THE CAFFEINE DIARIES

Il titolo è una parodia di “The heroin diaries”, quel libro di Nikki Sixx dei Mötley Crüe che sottoforma di diario racconta il periodo ottantiano da eroinomane dell’autore (il libro non l’ho letto, l’ho solo intravisto un paio di volte in altrettante librerie, per cui quanto appena scritto deriva da una velocissima ricerca sul web appena eseguita!). Io, che non bevo, non fumo e non mi drogo, ho come unica dipendenza (relativa, s’intende) quella per il caffè…da qui il titolo per questa raccolta di pensieri in totale libertà (qualcuno, più prosaicamente, direbbe “a cazzo”…), ispirati ognuno da un pezzo ascoltato o viceversa. Se siete curiosi/e a riguardo di questi brani, cercateveli su Youtube, dovreste trovarli tutti (o quasi) senza grossa fatica.

 

AC/DC – For those about to rock (we salute you) (1981)
Un’emozione che non proverò mai più in vita mia è quella che provai quell’estate di trent’anni fa (era l’83) per un pezzo sul juke box del Lido di Colico, questo singolo tratto dall’album degli Ac/Dc che porta lo stesso titolo. Ogni volta che qualcuno (generalmente qualche tossico locale, come da stereotipo…) metteva le duecento lire necessarie a far scatenare Angus Young & soci, a me e ad alcuni miei amici dell’epoca (tutti fra i dieci e i tredici anni – io ne avevo undici) venivano i brividi lungo la spina dorsale e ci scambiavamo occhiate come scienziati che hanno appena scoperto una forma di vita extraterrestre. E poi, quando qualcuno di noi aveva la moneta, subito lì a rimettere su il disco e tutti in religioso silenzio (no, non headbanging furioso come mentecatti esaltati, qui si parla di ragazzini giovanissimi che hanno appena avuto una rivelazione, c’è vita su Marte e che cazzo!). Sensazioni forti, uniche, che adesso non proverei neanche se mi si presentasse, che so, la Lindsay Lohan in lingerie sulla porta di casa, annunciata dalla mia vicina di casa sessantenne romena con “c’è signorina vestita con quasi niente che cerca te”. Ed erano tempi, quelli e quelli che sarebbero seguiti, in cui di queste bands, anche grosse e famose a livello mondiale come appunto gli Ac/Dc, non si sapeva quasi nulla: nozioni pochissime, internet ovviamente non esisteva, sui giornali apparivano notizie frammentarie (magari malamente tradotte da qualche pubblicazione estera, per cui castronerie a palla), quindi l’interesse verso certi tipi di musica si decuplicava anche per questo motivo. Un interesse e un fremito interiore che adesso non provo nemmeno se mi dicono che piaccio a qualcuna… E l’entusiasmo che si aveva nel parlare ad altri di una nuova band appena scoperta, un entusiasmo che io non ho quasi più e che pochi/pochissimi (il Bassman e il Valentini su tutti) hanno ancora quando mi parlano di un gruppo (generalmente d’epoca) che hanno scoperto da poco o di un nuovo progetto di qualche vecchio nome conosciuto. Invece al tempo era tutto un fiorire di nomi, di attese magari di una settimana per avere finalmente, ad esempio, la cassetta duplicata del live dei Motorhead, grazie a quell’amico che conosceva un tipo che aveva l’lp. E serate in cui gruppi di ragazzini si scambiavano notizie, lette per caso su una rivista o sentite alla radio, e ancora nomi nuovi e generi nuovi, in due parole il paradiso! Certo, come giustamente rilevava Terry Sadler degli Slaughter (quelli canadesi!) nell’intervista che gli feci per ‘Nessuno Schema’ # 9 “quelli che sono cresciuti durante gli anni ’80 ripensano sempre a quel periodo della loro vita in cui le cose erano molto più divertenti”, ed è vero anche quello, la pre-adolescenza e l’adolescenza di sicuro sono state più divertenti della merda che ci tocca ingoiare tutti i giorni adesso, però quelle sensazioni di allora, cosa darei per riprovarle almeno ancora una volta nella vita!

 

RADIO BIRDMAN – Aloha Steve and Danno (1978)
Che pezzone e che grande gruppo questo! D’altra parte con le bands australiane si va praticamente sempre sul sicuro, da cui il mio motto: con l’austraglia difficilmente si sbaglia! ;-) La canzone omaggia il telefilm ‘Hawaii Five-O’, la prima serie, quella fine anni sessanta/anni settanta. Io che ho conosciuto il programma grazie al remake (dal 2010 in avanti) mandato in onda dalla Rai, in un primo momento pensavo che gli ideatori della sigla avessero reso omaggio ai ‘Birdman, citando la parte centrale del pezzo che dà il titolo a queste righe. Invece era stato il contrario, con la band di Sydney che aveva citato il tema della sigla all’interno del proprio brano dedicato appunto alla serie-tv (Steve e Danno sono i due personaggi principali). Detto questo, a me quella terra lontana, grande quasi come l’intera Europa, affascina da sempre. E come lei anche la vicina Nuova Zelanda, le isole dell’Oceano Pacifico (fra cui le Hawaii del telefilm, naturalmente) e, chiaramente, il Giappone (figurarsi, uno come me cresciuto a cartoni animati provenienti dalla terra del sol levante). Quando avevo tredici anni la sera mi mettevo sotto le coperte e ascoltavo col walkman e le cuffie una cassetta duplicata contenente “Made in Japan”, lo spettacolare doppio album dal vivo dei Deep Purple registrato proprio in Giappone nell’agosto del 1972 (due mesi prima che io nascessi). E mentre i cinque Purple sciorinavano le loro strepitose versioni live delle varie ‘Highway star’, ‘Smoke on the water’, ‘Lazy’, ecc. io pensavo a quel posto lontano: Giappone, che era come dire adesso Plutone! Ricordo che avevo un mappamondo che stava in cima ad un armadio e l’avevo girato in modo che dal letto vedessi Australia e Giappone, con in mezzo il vasto Oceano Pacifico, e mentre Gillan e soci suonavano lo fissavo affascinato. E in mente avevo le Hawaii che vedevo in un altro telefilm, ‘Magnum P.I.’, quelle dove scorrazzavano i dobermann di Higgins. Oppure le terrificanti vicende delle battaglie nel Pacifico durante la II Guerra Mondiale, una parte di quel conflitto che mi interessava molto già allora e di cui avevo letto qualcosa a riguardo. Oppure ancora, questo l’anno dopo quando scoprii una nuova band, le città sommerse di H.P. Lovecraft (galeotti furono i Metallica, appunto, coi loro pezzi ‘The call of Ktulu’ e ‘The thing that should not be’, che mi spinsero ad interessarmi a questo misconosciuto scrittore americano fanta-horror, vissuto e morto in povertà nel 1937 e scoperto dal grande pubblico anni e anni dopo la sua dipartita). E poi con la mente tornavo a quei concerti giapponesi dei Deep Purple, immaginavo di essere là fra il pubblico, in mezzo a ragazzi e ragazze dagli occhi a mandorla, e magari avvicinare una di queste giovincelle. Nel delirio ormonale della mia pre-adolescenza credevo che le giapponesi fossero tutte come la Yoko Tsuno, personaggio dei fumetti su “Il messaggero dei ragazzi” (un mensile, edito da una casa editrice di proprietà dei frati francescani di Padova, a cui mi aveva abbonato per alcuni anni mia nonna Adriana, pensando probabilmente che i contenuti fossero roba tranquilla, pastorale se vogliamo. In realtà i fumetti della Yoko erano inquietanti, fra alieni, esperimenti genetici e stragi di massa, il tutto ovviamente espresso mediante eloquenti immagini, roba che ancora adesso considero piuttosto disturbante, immaginatevi quindi all’epoca l’effetto su di un bambino di paese), la quale era (e lo confermo pure adesso, aprile 2013, che ho visto alcune immagini in rete) una figa spaziale (termine non a caso, viste le tematiche dei fumetti che la vedevano protagonista). E mentre Ian Paice si lanciava nell’assolo di batteria su ‘The mule’ io immaginavo di approcciare una di queste Yoko e di convincerla con un giro di parole a diventare la mia geisha personale. Ometto di raccontare come proseguiva la serata sia nel Giappone dei sogni, sia nella realtà della mia cameretta! ;-) Bei tempi, tutto sommato, và!

 

