orfani di guerra vivono ora a Kotlina assistiti dai loro parenti, adottati in realtà da tutta la comunità. Ora c’è una scuola, qualche casa qua e là, il negozietto di alimentari più triste del mondo, tanto fango e un campo da calcio dove chiaramente si improvvisa la più classica delle sfide calcistiche delle vacanze: italiani vs. locals. Perdiamo anche perchè noi eravamo in sette e i locals almeno una ventina con una età variabile tra i 7 e i 50 anni. L’ ultimo giorno a Mitrovica abbiamo poco da fare. Preparare i bagagli e salutare i conoscenti. Mentre sistemiamo le camere e puliamo i pavimenti, Paolo, un ragazzo di Torino col quale in questi giorni ho bevuto un’infinità di birre Peja, inizia a canticchiare una canzoncina che fa così: “Ultras italiani tutti su le mani, basta con le lame…”. Mi volto verso di lui. “…basta con gli infami!!!” concludo con tempismo perfetto. Lui mi guarda sorpreso, io lo guardo ancora più sorpreso. I Gradinata Nord che dalle umide cantine di Morbegno passano dalla motorcity italiana per finire poi in Kosovo, questa proprio non me l’aspettavo. Così come Paolo, il ragazzo torinese, evidentemente non si aspettava di trovarsi di fronte il vicino di casa, roadie del primo tour italiano e sostenitore della boy band valtellinese per antonomasia. Ripreso dalla shock dedico un po’ di tempo allo shopping. Per tre euro compro una bottiglia di Rakia. A distanza di qualche mese è ancora lì, sulla mensola di casa mia, solo pochi temerari hanno saputo affrontarla a testa alta. Per altri tre euro prendo un cd di musica locale. Una nenia inascoltabile. Quando vado all’estero spesso compro la maglietta della squadra di calcio della città. Ci provo anche qui e alla mia domanda l’omone che fa il commesso in un malmesso negozio di articoli sportivi esclama divertito: “Kosovo football team?”. Io gli rispondo con un fragoroso “Yes!”. Quell’altro invece ride e tira fuori da un cassettone le magliette tarocche di Totti, Shevchenko e Adriano. Le mie illusioni si infrangono quando mi dice “Only italian football, forza Milan!”. Esco tramortito e mi incammino alla ricerca questa volta di un regalino caratteristico da portare alla mia dolce metà. Di caratteristico trovo solo un pacchetto di caramelle alla menta marca “Mario”, con tatuaggio farlocco annesso. Spettacolo. A distanza di mesi anche queste sono ancora lì, il tatuaggio se n’è andato via al primo lavaggio portandosi con sè anche un pezzetto di pelle. Chiaramente non manca una visita veloce allo stadio locale, intitolato ad Adem Jashary, uno dei guerriglieri a capo dell’UCK, poi ucciso con tutto il suo clan familiare. Lo stadio mi compare alla vista nascosto da una collina di detriti, dove alcuni cavalli se ne vanno alla ricerca di qualche filo d’erba tra una carcassa di macchina e immensi blocchi di cemento. Un’immagine degna dei film di Kusturica. Nello stadio non entro e non so nemmeno se sia aperto, mi fermo per un attimo a guardare il cancellone d’ingresso, immaginandomi i fiumi di persone colorate che cantando entrano a riempire la curva in occasione del sentitissimo derby con la squadra di Pristina, o di Pec o di Prizren… Il viaggio di ritorno è lungo e faticoso come il viaggio di andata e, ribadisco, come l’ascolto di un disco dei Dream Theater. Siamo tutti stanchi, svuotati, desiderosi di arrivare nelle nostre belle casette, ma anche terrorizzati, almeno il sottoscritto, dall’avvicinarsi di quel famoso quieto vivere tanto odiato dai punks di mezzo mondo, della ripresa della routine settimanale. Eccola, dopo una ventina di ore, la tangenziale est. Macchine-rumore-gente-il Sole 24 Ore-il cellulare che inizia a squillare-l’uscita Lambrate-i cartelli della metro. Nessuna evasione è possibile, avevi ragione compagno Serge. Il primo contatto con un produttivissimo e milanesissimo martedì mattina è terribile. Già lo sapevo, ma non potevo immaginarlo. Nemmeno una doccia calda e i saluti dei miei coinquilini riescono a farmi sentire meglio. Oggi pomeriggio lavoro. Ho un appuntamento alle due alla metro di Romolo con uno dei ragazzi che si ritrovano il sottoscritto come educatore. Prima devo andare all’Esselunga a prendere un paio di cose. Attraverso la strada e quasi un tassista m’investe perchè non stavo attraversando sulle strisce. Alla cassa una signora davanti a me se la prende con la cassiera che secondo lei perde tempo a parlare con le sue colleghe. Pago quelle due cose pensando per l’ennesima volta che il mio conto in banca è depresso come il titolo Alitalia in borsa. Scendo in metro e tre controllori hanno accerchiato un maghrebino senza biglietto e probabilmente senza permesso di soggiorno… Da qualsiasi latitudine lo si guardi il mondo è davvero una gran brutta cosa. Addio Kosovo bello…