OVERKILL – In union we stand (1987)
Ci sono due categorie di persone al mondo che sono esperte di geografia pur senza esserne veramente appassionate: i tifosi di calcio e i seguaci di hardcore/metal/punk. Dal canto mio devo invece ammettere che fin da piccolo sono sempre stato attratto dalla geografia a prescindere, per cui quando iniziai dapprima a seguire il calcio e poi il mondo della musica, si sfondò definitivamente una porta già aperta almeno per metà. A dieci/undici anni col calcio leggevo tutti questi nomi di squadre legate a determinate città e le cercavo febbrilmente sull’atlante, imparando dove si trovassero posti come Mönchengladbach, Dundee, Valkeakoski, Tbilisi, Gijon, ecc.ecc. e fu lo stesso, qualche anno dopo, con la musica. Inizialmente quella metal, ricordo me stesso seduto sul cesso della casa dei miei nelle serate degli inverni ’86 ed ’87, con davanti uno sgabello su cui tenevo sia la rivista metallara “HM!”, sia il solito atlante sul quale andavo a vedere dove fossero esattamente l’Ohio dei Necrophagia, la Belo Horizonte degli imberbi Sepultura o la Essen dei Kreator. Figurarsi poi qualche anno dopo, quando entrai nell’underground e venivo man mano a sapere dell’esistenza di decine e decine di bands sconosciute hardcore, punk, death e black metal, le quali, contrariamente a quelle più note che venivano quasi sempre da grossi centri, avevano base in piccole città se non in paesini sperduti in mezzo al nulla del midwest statunitense o delle brughiere del nord della Germania. Senza dimenticare poi i miei primi corrispondenti, oltre che da Italia ed Europa occidentale/Nordamerica scambiavo dischi/cassette e lettere con gente da Singapore, Giappone, Sudamerica ed Europa dell’Est. E io sempre lì a cercare sulla cartina i nomi di città/paese che leggevo nei loro indirizzi sui pacchetti. Ragazzini di tutte le razze e sparsi in giro per il mondo, che nella quasi totalità dei casi non si sarebbero mai visti in faccia gli uni con gli altri, uniti dalla passione per un determinato tipo di musica e fra i quali si sviluppava una sorta di amicizia a distanza, perché sapevamo che chi ci spediva quel pacco era uno come noi. E quasi sempre, oltre ai dischi e alle cassette, la lettera d’accompagnamento (scritta rigorosamente a mano, nel caso nelle nazioni più povere ricordo missive vergate sulla carta per avvolgere i salumi o su pezzi di cartone) raccontava della vita di questi ragazzini. Ricordo di essermi rattristato per la morte della madre di un mio corrispondente peruviano, di aver appreso della laurea in non ricordo più cosa conseguita dalla sorella di un ragazzino di Singapore e di essere venuto a conoscenza, felice per lui ma con un pizzico d’invidia, che un giovane hardcorer polacco aveva finalmente trovato la ragazza. E ricordo il mio corrispondente croato da cui all’improvviso, quando esplose il conflitto balcanico nei primi anni novanta, non ricevetti più nessuna lettera/pacco e temetti, a ragione, che fosse successo il peggio. Comunque sia, per me e per quelli come me, andare in una città estera (o anche italiana, ma il fascino estero è sempre maggiore in questi casi) significa anche andare in un posto dove magari è nata e si è mossa una delle mie bands favorite. Ad esempio quando nel 2011 andai in Scozia, ad Edimburgo provai un certo piacere nel camminare sulle stesse strade dove anni e anni prima Wattie e i suoi Exploited avevano posato le suole dei loro anfibi. E chissà se nel lontano 1990 avessi saputo che Johnny Rotten da bambino (essendo nato da genitori irish) passava le sue vacanze estive nella campagna vicino alla città irlandese di Cork, dove io passai le mie quell’estate di più di vent’anni fa. E una città significa quasi sempre o una squadra di calcio o un gruppo. Anni fa conobbi una ragazza tedesca e alla mia domanda di che zona fosse, lei mi rispose “Gelsenkirchen” e io al volo di rimando e strappandole un sorriso “Schalke 04!”, che, se non segui il calcio, quella città non avresti la più pallida idea né che esista né dove possa essere. Certo, avrei potuto anche esclamare “Sodom!”, essendo la black-thrash band tedesca originaria di Gelsenkirchen appunto, ma mi sa che non ci avrei fatto una gran figura e al posto del sorriso temo che avrei rimediato una sberla! ;-) Nell’estate del 2007, con la mia morosa dell’epoca, avevamo fatto un tour della Finlandia meridionale, spostandoci in pullman (avevo escluso categoricamente di mettermi a guidare un auto in terra straniera su strade sconosciute, soprattutto mentre ero in ferie!). L’autobus fermava spesso in minuscoli agglomerati di case o poco più (facenti parti di cittadine che lassù si estendono per chilometri e chilometri quadrati), io leggevo il nome, ad esempio Loimaa e, da buon fan del death metal nordico, pensavo ‘ma gli Adramelech e i Demigod sono di qui!’. Idem nella cittadina di Nokia (quella che ha dato il nome alla ditta di telefonia mobile) da cui provengono Purtenance e Lubricant, oppure ancora a Veikkola, il villaggio degli Absurdus. Siamo passati anche dalla succitata Valkeakoski, la cui squadra giocò un clamoroso quarto di finale di coppa delle coppe contro la Juve nel marzo dell’84 (perdendo ovviamente, ma solo con un doppio 0-1, a Torino e sul neutro di Strasburgo, visto che il campo finlandese in quel periodo dell’anno era impraticabile per il gelo). Ammetto che ero abbastanza esaltato dal passare per questi posti, immaginatevi se mai andrò in California, terra sia hardcore che metal (entrambi con svariati sottogeneri), nella Norvegia patria del boom black metal o nella Londra dove esplose il punk ’77 (no, non sono mai stato a Londra, strano ma vero). E ancora oggi non ho abbandonato il mio fido atlante, unito naturalmente alle Google Maps! ;-)

 

CREEDENCE CLEARWATER REVIVAL – Travelin’ band (1970)
Li avete letti i tre libri di Ian Glasper? Due sono usciti anche in italiano (uno con titolo orribilmente tradotto, “Burning Britain” è diventato “Quando bruciammo l’Inghilterra”… al di là che l’esatta traduzione sarebbe “Gran Bretagna che brucia (o volendo, in fiamme)”, Ian parla appunto di Gran Bretagna, quindi anche di bands scozzesi, gallesi e nordirlandesi; è come se al posto di Britain ci fosse Italia e la traduzione fosse Quando bruciammo la Lombardia o Quando bruciammo il Norditalia…) e per farla breve raccontano le vicende di parecchie punk-hardcore bands britanniche, da quelle anarco-punk a quelle dell’ondata u.k. ’82 fino ad arrivare ai gruppi di fine 80’s/primi 90’s. Accanto a nomi più conosciuti ci sono tantissime bands perdenti di provincia, con le loro storie così simili a quelle di tanti gruppi delle mie parti, a dimostrazione che il mondo gira allo stesso modo un po’ dappertutto, specie quando si suonano certi generi e ci si muove in certi ambiti. Il racconto di un membro di una punk band sconosciuta (e difatti il nome non me lo ricordo e non ho voglia di andare a cercarmelo) su una trasferta/concerto al limite dell’assurdo mi ha riportato alla mente un live di uno dei miei primi gruppi, gli Skunk, al Castello di Santa Maria Rezzonico (un paesino del centrolago sulla sponda ovest del Lago di Como), il 9 luglio del 1993 (ho ancora il manifestino della serata). Di detto castello in realtà rimangono le torri e le quattro mura in sasso all’interno delle quali si stende un prato verde, prato nel quale si tenne questo concerto, un benefit per prestare aiuto ai popoli della ex-Jugoslavia al tempo falcidiati dalle guerre intestine. Chiamati da Sench dei Potage, ricordo che partimmo con due macchine, una attorno alle diciotto e una dopo le venti, quando il nostro bassista finiva il turno. La prima macchina era la mia “storica” 127 grigio-metallizzata e, oltre a me, conteneva l’Alex e il Max (poi con Caven, Milaus, Sbizza, ecc.ecc.ecc.), cioè i nostri due chitarristi, più un paio di amplificatori con relative testate, qualche pezzo di batteria, le chitarre e qualche altro ammennicolo. Risultato: sedili posteriori ribaltati per permettere il carico, col Max seduto dietro in modalità-contorsionista e schiacciato contro il vetro dall’imponente Marshall dell’Alex, e davanti lo stesso Alex con in grembo il rullante del sottoscritto… Il finestrino dalla mia parte soffriva dell’assenza del vetro, spaccatosi una decina di giorni prima, ma faceva caldo e quindi dove stava il problema? Era una bella serata estiva e, giunti al castello, avemmo modo di constatare che il pubblico della serata non sarebbe stato composto dai soliti esagitati metallari e punkettoni delle nostre parti (erano anni, quelli, in cui bastava sentire un giro di chitarra distorta per creare sottopalco un mucchio umano di ragazzini sporchi e sudati, fra cui mi ci mettevo pure io, sia chiaro!), ma da un cospicuo numero di bambini/e, famiglie, nonne e nonni, oltre che da un bel po’ di oratoriani e fricchettoni. Dopo i Mosquitos di Domaso, col loro solito ottimo rock/blues e il cantante Marchino come sempre grande frontman, saliamo sul palco noi: dietro la batteria io coi capelli medio-lunghi, una maglietta dei Doom, pantaloncini della tuta tagliati sopra il ginocchio, Reebok da basket ai piedi. Alla mia destra Alex coi capelli lunghissimi, gli occhiali da vista legati con un elastico, maglietta dei Morbid Angel, bermuda e scarpe da tennis. Alla mia sinistra Max con capelli lunghetti legati dietro la nuca, maglietta con disegno fatto a mano dell’ispettore Zenigata (da ‘Lupin’), pantaloncini corti e Nike alte da basket. Vicino a lui il bassista Cotto, capelli cortissimi, maglietta nera, jeans lunghi, anfibi e sigaretta in bocca. Attacchiamo con l’intro, un pezzo strumentale piuttosto prolisso intitolato appunto “Intro”, alla fine del quale, come da copione, da dietro le casse balza sul palco Inox, il cantante: infradito da mare ai piedi, bermuda a fiori e chiodo su torso nudo, in pratica Billy Idol versione spiaggia. Guarda il pubblico e declama al microfono “noi siamo gli Skunk di Morbegno e questo pezzo è ‘Generazione (di stronzi)’!”, con noialtri che ci lanciamo nell’esecuzione di questo brano, un velocissimo hardcore/thrash dai giri semplici e banali, ma tutto sommato efficaci, con un arrabbiatissimo ritornello che faceva ‘posto di merda, gente del cazzo, se non me ne vado divento pazzo, posto di merda, gente del cazzo, se non me ne vado spacco tutto’ (dopo una prima versione, fortunatamente abbandonata quasi subito, in cui lo ‘spacco tutto’ era uno sgrammaticato ‘spacco su tutto’), ritornello ovviamente urlato in faccia alla prima fila di nonnine e nipotini, altrettanto ovviamente allibiti. E io che, mentre suono il mio ignorantissimo tempo hardcore a manetta, mi chiedo se per caso quella mattina nel caffè qualcuno non avesse disciolto un acido a mia insaputa e ciò che sto vivendo è un viaggio della mente, perché una situazione simile non può essere reale, dai! Dopo di noi suoneranno i Potage che faranno un concertone spettacolare (forse il migliore fra i loro che ho visto, col compianto Speedy Angel in forma strepitosa), i Tirlindana (una delle prime line-up, ancora non troppo strappafighe e fautori anche loro di un coinvolgente live fra rock e pop) e infine i De Sfroos, che all’epoca erano già in giro da almeno sei anni e non se li cagava praticamente nessuno. Io era la prima volta che li vedevo/sentivo e li trovai eccezionali. Tempo un paio d’anni ed iniziarono ad avere il giusto riconoscimento che porterà il leader Davide ad una sfolgorante carriera solista che lo vede tuttora fra i nomi più noti del panorama musicale italiano. Il ritorno a casa si svolse sotto un temporale estivo e quindi una pioggia battente, con l’acqua che entrava dal finestrino rotto, solo parzialmente tappato con un pezzo di stoffa (probabilmente appartenuto a qualche fricchettone del cazzo) trovato per terra nel castello. Fu un altro giorno di gloria, per citare molto appropriatamente un pezzo storico dei Nabat.

 

SLAYER – Hell awaits (live da vhs 1985)
L’inizio di questo pezzo è il più bello di sempre nel thrash metal. Su disco e anche nella videocassetta del Combat Tour 1985 (quello con Slayer, Venom ed Exodus). Ed è l’unico che merita di star sopra all’inizio del concerto thrash di cui vado ora a narrare. Siamo a fine estate 1993, io, l’Alex, il Bonello e il Daddy stiamo da qualche tempo girando tutti i vari festivals e concerti della zona col nostro banchetto volto a raccogliere fondi per l’imminente concerto dei Kina alla Colonia Fluviale di Morbegno e un sabato sera siamo a Pedemonte, un paesino a metà fra Sondrio e la succitata Morbegno. Concerto all’aperto, una rock/blues band ha terminato il proprio set e sta per lasciare la scena ai thrashers locali Wers, i quali salgono sul palco e si posizionano mentre il chitarrista del gruppo precedente sta ancora masturbando la sua chitarra per un assolo interminabile. Massy, il bassista/cantante dei Wers, si avvicina al microfono, ne verifica il funzionamento e ringhia nello stesso rivolto al chitarrista rock/blues: “Tas giò adess!” (tradotto: Adesso taci!), col guitar-hero che capisce l’antifona, stacca tutto e se ne va. Nel frattempo i Wers sono pronti e al grido di “Pedemonte! Màiaraviöo! (la serata prevedeva anche la cena a base di ravioli – nda) More beer!!!!” la band si lancia nell’esecuzione del proprio cavallo di battaglia. Da lacrime agli occhi! E sono queste scene di provincia che spesso restano più impresse nella memoria rispetto a quelle dei concerti dei grandi gruppi. Storie di centinaia di musicisti sconosciuti e dall’aspetto improponibile, ma non per questo scarsi o di poco conto. Ad esempio io ho una videocassetta di un’edizione di Sciatèra ’92 (un festival all’aperto sul lago), edizione a cui non avevo presenziato essendo in quel momento in vacanza in Spagna, nella quale un’estemporanea band messa in piedi dai vari musicisti metal/hard rock del porlezzese si esibisce in alcuni classici di hard ed heavy. La cover di ‘Aces high’ degli Iron Maiden è spettacolare, col cantante pelato (di cui avete già letto nella parte di ‘zine dedicata ai Pubertas Morbegno) che raggiunge le vette di Bruce Dickinson e il chitarrista (Marco Cases, se non ricordo male il nome) che esegue alla perfezione entrambi gli assoli incrociati della coppia maideniana Murray/Smith, per poi, una volta terminato il lungo solo, ricevere un boccale di birra da un amico sottopalco e bere un sorso: se l’era meritato, altrochè!

 

LAG WAGON – Angry days (1992)
Fra 1992 e 1993 qui in zona avevamo scoperto l’hardcore melodico californiano, quello poi diventato famosissimo (e vendutissimo) a livello mondiale, che allora stava buttando fuori i primi dischi di quelle bands figlie del binomio Bad Religion/NoFx. Uno dei gruppi che più mi/ci esaltava erano i Lag Wagon, specialmente per quel primo album in cui al loro hardcore melodico e parecchio tecnico (ma sempre fluido e mai noioso), aggiungevano un certo sapore heavy metal epico-drammatico, cosa che quassù sfondava la classica porta aperta, essendo noi pedemontani/lacustri di provincia sempre molto sensibili alle suggestioni metalliche! ;-) Un secondo album, ottimo pure questo ma forse un pelino inferiore al primo (meno suggestioni metal? può essere), li mise definitivamente nella nostra top-five del genere e quando nel febbraio del 1995 i nostri vennero in Italia assieme ai mentori NoFx, dalla nostra zona partimmo con ben tre macchine. Per quanto a me i NoFx piacciano parecchio ed ero curioso di vederli dal vivo (un paio di anni prima avevo visto i comunque grandissimi Zero Boys al Leonca, non sapendo che la stessa sera a Vigevano alla Portalupi c’erano loro con gli Offspring…), volevo vedere soprattutto i Lag Wagon: che presenza avrebbero avuto sul palco, come avrebbero reso i loro pezzi in una situazione live, come se la sarebbe cavata il tecnicissimo batterista (che una decina d’anni dopo si sarebbe tristemente suicidato…), come sarebbero suonati gli intrecci delle due chitarre, come avrebbe reso dal vivo la particolare voce di Joey Cape, ecc.ecc. Solo che io i Lag Wagon non li vidi mai. Eppure eravamo partiti in orario, assieme alle altre due auto i cui occupanti invece li avrebbero visti eccome. Cosa successe quindi? Successe semplicemente che io e altri due eravamo sul sedile posteriore dell’auto di una coppia di fidanzati, i quali all’entrata di Milano iniziarono a discutere animatamente riguardo la strada da prendere. La discussione, dopo un paio di svolte errate, degenerò in litigio con tanto di polemico accartocciamento e lancio dal finestrino, da parte della lei, della cartina di Milano. Senza mappa alla fine arrivammo sì sul posto, ma dopo un lungo peregrinare per le vie della metropoli, ed arrivammo esattamente nel momento in cui i NoFx stavano attaccando… Mi ritrovai un’altra volta in mezzo ad un litigio fra i due, ad un concerto open-air brianzolo degli Statuto (la band ska-rock-beat torinese, quella delle sigle delle trasmissioni sportive di Telelombardia/Antennatre per intenderci!). Ed ero proprio in mezzo, nel senso che ero fra i due che da un po’ si stavano beccando. Scemo io, che potevo anche togliermi da lì, ma ero preso dalla grande performance di Oscar e soci sul palco, fatto sta che ad un certo punto la lei esasperata gettò la sua birra (da quei bicchieroni di plastica tipici da festa all’aperto) addosso al moroso, centrando però in pieno il sottoscritto. Entrambi furono molto dispiaciuti della cosa e questo ebbe l’effetto di riappacificarli, alla fine fui solo io che ci rimisi per la serata la mia maglietta dei Nations On Fire e continuai a seguire il concerto con addosso una k-way appartenente al bersaglio mancato…

 

The UNDERTONES – My perfect cousin (1980)
Qualcuno si ricorda di questa hit della band nordirlandese con in copertina un omino del Subbuteo (ne parlarono non molto tempo fa anche su un numero del ‘Guerin Sportivo’)? Gran pezzo e videoclip decisamente simpatico. Nell’inverno ‘93/’94, primi mesi di vita dello spazio sala-prove/area ricreativa/niente concerti della Colonia Fluviale, una delle attività preferite da noi “gestori” era il calcetto da tavolo (il biliardino o, fascisticamente parlando, il calcio-balilla). Io, il mio allora collega di ‘zine Marco e il Rasco (all’epoca cantante degli appena nati Caven) ci divertivamo a dare i nomi alle varie squadre che via via noi tre, assieme ad altri disgraziati, facevamo scontrare nell’arena con le manopole. E lo facevamo giocando sull’assonanza fra i nomi di alcune città europee (con relative squadre) e quelli di alcuni paesi/cittadine delle nostre zone, per cui avevamo il Werder Bema, lo Sparta Prata, la Dinamo Tirano, l’Aston Villa Di Chiavenna, lo Zagleb Dubino e il Bohemians Dubino (per un derby di fuoco!). Com’è che si chiamava quel gruppo americano? Ah sì, Wasted Youth. Ecco, appunto…

 

HELLOWEEN – Future world (1987)
Io una volta ho visto Kiske. Come, e chi sarebbe? Cazzo, Michael Kiske, IL cantante solista degli Helloween, la metal band tedesca. Primissimi anni novanta, eravamo io e il mio ex-collega di fanza Marco, c’era un concerto in zona centrolago (Sala Comacina, se non ricordo male) e noi due ci eravamo allontanati dall’area del live per andare a bere un caffè in un bar-ristorante proprio sulla riva del lago. Mentre siamo al bancone la nostra attenzione viene catturata da una tavolata di tedeschi e in particolare da uno di loro. Ma no, non può essere, ci diciamo. Ma sì, è lui, ha la stessa camicia/giubbetto di jeans chiaro che indossa nel video di “I want out”! Cavolo, non poteva che essere Michael. Noi non osammo farci sotto e presentarci per chiedere se era veramente lui e ce ne andammo con un dubbio che mi/ci è rimasto fino ai giorni nostri! Poteva essere, perché no? Chi mi dice che anche adesso mentre io ad un tavolo di una pizzeria lacustre mi vanto scioccamente di un gol segnato al Pub Geco o al Madesimo, nel tavolo vicino c’è, che so, Wolfgang Seel ex Fortuna Düsseldorf, autore di due gol al Barcellona nella finale (persa) di coppa delle coppe del 1979? Oppure, avete mai provato a fare la spesa qui da noi sul lago in estate? Il biker olandese sui cinquanta che spinge il carrello con figlia giovanissima al seguito potrebbe essere un ex componente di qualche heavy metal band orange degli 80’s tipo Vortex, Bodine o Future Tense. Quel tipo belga al bancone del bar magari suonava nei thrashers Cyclone. E se il baffo che passa sotto il mio balcone in mountain-bike con la moglie fricchettona fosse nientepopodimenochè Kim Ruzz, il batterista anni ottanta dei danesi Mercyful Fate? Per cui, ancora oggi, mi pento di non essermi fatto avanti con il supposto Michael. Sì, perché io gli Helloween li adoro, e che cazzo! ;-) Amo alla follia i primi due dischi, quelli in cui cantava il chitarrista Kai Hansen, e venero i due capitoli di “Keeper of the seven keys”, i primi albums con Michael Kiske voce solista. Poi, certo, dopo questi gli Helloween hanno fatto uscire qualche disco decisamente sottotono e discutibile, hanno anche cambiato cantante negli anni novanta e un paio di albums usciti in quegli anni non sono assolutamente male, ma la magia sta tutta in quei primi quattro dischi (cinque, se ci mettiamo anche quello dal vivo uscito a fine anni ottanta). Magia che fa sì che a tutt’oggi in casa mia nella camera degli ospiti campeggi sottovetro un logo degli Helloween disegnato da mia mamma nell’87. D’altra parte chi scrive conosce perfettamente a memoria tutti gli assoli di quel quartetto di dischi, nel senso che facendo air-guitar so esattamente mettere le dita a tempo, le note ovviamente non le conosco. La prima volta che li vidi in fotografia nel lontano ’86 mi furono istantaneamente simpatici perchè mi diedero subito l’idea di band che non si prendeva troppo sul serio, quindi molto meglio di tante/troppe bands hardcore che verranno, ad esempio… Ricordo infatti negli anni successivi Michael che cantava a cavallo di una scopa di saggina, le zucche sul palco, quell’attitudine scazzata da tedeschi in vacanza (appunto!). Infine, che il nome Helloween fosse un gioco di parole con ‘hell’ ed ‘halloween’ e non un errore da non-anglofoni lo capii però anni dopo, anche perché all’epoca dalle mie parti vedevo spesso scrivere parole in inglese o nomi di gruppi esattamente come li si pronuncia, ad esempio ricordo in stazione a Chiavenna un tipo di Gordona con scritto Airon sulla punta di una scarpa e Meiden sull’altra, e vi giuro che è la pura verità, ci sono almeno cinque persone che possono testimoniarlo! ;-)