 

Atto III: aprile 2010

“Banditi senza tregua, andrem di terra in terra a predicar la pace ed a bandir la guerra: la pace tra gli oppressi, la guerra agli oppressor”

 

(Pietro Gori – “Addio Lugano”, anno 1894)

 

Non mi sono mai piaciuti gli addii. Non si addicono a chi fatica a prendere le cose troppo seriamente. Gli addii sono impegnativi, prevedono decisione e forza di volontà. Prevedono una posizione rigida e senza possibilità di ripensamenti. Meglio un arrivederci. E’ più scanzonato, più leggero, passa più inosservato e non richiede grosso impegno. Più facile avere come obiettivo il rivedersi che il sottrarsi. Quando meno me lo aspetto arriva una telefonata dell’amico Giulio. Sto pedalando in bici lungo Via Padova, Milano, in un serenissimo pomeriggio che in direzione nord regala agli appassionati del genere la cima della Grignetta e i suoi profili tormentati. “Hey Rocco, che ne dici di una settimana in Kosovo? Si partirebbe tra quindici giorni.” Prendo tempo, faccio due calcoli e quattro ragionamenti. Ma davanti a queste proposte non si ragiona. Bisogna seguire l’istinto. E penso che se Giulio me l’abbia chiesto così a bruciapelo è perchè c’è di mezzo qualcosa di fatalistico. Il destino, potrebbe essere. O qualcosa che gli assomiglia. Me l’ha chiesto e non ho saputo dire subito no. Quindi vuol dire che in Kosovo ci voglio andare, nonostante tutto. Nonostante la puzza delle strade, le case polverose e umide, la corrente e l’acqua che non ci sono, nonostante i bambini malati e orfani, nonostante le vedove di guerra, nonostante la possibilità di condividere degli spazi con assassini e di incontrare nei bar criminali della peggiore specie. Cosa mi spinge aldilà dell’Adriatico dopo tre anni dall’ultimo viaggio? La risposta non arriva. Nemmeno nel luogo eletto più di ogni altro a suggerirmi risposte: il bosco primaverile sul quale corrono i miei piedi tace, così anche il granito nudo delle rocce sulle quali il mio corpo si aggrappa. Non rimane altro che tirare i lacci e chiudere lo zaino, buttarlo nel bagagliaio di un Fiat Doblò la cui tenuta di strada è davvero imbarazzante e scendere a Sud… Trieste, Slovenia, Croazia, Serbia, Valico di Merdare, benvenuto in Kosovo. Millequattrocento chilometri, sedici ore e un bel po’ di caffè dopo, scendo dal Doblò sgranchiendomi tutto ciò che si può sgranchire. I compagni di viaggio questa volta sono stati un professore calabrese e tre suoi alunni diciannovenni, per la prima volta fuori dall’Italia. Invece di andare in gita a Praga, come hanno fatto i loro compagni, si sono lasciati trascinare dal prof. Giovanni in Kosovo. Probabilmente sedici ore fa non sapevano nemmeno dove si trovasse il Kosovo sulla cartina. Non sapevano nemmeno, sedici ore fa, che alla frontiera i soldati serbi ti chiedono il passaporto imbracciando un mitra. Ma sono dei ragazzi davvero simpatici loro, si stupiscono di qualsiasi cosa: dei prati verdi della Slovenia, delle divise da cameriere delle guardie croate, della gente che aspetta l’autobus alla periferia di Belgrado, delle buche nelle strade e dei carretti trainati da asini che ci costringono a sorpassi azzardati. E si sorprendono anche delle mia risposta alla loro domanda più urgente: “Ma in Kosovo si ficca?”, mi chiedono infatti non appena saliti sul Doblò. La mia risposta è una grossa risata, che si fa ancora più grossa quando li vedo esibire una scatola di preservativi comprati la sera prima. La grossa novità è questa e chiedo scusa ai lettori se vi annoio con lezioni di storia contemporanea: febbraio 2008, il Parlamento di Prishtina, riunito in seduta straordinaria, ha approvato la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo letta dal premier Thaci e ha battezzato la bandiera e lo stemma come suoi simboli nazionali. Dieci minuti dopo il governo serbo di Belgrado ha dichiarato illegittima la proclamazione. Sono seguiti un paio di giorni da reality televisivo, tra chi entra in nomination e chi no, chi riconosce il nuovo stato e chi no. L’Italia ha deciso di riconoscere il nuovo stato Kosovaro, sostanzialmente monoetnico e con un’economia basata sulle rimesse dall’estero, in compagnia