 

RAMONES – Zero zero u.f.o. (1989)
Sono da sempre combattuto fra il credere all’esistenza di popoli alieni e il pensare che invece sia tutta una colossale burla messa in scena per nascondere segreti militari, eppure una volta anch’io ho visto un u.f.o. Sì, nel senso di un oggetto volante non identificato che poteva benissimo essere il classico velivolo militare sperimentale, non intendo che fosse guidato da ominidi grigi e calvi con occhi enormi, però, chi può dire veramente che non fosse così? ;-) Era il dicembre ‘94 e credo fosse il sabato notte dopo l’incisione del “demo” dei Pubertas Morbegno. In macchina (la Uno bianca dell’Alex) siamo io, il Daddy e appunto l’autista Alex. Io sono davanti in veste di navigatore e deejay ed è appunto la mia seconda mansione che sto svolgendo, cioè il cambio-cassetta nell’autoradio. Mi allungo in avanti per prendere un nastro sul cruscotto (chissà che cassetta era, certo per romanzare dovrei dire che era una dei Misfits col pezzo ‘Astro zombies’ o quella di “New day rising” degli Hüsker Dü con ‘Books about u.f.o.’s’, oppure un’altra ancora contenente il brano ‘I am seeing ufos’ di Dee Dee & Joey Ramone, però questa mi sembra che allora doveva ancora uscire!) e vedo qualcosa nel cielo notturno invernale, vedo quello che per pochi secondi mi sembra la parte inferiore di, non ridete, un’astronave. Va bene, proprio in quei mesi avevo iniziato a guardare le prime puntate della prima serie di “X-Files” che davano a tarda notte su Canale5, ma il fondo di un velivolo sfavillante di luci lo vidi sul serio. Neanche il tempo di pensare ‘ma che cazzo è?’ e di dire all’Alex ‘fermati!’, che l’oggetto era sparito, come sempre succede in questi casi, lo so, sembra il solito racconto visionario letto centinaia di volte su riviste più o meno attendibili. Scendo dall’auto, siamo nella parte bassa di Morbegno, la zona vicino a dove ora sorge il Polo Fieristico, con i miei due compagni di band che mi guardano perplessi e si chiedono se stia dando fuori di senno o cosa. Il freddo dicembrino mi investe in pieno, guardo in alto nel cielo stellato, mi giro a destra e a sinistra, ma niente, quello che ho visto prima è sparito. Risalgo in auto, il Daddy mi chiede cosa cazzo mi fosse preso e io rispondo ‘mah, niente, mi sembrava di aver visto una volpe ai lati della strada’, ben sapendo che se avessi tirato fuori la storia dell’u.f.o. sarei stato preso per matto, oltre che per il culo in eterno. La spiegazione viene accolta in maniera abbastanza perplessa da entrambi i miei soci, ma la serata continua e l’episodio viene accantonato velocemente. Mi andava di raccontarlo a distanza di quasi vent’anni, così se vi va di prendermi per il culo, potete cominciare ora! ;-) Va infine detto che questa strana connection fra ‘Nessuno Schema’ e gli U.f.o.’s viene rafforzata anche dall’avvistamento diurno da parte della sciùra Gianna (la mamma del Marco, che effettuò l’avvistamento dalla finestra della propria cucina a Nuova Olonio) di un oggetto volante non identificato che volava a metà montagna sul crinale verso Dubino.

 

SAMAEL – Worship him (1991)
Una sera di inizio primavera verso la fine degli anni novanta uscii con una ragazza di un paese vicino al mio. Prima di quella sera la conoscevo solo di striscio, ma avevo avuto un sospettone che troverà poi conferma, per cui mi presentai apposta vestito nella maniera che segue: scarpe nere, jeans neri, maglione nero e giubbetto sintetico sempre nero su cui mia nonna aveva pazientemente cucito anni prima le seguenti toppe: Celtic Frost (il logo con le ali demoniache), Venom (quella delle Venom’s Legions con un eloquente 666), Mayhem (il logo classico con le due “m” che si allungano a formare due croci capovolte) e soprattutto un pentagramma rovesciato (una toppa di matrice satanica che mi aveva spedito in omaggio un tipo dagli States). Ci sediamo in un bar, tolgo il giubbetto e lo metto sulla panca dove, casualità o meno, rimane in bella vista quest’ultima toppa. Dopo qualche convenevolo di circostanza la tipa fissa l’immagine del pentagramma e mi chiede candidamente “sei un adoratore del demonio?”…occhio, non “sei un satanista?” o “credi in Satana?”, no, proprio questa domanda ad effetto, se sono un adoratore del demonio. A me vien da ridere, mi immagino in una notte di dicembre in un cimitero di campagna, a cavallo di una bara a bere un intruglio di sangue, sperma e peli del culo (citando dalla column in tema che scrisse il mio ex collega Marco su ‘Nessuno Schema’ # 7, all’epoca uscita da un paio di annetti), il classico stereotipo dell’adoratore del demonio da fumetto e da film di serie z, e, un po’ spiazzato, rispondo “beh, no, sono un adoratore del Chino Recoba se devo dire la verità!”. Ma la ragazza pare non aver sentito la mia battuta calcistica e insiste sull’argomento demoniaco, dicendo anche che i satanisti però sono soliti indossare giubbotti di cuoio; e a me viene in mente quel pezzo dei Running Wild con la tamarrissima strofa “even Satan wears leather, our souls to him forever” (che avessero ragione i tedesconi?), e poi penso al mio socio Abele e al fatto che i suoi genitori, ferventi comunisti, non volevano che lui indossasse il chiodo, considerato un capo d’abbigliamento da fascisti. Scaccio dalla mente l’immagine di un demone in giubbotto di pelle nell’atto di fare il saluto romano e le spiego un po’ la mia posizione a riguardo, cioè quella di essere ateo, ma di avere una certa passione per il cosiddetto lato oscuro delle cose e soprattutto per il black metal. Faccio un po’ il figo citando Aleister Crowley e Anton LaVey e sproloquiando di luciferismo, occultismo e satanismo di stampo medievale, finchè la ragazza mi dice, sempre con fare candido, “sai, io sono una catechista”. Non nego che, vedi sopra, avevo avuto qualche sospetto sul fatto che la tipa fosse una cattolica molto praticante (da lì l’abbigliamento all-black da satanista da fiction-tv e il giubbetto da black-thrasher di provincia), ma non fino a questo punto! No, penso, così non ce la faccio, è troppo! Ed entro nuovamente in un trip allucinogeno: alla mia sinistra si materializza Inox con un fiammante completo da diavoletto con coda triangolare, corna e forcone di plastica (come in effetti il nostro si presentò in occasione di una festa di carnevale dei primi anni novanta), alla mia destra appare Fabio Bonelli (oratoriano e credente) vestito da angelo con tanto di aureola, parrucca di riccioli biondi e rosario in mano. Inox mi punge col forcone e mi dice “porcodio, mandala affanculo! alzati ed esci cantando ‘In league with Satan’ dei Venom, marciando col pugno al cielo!”, il Bonello con voce agnellata mi dice “no, è una brava ragazza ed è pure carina, cerca di conoscerla meglio e passa oltre a questa storia del catechismo”. Non so a chi dare retta fra i due, guardo Inox e lui mi rimanda un ghigno satanico, guardo il Bonello e lui congiunge le mani in segno di preghiera e mi fa un cenno affermativo col capo. Non so che fare, quando sento una mano che mi picchietta sul collo, mi giro e vedo il Bassman vestito da Bassman, cioè occhiali scuri, sigaretta all’angolo della bocca, chiodo come quello di Bruce Springsteen sulla copertina di “Born to run”, maglia a righe bianche e blu da marinaio, jeans e stivaletti a punta, che mi dice “socio, adesso fai il signore, continui la serata, controlli la situazione, te la scopi, la riporti a casa e poi non la chiami più, tanto lei non chiamerà mai più te”. E sarà esattamente quello che farò e che succederà (ad eccezione della parte ‘te la scopi’, ovviamente… Si dice che ‘le figlie di Maria son le prime a darla via’, agli altri immagino…).

 

MOTLEY CRUE – Looks that kill (1984)
Primissimi anni duemila, fuori da un concerto, sto chiacchierando con qualcuno, non ricordo più con chi (forse il Rocco). Con quella specie di sesto senso che ogni tanto salta fuori mi sento osservato. Mi giro. Lei è bellissima. Lo sguardo adesso è un po’ colpevole perché sa che l’ho colta sul fatto. Mi sorride, mormora un ‘ciao’ che evinco leggendole le labbra vista la distanza. Io le ricambio il saluto e lo sguardo, cercando di assumere quello da versione sfigata di Vince Neil che però una volta mi aveva garantito un one night stand…già, anche una volta Recoba a Empoli tirò da centrocampo e la infilò all’incrocio, solo quella volta lì però, e infatti lei distoglie lo sguardo. E la cosa finisce qui. In effetti io lei la conoscevo già, un’amica comune aveva cercato di metterci assieme un paio d’anni prima, facendoci uscire a tre un paio di sere, ricavandone l’assenso mio e il dissenso suo. Vuoi che adesso due anni dopo ci sia invece qualche possibilità? Non l’ho mai saputo, sono andato avanti a parlare di dischi Hardcore col mio interlocutore… Se leggi, c’est la vie, ma chérie!<

 

BLACK SABBATH – Neon knights (1980)
Avevo appena comprato una ristampa in cd del mitologico ed imprescindibile “Heaven and hell” dei Black Sabbath che era in offerta a 10 euro all’Iperal di Piantedo e quella sera, un piovoso giovedì primaverile di inizio millennio, avevo un programma formidabile: pizza formato extralarge, bottiglione gigante di minerale frizzante, fettona di pastafrolla ai frutti di bosco, caffè e poi Black Sabbath a volumi da lamentele del vicinato! Mi arriva un sms della Marti, ‘cosa fai stasera?’ (che non significava se fossi libero quella sera, ma semplicemente cosa stessi facendo, giusto per chiarire se no sembra che ci sia anche qualcuna che mi sta dietro!). Le rispondo che ho intenzione di passare la serata in compagnia di quattro vecchi amici: Ronnie, Tony, Geezer e Bill (tralascio l’ovvia continuazione dello scambio di sms in cui lei chiedeva chi cavolo fossero e io che le spiegavo che trattavasi della line-up dei Sabbath su quel disco, ecc. ecc.). Perché sì, quante serate, quante giornate, quanti momenti passati in compagnia di quelli che, a modo loro, sono dei vecchi amici, faccio tre esempi random: James, Kirk, Lars e il povero Cliff, oppure Bob, Greg e Grant, oppure ancora Vince, Mick, Nikki e Tommy. Loro e centinaia di altri non lo sapranno mai, ma mi hanno fatto compagnia per anni, dall’adolescenza fino ad oggi, quando riascoltare ad esempio un disco come “Ride the lightning” suscita in me sensazioni simili a quelle di quando rivedi dei vecchi amici che un tempo frequentavi giornalmente (come da ragazzino ascoltavo i Metallica, appunto, un giorno sì e l’altro pure) e che ora incontri ogni tanto perché comunque l’amicizia è rimasta e fa piacere a tutti ritrovarsi (come adesso ogni tot. mesi riascolto i succitati Metallica, perché quella band -chiaramente limitatamente al periodo 83/88- rimane uno dei miei gruppi favoriti di sempre).