di Albania, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania e molti altri. Per il no assoluto ci sono, oltre alla Serbia, tutte quelle nazioni che devono fare i conti al proprio interno con spinte secessioniste ed indipendentiste: Russia, Spagna, Cina, Grecia e altre. Il consiglio di sicurezza dell’Onu per l’ennesima volta decide di scontentare tutti per non accontentare nessuno, rimane valida la risoluzione n. 1244 per la quale il Kosovo è territorio a sovranità serba con ampie autonomie da Belgrado. Insomma, un bel pasticcio diplomatico: uno stato non riconosciuto da altri stati, tra cui quello confinante, e da quel 5% della popolazione serba che abita qui da secoli che manterrà la sua moneta, la sua lingua, le sue scuole, le sue targhe sulle macchine. Total Chaos, direbbe un punkabbestia degli anni novanta. I segni di questa acrobatica indipendenza sono ben evidenti all’arrivo a Mitrovica. Una bandiera nuova, blu e gialla, fa compagnia fuori dalle case alla bandiera albanese, a quella stelle e strisce e alla bandiera dell’Unione Europea. Desiderio di appartenenza, si direbbe a prima vista. La moneta rimane l’euro, le targhe delle auto finiscono per KS e i soldati dei contingenti esteri hanno lasciato il controllo del territorio ai loro colleghi kosovari. Non prima però di averli addestrati per bene. Per Mitrovica infatti girano dei poliziotti che sembrano usciti da una puntata di Baywatch: hanno scarpe da basket e pantaloni blu corti, una maglietta attillata, un fischietto in bocca, occhiali da sole, caschetto e una mountain-bike all’ultima moda con cambio shimano. Stonano qui, patria delle Bmw anni ottanta ribassate, oltre ogni possibilità di stonatura. Mitrovica kosovara appartiene alla nuova nazione. Mitrovica serba appartiene come sempre a Belgrado. Basta attraversare il ponte sull’Ibar, camminare venti metri per lasciarsi alle spalle la zona albanese e arrivare ad incontrare i primi bar della zona serba. Venti metri a piedi e la birra va pagata in dinari e non euro, per salutare la gente si dice ‘Doberdan’ e non ‘Mir dita’, le bandiere esposte sono quelle serbe, l’alfabeto ha caratteri cirillici. ma nonostante l’incomprensibilità linguistica ben si comprendono le scritte sui muri contro l’Unione Europea, gli Stati Uniti e i vicini albanesi. Una città, due mondi. Ma ovunque le stesse identiche espressioni che parlano la stessa lingua. Quella della fame, della miseria, della disperazione, dei bambini senza futuro. Gente più vicina al mondo dei morti che al mondo dei vivi. Che vengano qui i vari Borghezio, Calderoli, Bossi. Che vengano qui a dire in faccia a un bambino orfano di guerra, epilettico, denutrito, che se ne deve stare a casa sua…che vengano qui a dire a un uomo della loro età che non sa come fare a mettere in tavola pranzo e cena ai suoi tre figli da quando la fabbrica dove lavorava è chiusa perchè i bombardamenti hanno seppellito, oltre alle sue speranze, anche qualche suo collega…vengano qui se ne hanno il coraggio a vedere quali atrocità generano gli slogans gridati ad alta voce…cari miei, non è un gioco a chi la spara più grossa. Davvero incredibile e doloroso pensare all’ Italia, e ancor di più pensare alla Valtellina, terra in cui sono nato, cresciuto e che amo come si ama la propria donna, terra con una classe dirigente composta da orrendi figuri che predicano ancora l’odio razziale e la demenza cattolico-borghese-padana. Vien voglia di scappare, ma dove? Scappare, è questo che penso quando mi ritrovo a parlare con i giovani kosovari. Scappate! Mettetevi in salvo! Avete il diritto di fare anche voi quello che ho fatto io: lavorare o studiare, divertirvi, viaggiare, crescere, che sia qui piuttosto che in qualsiasi altro posto. Ma via, vi prego, via da questo posto maledetto! Loro scuotono la testa, rassegnati, sconfitti da un visto che non arriva mai per emigrare in Italia, in Germania, in Svizzera, come tanti qui hanno fatto. Avevo da poco compiuto 18 anni. Lavoravo, tra giugno e settembre, in un hotel in Svizzera per racimolare qualche soldo, pagarmi così la patente e un viaggio con gli amici. Nelle pause studiavo per l’esame di teoria