 

The STUPIDS – The memory burns (1986)
Io sposo in pieno la tesi di Stephen King sulla mente che è come una spiaggia dopo il ritiro dell’alta marea, cioè un posto che trattiene delle cose e ne lascia tornare in mare altre. Ecco, la mia mente trattiene solo cazzate completamente inutili, tipo la line-up dei Morbid Angel ai tempi di “Abominations of desolation” o il numero dei gol segnati da ‘Spillo’ Altobelli nel campionato 83/84 (dieci, di cui quattro all’ultima giornata in Inter-Catania 6-0, e purtroppo lo dico senza consultare nessun archivio…controllate pure). Ricordo poi a memoria gran parte dei testi di gruppi di svariati generi (Iron Maiden, Bruce Springsteen e Clash su tutti, per tacere di parecchie hardcore bands italiane) e mi rimangono in mente centinaia di eventi insignificanti vissuti sia in prima persona che da spettatore. Di contro mi dimentico un sacco di cose utili, che siano per lavoro, per delle relazioni interpersonali o anche per la mia persona e basta. Una volta avevo una ragazza “che vestiva in modo un po’ pacchiano, ma le ho detto io ti lascio perché sono come il fascio, chi non è alla nostra altezza lo buttiam nella monnezza, forse siamo un po’ suonati però sempre pettinati” (il virgolettato è parte di un testo dei Paolino Paperino Band che ho trascritto completamente a memoria, appunto…); no, in realtà avevo una ragazza con cui una sera (siamo nel 2006) ero a cena in un ristorante del Centrolago. Nel tavolo vicino al nostro c’era un gruppetto di ragazzini sui sedici anni dal look fra il più o meno normale e il nerd-metallaro, tutti evidentemente folgorati dalla passione per il metal: mentre si sbranano delle pizze ciclopiche stanno infatti parlando di gruppi death, ma stanno sparando delle cazzate abnormi. Eh, beata gioventù ignorante, penso, mentre mi occupo di argomenti più consoni alla mia tavolata di coppia, tipo quella maledetta caldaia che si pianta ogni tre per due. Però quando sento “beh, ‘Indecent and obscene’, il primo disco dei Dismember…” non mi trattengo più, mi volto verso l’autore di questa stronzata cosmica e gli chiedo di punto in bianco “scusa, ma ‘Like an ever flowing stream’ non l’hai mai sentito nominare?”, il ragazzino mi guarda e mi dice con tono sicuro “eh, ma quello è il secondo!”. Maroooon, pruvucamendo! Scunfinamento e pruvucamendo! (citando Abatantuono ne “I fichissimi”, of course). Al che tengo una mini-lezione sull’argomento (citando componenti degli svedesi e bands correlate) ai cinque metal-teens davanti ad un’allibita dolce metà che a fine conferenza mi dice sconsolata “se fossi uscita con te per la prima volta stasera, adesso troverei una scusa per tornarmene a casa”…ecco, ricordatevelo giovani lettori, le donne non apprezzano quei deviati come me e qualcuno di voi, per cui tutte le vostre nozioni di musica e calcio tenetevele sempre solo per voi e per quelli come voi, che, occhio, non sono tutti gli appassionati della vostra musica (o del vostro sport) preferita, ma solo una piccola percentuale. Beh, almeno quella sera i metal kids avevano apprezzato!

 

TWISTED SISTER – What you don’t know (1982)
Nel 2006 uscì un articolo su succoacido.it, uno studio sulle fanzines in Italia dagli anni settanta ai giorni nostri, 244 pagine in pdf che ovviamente non ho nemmeno aperto, anche per via dei commenti dei lettori riportati sotto che parlavano di ovvietà e di lettura noiosa (immagino vista la mole, esattamente come sarà noiosa per voi la lettura di questo ‘Nessuno Schema’ # 10, eheh!). Uno di questi commenti però mi salta all’occhio, quello che dice: “…se non fosse che non è citata ‘abBestia!’ del Pomini (la migliore fanzine italiana di sempre) e neppure ‘Nessuno Schema’…”. Ah, duecentoquarantaquattro pagine senza neppure citarci, né noi né soprattutto il Pomini (infinitamente più conosciuto di noi e la cui fanza fra 1994 e 1997 era al top in Italia). Adesso, non per vantarmi/ci (dico bene, Marco?), noi fra il 1995 e il 2002 eravamo a detta di moltissima gente nella top-3 delle migliori fanze italiane hardcore (e, dico io, se non sul podio almeno fra le prime cinque). Che fosse un “successo” meritato questo può essere opinabile, ma c’eravamo! E mi riallaccio a tanti/troppi articoli e libri scritti su qualcosa senza che chi li scrive si sia preso la briga di scavare a fondo (vedi invece in positivo il libro “Swedish Death Metal” di Daniel Ekeroth, un lavoro accuratissimo ed impressionante, ad esempio). Dai, scrivere di fanzineria italica senza citare ‘abBestia!’ e ‘Nessuno Schema’ è un po’ come, che so, scrivere di hardcore newyorkese senza citare Gorilla Biscuits e Bold, di anarcho-punk inglese senza citare Conflict e Mob, di death metal svedese (vedi sopra) senza citare Tiamat e Grave, ecc.ecc. E, dato che sono in vena di sentirmi fare dei complimenti, riporto una frase tratta da un’intervista alla band forlivese dei Le Tormenta: “La più bella ‘zine mai uscita in Italia si chiama “Nessuno Schema”, ma ha la periodicità di un mandato papale, per cui chi la trova in giro ci costruisca sopra un mausoleo e la veneri vita natural durante!!! (Enrico Guardigli, 2007). Grazie ;-)

 

NATIONS ON FIRE – New hope for a dead scene (the brotherhood, the sisterhood) (1991)
Primavera 2007, una sera sto dando un occhio all’allora recente Myspace dei Gradinata per vedere come l’aveva impostato il webmasta (cioè l’Andy, il nostro attuale bassista) e, constatato il buon lavoro svolto, passo a vedere le amicizie che abbiamo. E mi cade l’occhio su una ragazza ventitreenne di Talamona a me totalmente sconosciuta: cosa le piace ascoltare? Lag Wagon, NoFx, No Use For A Name, ecc. …cioè, altro che ‘sono cambiati i tempi’! Ma se esistevi quindici anni prima, ragazza mia, io ti avrei sposato seduta stante (fra l’altro è anche piuttosto belloccia), tempi in cui invece noi hardcorers locali vivevamo nella nostra brotherhood rigorosamente senza la minima sisterhood, cosa peraltro perpetuatasi almeno fino al 2000 (vero Rocco e Renza?). E ricordo delle tenere quanto patetiche compilations su C90 coi pezzi più melodici dei vari Dag Nasty, 7 Seconds, Hüsker Dü, Kina, ecc.ecc. da dare in regalo alla morosina o all’amichetta o più spesso a quella con cui ci provavi disperatamente e che ovviamente non ci stava (regalo al massimo sopportato o accolto pietosamente e chiaramente suppongo mai ascoltato fino alla fine e magari cancellato e rimpiazzato da un Masini qualsiasi…). Vedi cara (e qui cito pure Guccini), è difficile spiegare, è difficile capire se non l’hai capito già, ma se ci fosse la macchina del tempo andrei indietro fino al ’96, rapirei (in stile abduction aliena) me stesso ventiquattrenne, tornati nel 2007 io trentaquattrenne mi sacrificherei facendomi sostituire dal mio giovane me stesso e in quella veste verrei da te a dichiararmi portando in dote il primo album dei NoFx che avrò comprato dal mio paesano Claudio Carimati a peso d’oro. E da lì vivremmo per sempre felici e contenti in una casetta nella parte alta del tuo paese circondati da pile di dischi Hardcore. E nelle fredde notti d’inverno in cui il vento spazza la valle, abbracciati davanti al camino acceso, ti avrei raccontato del rissoso Choke degli Slapshot, che andava sul palco con la mazza da hockey, ma di lavoro faceva il parrucchiere per signora, e la tristissima storia del cantante dei Reagan Youth che si suicidò dopo che in breve tempo aveva subito la perdita della madre e della fidanzata, una prostituta che venne massacrata da un serial-killer newyorkese. Ti avrei stretto raccontandoti di Bill Stevenson (batterista di Descendents e Black Flag) e del suo amico roadie dei Descendents che andavano a pescare di notte nell’oceano californiano bevendosi litri di caffè per stare svegli, dei Minor Threat quindicenni che attraversarono gli U.s.a. su un bus della Greyhound per andare a fare due date in California, mangiando nei McDonald’s e tirandosi dietro un ancor più giovane Henry Rollins, e della cultura anti-macho portata avanti dai 7 Seconds per cui le ragazze non dovevano essere solo l’attaccapanni su cui posare il proprio giubbotto quando era il momento di scatenarsi sotto palco assieme agli altri maschi. E mille altri aneddoti anche vissuti in prima persona all’interno del variegato mondo dell’Hardcore/Punk mondiale. E dietro di noi il fantasma del defunto Jason Sears, il tossicissimo cantante dei Rich Kids on Lsd (comunemente detti R.K.L.), la band trait d’union fra le due generazioni dell’hardcore californiano, ad indicarci con una mano ed alzando il pollice dell’altra ;-). Eh sì, il 2007 mi ha fatto scoprire (oltre al fatto che anche l’Inter può ancora vincere uno scudetto) l’esistenza di persone come questa ragazza… persone che, come si dice già dei succitati alieni, sono fra noi. Per me povero provinciale è stata una vera e propria rivelazione, quasi quanto se gli stessi alieni atterrassero sul campo di calcio di Prata Camportaccio mentre stiamo giocando, incenerendo con disprezzo l’intero A.C. Dehler 347, riserve comprese, visto il nostro basso livello tecnico! Ehi, cara ragazza talamonese, se stai leggendo e ti sei riconosciuta in queste righe, non arrabbiarti, ti ho giusto presa come spunto per una riflessione semiseria, non è che mi interessa conoscerti di persona per beceri secondi fini magari, anche perchè poi dai, troppa differenza di età, finiremmo a litigare tutto il tempo perché i miei Social Unrest sono meglio dei tuoi Hi-Standard ;-).

 

DEEP PURPLE – The mule (live 1972 con assolo di batteria)
Lo ammetto, ho sempre sperato che in un’intervista qualcuno mi chiedesse “chi sono i tuoi batteristi preferiti?”, la cui risposta lascia il tempo che trova, nel senso che è come dire dato che gioco amatorialmente a calcio che mi piacciono, che so, Messi, Maradona, Platini, Rummenigge e Van Basten…se ne vedono tracce nel mio modo di giocare? Uhm, direi proprio di no! Idem per i batteristi, visto che quelli che andrò a citare adesso sono, chi più chi meno, dei maestri dello strumento. Però dato che la possibilità di stilare la lista mi intriga, adesso ve la sorbite tutta! …come diceva Montagnani/Necchi in “Amici Miei” facendo bere al tipo che lo aveva appena fatto becco la minestra in cui aveva pisciato. In nessun ordine particolare: Dave Lombardo, il batterista storico degli Slayer. Mi basta l’inizio dell’album “Reign in blood” col pezzo ‘Angel of death’ e mi sono già imbrattato gli slip ;-). Mark Zonder degli epic-metallers Warlord (poi anche coi tecnicissimi Fates Warning), che ha un tocco da pelle d’oca, all’inizio di ‘Deliver us from evil’ (dal primo ep 12” dei Warlord) la batteria letteralmente parla! Helder Stefanini dei Raw Power (e pure batterista di Riccardo Fogli!). La sua prestazione sul capolavoro della band reggiana “Screams from the gutter” (’85) è qualcosa di impressionante, fra doppia cassa terremotante e tempi hardcore velocissimi. L’uso della campana sul pezzo ‘Fuck authority’ (versione su un 7”-compilation) mi spinse nel lontano 1992 a comprare pure io un campanaccio (che ho e uso tuttora). Reed St.Mark, il batterista americano degli svizzeri Celtic Frost. Tecnica, anima, potenza e pulizia. E uso del campanaccio all’inizio della cover di ‘Mexican radio’ dei Wall Of Voodoo che mi costringe ancora una volta a cambiare gli slip ;-). Fenriz, che è un rocker che suona black metal e lo si sente già sui primi dischi black dei suoi DarkThrone: ha il groove del rocker anche quando suona il blast-beat, il tempo veloce tipico del black metal, cosa quasi unica nel genere. Hellhammer, che adesso è diventato un mostro di tecnica e precisione, ma che soprattutto su “De mysteriis dom Sathanas” dei Mayhem (1993) mi fa impazzire per quel suo blast-beat devastante alternato a rullatone sui tom e a tappetoni di doppia cassa. Concobeach, beh lui è un amico da più di vent’anni, ma oggettivamente è una macchina da guerra dietro i tamburi, la batteria dei suoi Atrox è impressionante per pulizia, tecnica e soprattutto anima/cuore. Ian Paice, il motore dei Deep Purple, suono pieno, vivo, con un’anima grossa così. Ah beh certo, un mostro di tecnica, ovvio! Charlie Benante: stranamente sottovalutato, il drummer degli Anthrax è in possesso di una tecnica e di un groove davvero notevoli, butto lì tre pezzi a caso, ‘Gung-ho’, ‘A.i.r.’ e ‘Caught in a mosh’. Philty “Animal” Taylor dei Motorhead: oddio, lui in effetti è uno di quei batteristi a cui mi ispiro, specie per quel modo distruggi-polso di tenere sempre i sedicesimi sul charleston. E in più Lemmy diceva che spesso entrava fuori tempo o faceva rullate che non c’entravano niente, per cui diciamo che di sicuro è una fonte di ispirazione per il sottoscritto! ;-) Tommy Lee dei Motley Crue, anche da lui cerco di prendere qualcosa, purtroppo non la serie di attrici ed attricette varie a cui si è accompagnato e si accompagna tuttora, ma quel modo di tenere il 4/4 cassa-rullante semplice ed efficacissimo (specie sull’album “Girls girls girls”). Cosa che assume più valore se si pensa che Tommy ha una gran tecnica (e in certi dischi la mette in mostra), ma sa porsi al servizio del pezzo suonando in maniera scarna. Phil Rudd degli Ac/Dc. Il suo 4/4 semplice ma devastante è quello che piacerebbe saper suonare a me. Mi limito ad offrirne una povera versione di provincia ;-). Charlie Watts dei Rolling Stones perché lo sento vicino. Keith Richards dice infatti che Charlie suona il suo di tempo (un po’ come anche Bill Ward dei Black Sabbath anni settanta), non è un metronomo e quando lui va a suonare con altri batteristi fatica quasi a raccapezzarsi (chiedere a chiunque abbia suonato con me!). Però è uno che sui tamburi picchia sul serio, a dispetto dello stile da jazzista, con uno stile personalissimo che lo rende unico. Menzionerei infine anche Pete Sandoval dei Morbid Angel (imparassero da lui tutti quei batteristi brutal-death senza anima, Pete ne ha da vendere), Bone dei triestini Upset Noise (mi fa impazzire la batteria di dischi come “Nothing more to be said” e “Growing pains”), Paul Cook dei Sex Pistols e Topper Headon dei Clash (chissà chi disse quell’enorme cazzata che i punks non sapevano suonare…). E poi, chiaro, decine e decine di batteristi hardcore, fosse solo per quel 2/4 (il classico tu-pa/tutu-pa) che da ragazzo era l’unico tempo che mi interessava imparare a suonare! Eppure, nonostante il listone appena terminato, non sono un fanatico dei batteristi, a me vedere per esempio i video di sola batteria è come vedere uno che se lo mena mentre si autoriprende col telefonino…eppure qualche video di Hellhammer o Dave Lombardo ha il suo perchè, osservare Dave in doppia cassa da dietro la batteria o Hellhammer che spara dei blast-beats con tremila rullate e tocchi di piatti a corredo con una facilità estrema, mentre io non capisco nemmeno quello che sta facendo, è sicuramente un bel vedere. Però ho sempre pensato che nella musica, specie in quella che piace a me, prima di tutto c’è il pezzo in sé, poi ci sono i riffs di chitarra, il cantato, le armonizzazioni e infine arriva la sezione ritmica, il basso a sostenere ed impreziosire e solo alla fine la batteria, che deve reggere il pezzo. E basta. Che un pezzo orrendo suonato da un super-batterista rimane un pezzo orrendo, un gran bel pezzo suonato da un batterista scarso rimane un gran bel pezzo. Mi hanno sempre fatto un po’ ridere e un po’ incazzare quelli, generalmente componenti di death metal bands minori, che dicono “abbiamo un gran batterista”. E i riffs dico io? Come sono i riffs? I Morbid Angel sono i Morbid Angel per i riffs di Trey Azagthoth, la batteria di Pete Sandoval è solo la ciliegina sulla torta, la band funzionerebbe anche con un batterista meno tecnico, fidatevi! Un esempio calzante è quello dei Possessed, Mike Sus era un batterista piuttosto dozzinale, ma la cosa passa tranquillamente in secondo piano grazie al duo chitarristico Mike Torrao/Larry Lalonde (sì, quello dei Primus) che imperversa con riffs devastanti ed armonizzazioni da brivido (vedasi soprattutto l’album “Seven churches”, disco impressionante e fra l’altro inciso da loro più o meno sedicenni durante le vacanze di Pasqua!!). Ah beh, sì, se mai avete ancora qualche dubbio, io non sono capace di suonare (nel senso reale del termine), ok? ;-)

 

SLAYER – Evil has no boundaries (1983)
Sottotitolo ‘Correva l’anno…’ …2007, siamo a metà settembre, il sottoscritto all’epoca dei fatti ha 34 anni/quasi 35, un’attività in proprio sufficientemente remunerativa, una vita sentimental/sessuale tutto sommato soddisfacente, delle relazioni sociali decenti, una discreta cerchia di amicizie, una famiglia abbastanza equilibrata. Ma adesso sono le 18.30 di un lunedì sera, fra poco più di un’ora la mia squadra di calcio a sette A.C. Dehler 347 scenderà in campo contro i padroni di casa dell’Oratorio di Chiavenna per la prima giornata di un torneo locale. Loro sono una squadra abbastanza forte, semifinalista l’anno prima, tosta e ben messa in campo, e sicuramente guidata da poteri divini. E dato che il giorno stesso è un po’ troppo tardi per imparare a giocare a calcio meglio di loro, qualcosa bisogna fare, mi dico. E così mi ritrovo da solo in casa, sul piatto ho messo il vinile di “Show no mercy” degli Slayer, sono in slip e a torso nudo, in mano ho un Uni Posca rosso. E comincio, come in trance demoniaca, a disegnarmi una serie di croci rovesciate e di 666 random su piedi e torace (e, posseduto dallo spirito dei Sadistik Exekution, mi scrivo anche un ‘fukk’ sullo stomaco, che non c’entra nulla, ma già che c’ero…). Il tutto perché siamo contro le forze del bene, l’Oratorio, quindi rovescio le parole di Dan Akroyd in “The Blues Brothers” e mi dico ‘siamo in missione per conto di Satana’. Il tutto, chiaro, è soltanto una carnevalata che ho fatto per farmi quattro risate da solo, io che, citando Paolo Villaggio, sono un cartesiano puro e fra l’altro pure ateo/agnostico. Però, quando stiamo vincendo 3 a 2 e loro prendono una traversa clamorosa, sotto sotto penso che sia stato il principe delle tenebre a dirigere il pallone. E quando sembra che Mirko (il nostro portiere) obblighi in qualche maniera gli avversari a tirare nelle sue mani durante i dieci minuti di fuoco finali (che in confronto quel Valencia-Inter della Champions 02/03 sembrava l’amichevole fra le nazionali di cantanti e magistrati) a me sembra di sentire nell’aria l’ipnotica “Come to the sabbat” dei Black Widow (1970, gente!) portata dal vento… E quando poi l’arbitro nega due rigori (di cui uno solare) all’Oratorio, non era forse sotto l’influsso dell’incantesimo teso da Satana? E i rimpalli a noi favorevoli (tanti, troppi) non erano opera delle nere legioni infernali? E che mi dite dell’Antonio che gioca un partitone come mai prima e mai più dopo e segna due gol impressionanti come se fosse posseduto dallo spirito di George Best il maledetto? E non erano le forze del male a guidare la punizione del definitivo 3-2 direttamente dal piede del Fabio alla testa del sottoscritto che la devia quel tanto che basta (era una punizione di seconda)? (no, non ho esultato mimando riti satanici, ero troppo occupato a far vedere all’arbitro di averla toccata io per evitare l’annullamento del gol…timore comunque infondato, quella sera nemmeno Moggi avrebbe potuto fare qualcosa contro l’A.C. Dehler 347 From Hell). Non lo so, né mai lo sapremo, eppure qualcosa di strano c’era quella sera in quel campo! ;-) (ah certo, poi la doccia me la sono fatta a casa, ovvio che avessi vergogna a farmi vedere conciato in quel modo!).