della patente e leggevo il giornale. Ricordo che in quei giorni i giornali italiani parlavano a lungo degli squatters di Torino, di due suicidi in carcere, si chiamavano Sole e Baleno. Ricordo che con me, in sala, lavorava Milutin, un serbo che veniva dal Kosovo. Io sapevo a malapena dove fosse la Serbia, ma il Kosovo proprio no. Mi raccontava di essere arrivato in Svizzera l’anno prima, con la moglie e una bambina di pochi anni. Che fosse scappato dalla guerra l’ha detto un paio di volte, poi ha chiuso il discorso. Degli altri colleghi non ricordo molto. Di lui invece ricordo il viso e quello strano accento. Io, da sempre curioso, gli chiedevo come fosse il suo paese, se c’erano le montagne o il mare. Lui rispondeva dicendomi di tagliare il pane e sistemare meglio i tavoli apparecchiati che altrimenti il caposala si incazzava. Una volta arrivato a casa, dopo i tre mesi di lavoro, ho aperto l’atlante (allora non c’erano né google maps né wikipedia) e ho cercato il Kosovo. Ma dove cazzo è…il mio dito vaga sulla pagina chiamata “Balcani ed Europa orientale”, fino ad inciampare sulle Alpi Dinariche. Eccoci arrivati in Kosovo, Milutin. Mitrovica: scarichiamo il camion, infiliamo tutto in magazzino. Carichiamo il furgone, consegniamo nelle case, torniamo in magazzino, carichiamo il furgone, consegniamo nelle case, e così via. Lungo le strade polverose di Mitrovica o nelle case sparse nei villaggi delle colline con dei nomi impossibili: Skanderaj, Tuneli, Zvecan, Trepca, Vrbnica. Sporchi, accaldati, stanchi, con poche ore di sonno, con gli sguardi degli altri sempre addosso, con picchi di adrenalina e tonfi di delusione; praticamente una vita da rockstar. ‘Maljciki’ degli Idoli è una canzone della madonna. Una marcia che inizia lenta su una base ripetitiva, voci che si alternano senza melodia, poi gradualmente sale, in modo molto schematico, senza esagerazioni fino al ritornello finale da cantare a squarciagola con l’indice, declamando parole serbe da inventarsi al momento. Gli Idoli erano un gruppo di Belgrado dei primi anni ottanta, nome di punta del panorama new wave che nei Balcani governati da Tito ebbe un periodo di notevole fermento. Seduto al bancone, mentre il barista baffuto mi apre la terza o quarta Jelen Pivo, risuona a gran volume ‘Maljciki’ degli Idoli. Dietro il mio sgabello una ragazza serba, altissima e biondissima, muove i fianchi e canticchia sotto lo sguardo vigilante del fidanzato, altissimo e pettoralissimo anche lui. Così fanno tanti altri qui, nel bar più frequentato e rumoroso di Mitrovica, il risultato è sorprendente. Un clima da baraccone totale dove l’alcool e la musica ad alto volume trasformano le persone in “tuti amici – tuti frateli” (da leggersi con pesante accento serbo). Io racconto a Giulio, amico e collega, dei miei piani: mollare tutto, casa, lavoro, scena punk-hardcore, bè questa a dire il vero l’ho mollata già da un bel po’. Via da Milano per partire verso l’Australia. Stare nell’altra parte del mappamondo per qualche mese, o forse un anno, inventarsi imbianchino, lavapiatti, giardiniere o che altro, e, con la pancia bella piena nonostante i pasti frugali ed economici, tornare tra le montagne valtellinesi. Perchè loro staranno lì, non si muoveranno di un millimetro e non voglio di certo tradirle con qualche montagna australiana, o peggio con la madonnina del Duomo di Milano. Durante il ritorno, passato da poco il valico di Merdare, guardo indietro dallo specchietto del Doblò, con una tenuta di strada un po’ meno imbarazzante grazie all’intervento di un meccanico kosovaro, e saluto questa terra. Cari kosovari tutti, non siete voi a dover dire grazie a me per i pacchi, i mobili, i giochi che ho portato nelle vostre case. Sono io che devo dire grazie a voi…sembra banale ma è davvero così. E non posso fare a meno di scriverlo qui. In bocca al lupo, Kosovo bello…

P.S.= Quanto scritto è stato pensato e messo su carta tra il 2006 e il 2010. Un grazie doveroso ad Asvi Onlus per tutto quanto, ai tanti compagni di viaggio, ad Agota Kristof (r.i.p.) per avermi ispirato il titolo. Un grazie sopratutto a Nehat, Ljulieta, Lisander: amici kosovari.