 

ANTHRAX – Madhouse (1985)
Di tutta l’avventura più che ventennale di ‘Nessuno Schema’, raccontata con ammorbante dovizia di particolari nel lunghissimo articolo Behind the scenes, ho a tutt’oggi un solo, unico, grande rimpianto: non aver mai stampato le magliette della fanzine. Certo, potrei farlo ora, ma non avrebbe più senso. Avremmo dovuto farlo nel 1997, dopo l’uscita del # 7, come avevamo programmato. Avevamo la disegnatrice, l’Eleonora, e avevamo l’idea. Sarebbe stato un disegno nello stile di quello in bianco e nero sulla busta interna dell’album “Spreading the disease” degli Anthrax, con le caricature dei cinque componenti della band davanti e dietro quelle dei loro managers, roadies, amici, ecc.ecc. Davanti ci saremmo quindi stati io e il Marco, io con una maglietta dei Celtic Frost e lui con una degli Anthrax stessi (così abbigliati comparimmo comunque in una vignetta del # 7), e dietro tutti quelli che avevano qualcosa a che fare con ‘Nessuno Schema’. Dai collaboratori fantomatici, Mello Biafra con l’ovvia t-shirt dei Dead Kennedys e The Alternative ’70 con la maglia del tour Mighty Mighty Bosstones+Mudhoney+Sick Of It All (ma non c’è mai stato un tour così! direte voi. Appunto, dico io!) a tutti i nostri amici di cui avete letto sempre nel Behind the scenes: l’Alex con una maglietta dei Pubertas Morbegno, il Bonello con una dei Pogues, il Budda con la maglia dei Venom, il Valentini con una dei Gun Club, il Mauro con quella dei Clash, Franco Tivano con quella della sua ‘zine ‘Bestial Devotion’, e poi Gege Maggi, il Professor Botka, il Diego, ecc.ecc.ecc. E poi altri individui fantomatici: l’Anticristu degli Arcane Dubiners ed almeno un componente a testa per i vari Morbid Impalator, Figa De Ferr e Tantra. Sul lato destro, dove gli Anthrax avevano messo Daffy Duck col fumetto “mosh!” volevo metterci uno dei miei cani, Brett, che era apparso su una mia column del # 6 in cui raccontavo di come l’avessi trovato da cucciolo per strada. E non sarebbero mancate mia nonna Adriana e la sciùra Gianna, la mamma del Marco. Sopra il gruppone il logo della fanza in grande. Maglietta bianca e disegno in nero, rigorosamente come quello degli Anthrax. Era un lavoro impegnativo, ma con l’ausilio delle foto per ogni personaggio come modello la nostra disegnatrice sarebbe stata in grado di svolgerlo tranquillamente. Non ricordo poi perché alla fine non se ne fece nulla e purtroppo sarà un rimpianto che mi accompagnerà fino alla tomba…

 

TOY DOLLS – The devil went down to Scunthorpe (1997)
…e anche to Morbegno! Ebbene sì, ho visto il diavolo nella piazza della cittadina bassovaltellinese. Era il maggio del 2008 ed erano in corso i festeggiamenti per il sedicesimo scudetto interista (quello vinto all’ultima giornata con la doppietta di Ibra a Parma). Io sto chiacchierando col Rocco quando noto un individuo completamente avulso dal resto della gente che affolla la piazza. Un uomo sui cinquanta abbondanti, alto, magro, dal volto affilato e molto pallido con le orecchie leggermente appuntite, due baffetti appena accennati, una barbetta caprina e i capelli neri ben pettinati con una scriminatura sul lato sinistro della testa. Occhi nerissimi e che mandano un vago bagliore, ma quest’ultimo particolare mi sa che me lo sono immaginato io! Indossa un costoso completo nero, eleganti scarpe anch’esse nere e sorride in maniera sinistra mentre se ne sta fermo in mezzo all’orgia di sciarpe e bandiere nerazzurre. Sembra quasi che quest’uomo non appartenga alla scena che si sta svolgendo sotto i miei occhi, ma provenga da un’altra dimensione, mi pare abbia addirittura una consistenza diversa da quella delle altre persone presenti. Lo indico al Rocco a cui espongo la mia idea e il mio socio si fa una risata e mi dice che il tipo ha in effetti qualcosa del diavolo. Mi distraggo un attimo seguendo un gruppetto di pazzi che passano a bordo di un furgone completamente dipinto di nerazzurro urlando come ossessi cori da stadio e quando mi giro nuovamente nella direzione dell’uomo misterioso questi è sparito. Per me era davvero il principe delle tenebre in trasferta valtellinese. E probabilmente nemmeno milanista come il simbolo della squadra rossonera suggerirebbe, ma interista! ;-) Ah, questo pezzo dei Toy Dolls è in realtà una cover con testo adattato di ‘The devil went down to Georgia’ della Charlie Daniels Bands, ma lasciatemi spezzare una lancia in favore di questa band di Sunderland, autrice di dischi fantastici dal lontano 1982 sino ai giorni nostri e i cui pezzi oi! sono il miglior oi! mai sentito al mondo!

 

IRON MAIDEN – Revelations (live 1985)
Sono in macchina lungo la Valchiavenna, è una sera del maggio 2009, sull’autoradio ho il primo cd di “Live after death” degli Iron Maiden, la stessa musica che ascoltavo diciamo ventitre anni prima sulla stessa strada, solo qualche decina di metri più in là, sul treno che mi portava a scuola. Tempi andati, spariti nel vortice degli anni, ma sempre vivi con piacere nella memoria…e per forza, quando il massimo delle rogne che potevano capitarti erano un’insufficienza a scuola e una ragazza che non voleva saperne di te, non potevano che essere bei tempi. E poi a quell’età (quattordici/quindici/sedici anni) è tutto nuovo, è tutto interessante, le giornate durano settimane, le settimane mesi, i mesi anni…adesso invece è esattamente il contrario. Tempi di Heavy Metal e di calcio: Nikki Sixx e Nicola Berti, Frank Bello e Franco Scoglio, “H.M.!” e “Guerin Sportivo”. E mi ricordo un’estate (’86 se non ricordo male) in spiaggia a Piona, la radio che spara a tutto volume “Two minutes to midnight” e Marco “il genovese” che durante la parte in cui il gruppo rallenta e Bruce Dickinson canta “the killer’s breed or the demon seed, the glamour the fortune the pain, go to war again, ecc.” mi dice estasiato “belìn, questo stacco è fantastico!” e io che sdraiato a pancia in giù annuisco, ma in realtà sto sbirciando un seno della Gio che si intravede sotto il costume cercando di non farmi vedere da lei. Ricordo che quando andavo in spiaggia a Piona legavo sul motorino lo stereo e ci mettevo le cassette dei Maiden o dei Metallica o dei Motley Crue da sparare a manopola al massimo lungo la Via dei Ciacc che porta appunto alla suddetta spiaggia. E anche in treno ricordo il medesimo stereo con volumi da parata nazista a diffondere gli immancabili Irons, Dio, gli Anthrax, ecc.ecc. …proprio io, che adesso se vado in treno e ascolto musica con le cuffie quasi mi vergogno se fuoriesce un po’ di rumore! Oppure quando d’estate a finestrini aperti sono fermo ad un semaforo con l’autoradio che magari sta diffondendo qualche ignorantissima strofa Oi! in italiano e pavidamente abbasso il volume senza osare alzare gli occhi verso i conducenti delle altre auto! E comunque, per chiudere in modalità metalfan-on, che gruppo gli Irons! Di quelli inarrivabili, dell’élite, i top-players del metallo. Ci sono e ci sono state decine di gruppi validissimi, ma sono solo loro e pochissimi altri ad avere il posto nell’Olimpo dell’heavy.

 

MERCYFUL FATE – Curse of the pharaohs (1983)
Va bè, grande band, grande pezzo, chevvelodicoaffà? Però negli anni ho sentito spesso sostenere che la band di King Diamond fosse portatrice di jella (un po’ come certe bands italiane che non oso nominare! E che non usurpano certo questa particolare fama, visti alcuni fatti acclarati…). Beh, non è vero! E lo scrivo con cognizione di causa, dato che poche ore fa mentre ascoltavo questo pezzo sull’autoradio e stavo percorrendo a discreta velocità una strada secondaria di un ridente paesino locale chiamato Verceia, un bimbo è uscito a razzo da un cancello e io solo per puro miracolo non l’ho abbattuto, e non nel senso che abbia frenato a pochi centimetri, no, proprio nel senso che mi ha mancato lui dei suddetti centimetri oltre che di una frazione di secondo. Ergo i Mercyful Fate, e anche King Diamond solista và, portano bene! ;-) E il bello, quello che ha salvato il bambino, è stato il fatto che stessi andando abbastanza veloce, non a livelli da Bo & Luke in salsa alto-lombarda, ma quel tanto che bastò ad evitare l’impatto. A proposito di Bo & Luke, mi ha sempre intrigato l’impatto del telefilm “Hazzard” sulla cultura locale delle mie parti, specialmente nei primi anni in cui detto programma veniva mandato in onda (1981 se non ricordo male, due sere la settimana, occasioni in cui io e i miei compagni delle elementari stavamo ovviamente incollati al video). E l’impatto fu trasversale, non solo a livello di bambini o di ragazzi sui vent’anni alle prese con le prime auto. No, persone di tutte le età guardavano “Hazzard” e, a loro modo, ne venivano influenzate. Da atroci Lancia Delta decorate come il Generale Lee (la macchina, una Dodge Charger, guidata dai due cugini Duke nel telefilm) con tanto di 01 sulle fiancate (e, nel caso di due fratelli di Samolaco, si vociferava addirittura delle portiere bloccate coi proprietari che salivano in auto entrando dai finestrini come Bo e Luke) a settantenni che dopo aver regolato le mucche correvano in casa “a vardà l’ ‘Hazzard’ in televisiùn!“ sentendo il telefilm vicino alla propria realtà, con la fattoria dello zio Jesse che poteva essere la loro. Non diffusissimo (eravamo pur sempre nell’Italia di provincia appena uscita dai 70’s), ma nei mesi caldi abbastanza presente, l’utilizzo degli shorts di jeans da parte delle ragazze (ragazze che adesso hanno più o meno cinquant’anni), come Daisy, la cugina di Bo e Luke. E ricordo di aver sentito insospettabili uomini di mezza età affermare di portare la camicia con le maniche rimboccate “cuma ‘el Bo Duke” o di fumare dei sigari “cuma quei del Boss Hogg”. In effetti l’ambientazione di Hazzard (profonda provincia americana, macchine veloci e strade sterrate, fattorie e bettolone, vedasi il mitico Boar’s Nest) non era tanto dissimile, anzi, dalla realtà locale delle mie parti, per cui la gente, chiunque praticamente, sentiva suo quel telefilm, diversamente dai vari “Magnum P.I.” (troppo differenti le Hawaii) o “A-Team” (troppo fumettistico), apprezzatissimi pure loro qui in zona, ma provenienti da un altro pianeta. A proposito di pianeta, quindi di cosmo e quindi di cartoni animati a tema spaziale, non posso fare a meno di ricordare che, qualche anno prima di “Hazzard”, il cartone “Atlas Ufo Robot”, ottimamente ricevuto dalla popolazione locale, ispirò il soprannome El Goldrake dato ad un anziano di Dubino per via della testa calva dai cui lati si dipartiva quel che restava dei capelli in maniera terribilmente simile alle corna del robot protagonista della serie. Una di quelle genialità di paese da cui rimango sempre affascinato.

 

DAVID BOWIE – Heroes (1977)
Ognuno, volente o nolente, ha i suoi eroi personali nella musica che preferisce. No, non idoli, quella è una cosa che lascio volentieri ad altri, anzi io ho sempre considerato i musicisti delle bands che ascolto da quando ho iniziato ad interessarmi di musica come parte di una mia ipotetica famiglia allargata, forse perché alla fine ho passato più tempo con loro (da intendersi ovviamente con la loro musica) che con zii e cugini veri, da li’ quell’affetto verso gente assieme a cui, in un certo modo, sono cresciuto. Che so, Lemmy o Rob Halford sono come degli zii, i Metallica e gli Anthrax sono come dei cugini di una decina d’anni più di me. E ognuno, come parenti veri, ha le sue caratteristiche e peculiarità: Ray Cappo e John Porcell degli Youth Of Today sono due cugini appena appena più vecchi che la menano sul non bere/non fumare e sul vegetarianesimo, un po’ craponi e rompicazzo, ma alla fine due bravi cristi. Vince Neil dei Motley Crue è quel cugino di qualche anno più vecchio che scopa come un riccio e per quello tu non ti capaciti di come possiate essere parenti. Jello Biafra è quello zio che è entrato in politica a sinistra, grande affabulatore che alle riunioni di famiglia si prende subito la scena raccontando di corruzione e sorprusi. Joan Jett è quella giovane zia, carina e dall’aspetto fine, che però si dice in giro che non le piacciano gli uomini, ma a te questo non importa perché la zia è simpatica e dolce e chissenefrega se è di orientamento lesbo. E così via. Noi ragazzini figli dei 70’s e cresciuti negli 80’s li sentivamo questi legami, eccome. Ricordo un’estate (1987 mi pare), c’era qui in vacanza un certo Monti di Piacenza (mai saputo come si chiamava di nome, mi sa!), ospite di una famiglia piacentina con casa-vacanza a Colico; lui quando saliva girava con me e la mia compagnia e, nonostante l’aspetto pseudo-paninaro, era un grandissimo metal-fan. Ho questo vivido ricordo: torniamo a casa in gruppo dalla spiaggia verso sera e ci accordiamo per trovarci alle nove (bei tempi però, cavolo!), il Monti mi guarda e mi dice “passo a chiamarti alle otto, andiamo prima un salto io e te al Birrbante –birreria locale, adesso al suo posto c’è il ristorante La Voglia-, a parlare di musica…e poi Bruce Dickinson si concede sempre una birretta la sera prima di uscire!” (un misto di entusiasmo per il metallo, con le supposte abitudini serali del cantante degli Iron Maiden quasi fosse un parente/amico, e di ingenuità adolescenziale che sono quasi commosso a scriverlo adesso). (continua)

 

MOTORHEAD – Ace of spades (live da vhs 1986)
(riprende) Faccio quindi fatica, molta fatica, a mettere sullo stesso piano gruppi di persone più vecchie di me o al limite coetanee (inteso come qualche anno su e giù dal mio 1972, ovvio) e quelli composti da gente ventenne che adesso si atteggia grazie alle pappe pronte dei “vecchi” e che quando io ascoltavo Metal e Hardcore già da anni, si scagazzava ancora addosso emettendo suoni disarticolati (che questo poi, in certi casi, anche cresciuti…). Sì, è l’errore che si fa quando senti una cosa come tua e non vuoi vederla rovinata dal ricambio generazionale, per quanto poi qualche new entry si salvi sempre e sia meritevole (e questo lo concedo eccome, anch’io ho una manciata di bands contemporanee che mi piacciono), anche perché spesso sono gruppi e persone che portano rispetto a chi è venuto prima e gli ha spianato la strada. Alla gogna invece chi ride della semplicità e dell’ingenuità del Metal classico della prima metà degli 80’s o dell’Hardcore da due/tre accordi fuori tempo e registrato da schifo dello stesso periodo: senza quella gente là voi adesso stareste facendo altre cose e le parole Metal e Hardcore vi farebbero solo venire in mente rispettivamente acciaierie e cinema porno! E poi il tempo, relativo ovviamente, ma com’è che, poniamo dal 1960 al 1990, nascevano nuovi generi alla velocità della luce e i gruppi registravano un disco all’anno, se non addirittura due in certi casi! Ora ne fanno uno ogni quattro anni in media. Mancano le idee? Direi di sì. Non credo sia (solo) una questione di marketing per cui le entrate adesso arrivano più dai concerti, dal merchandising e al limite dalle raccolte, che dai dischi nuovi. Nuovi generi è chiaramente difficile crearne: le idee scarseggiano, l’estremo è stato raggiunto, ormai puoi solo imbizzarrirlo un po’ (come quel gruppo grind con due pitbull -sì, proprio i cani- alla voce! Una cosa comunque già sperimentata dai Pink Floyd nei primi anni settanta), ma al massimo strappi un’alzata di sopracciglia, non susciti lo stupore del sentire, che so, i 7 Minutes Of Nausea o gli Anal Cunt nell’88/89. Adesso sì, imbastardisci un altro po’ i generi esistenti, ci metti la produzione moderna ed ecco le varie “nuove scuole” e le sperimentazioni di oggidì…poi gratta gratta trovi tutte le radici che sono sempre meglio della pianta che ti viene propinata! Ecco, questa è proprio la roba che non volevo scrivere, fare polemica su queste cose lascia veramente il tempo che trova, ma stavo guardando una vecchia videocassetta dei Motorhead degli 80’s e ‘ste cose sono sgorgate in maniera naturale…sia maledetto lo zio Lemmy! ;-)

 

VINCE NEIL – Gettin’ hard (1993)
Perché voi ragazze/donne pensate che se uno fa parte di una band, quando va a suonare in giro trova regolarmente fanciulle disponibili al solo schioccare delle dita? Sì, magari avete in mente lo stereotipo della rock band di successo, ma vi ricordo che qui siamo nella più infognata provincia dell’impero e che la gente come me si muove in ambiti non esattamente paragonabili ai concerti e al relativo giro di, che so, Kiss o Motley Crue. Io in ventitre anni di onorata militanza le ragazze che ho incontrato ai concerti e che mi sono fatto nei camerini o nel tour-bus sono le stesse di Freddy Mercury o George Michael, anzi probabilmente meno che magari un diversivo loro, notoriamente gay incalliti, se l’erano pure concesso. E fra l’altro c’è anche da dire quali camerini? E quale tour-bus? Ma questa è un’altra storia… Nell’ottobre del 2002 andai a suonare coi Gradinata vicino a Udine e la ragazza che frequentavo all’epoca da un paio di mesi (non faccio il nome per correttezza), pur senza dirlo chiaramente, si lasciò scappare qualche frasetta finto-ironica e un po’ risentita (e non stavamo nemmeno assieme!) in riferimento alle innumerevoli occasioni chiavatorie che sicuramente avrei avuto nel lontano Friuli. Ripensavo a queste frasette quando sul posto, verso la mezzanotte, stavo cercando di spiegare ad un giovane skin, parecchio ubriaco e molesto, che anche se avevo scritto sulla mia fanzine che ascolto gruppi di destra ciò non significa che il mio pensiero politico sia orientato da quella parte, ecc.ecc.ecc.ecc. (situazione, vissuta già plurime volte, da cui nell’occasione mi tolse d’impaccio il Papo che si avvicinò stile Bud Spencer al tipo e gli sillabò sul muso “ognuno ascolta quel cazzo che gli pare e non deve certo giustificarlo a te, chiaro?” col ragazzino che abbozzò un incerto “sì…va bene”). Ecco, succede questo ed altro, ma niente di quello che pensate voi. Quella che è stata sei anni con me se n’è accorta presto di come vanno le cose per noi provinciali del rock. Certo, è anche una questione di tipo di musica, non sono molte le ragazze attratte da strofe tipo “tabacco e spinaci, pupe procaci” oppure “guarda la bionda, guarda le zinne” o il classico “il calcio è una cosa seria, Sondrio merda”, i nostri sono più testi per quindicenni hooligani-erotomani. A riprova di ciò quando nel 2002 uscì il nostro primo disco, la mia amica Vero mi disse che il pezzo che ascoltava di più, in repeat continuo mentre studiava, era “Carry Oi!”. Che difatti non è nostro, è una cover di “Carry on” dei Manowar. E a me apparve Louis Marullo in arte Eric Adams, cioè il cantante dei Manowar, in mutande di pelo e bicipiti in evidenza, sdraiato su un divano e circondato da un gruppetto di discinte zoccolone adoranti, che mi guardò sogghignante e mi disse “hai già capito da te, ragazzo”. Chinai la testa, sì signor Marullo oops Adams, avevo capito. Ora capitelo anche voi ragazze/donne che pensate chissà che! ;-) E chiudo con un tristissimo aneddoto che mi raccontò lo Zonca: ai tempi in cui lui era il bassista dei Karsavina, la band suonò in una festa privata alla quale si era presentata una ragazza che piaceva al nostro. Ragazza che lo Zonca durante il concerto vide dal palco imboscarsi con un altro mentre lui era costretto a suonare una di quelle maledette covers dei Cure che tanto odiava. Storiella illuminante eh?

 

CRASS – White punks on hope (1979)
Partiamo con un paio di equazioni. Gruppo realmente politicizzato = Crass. Gruppo non realmente politicizzato (ricoperto però di patina pseudo-tale), ma influentissimo sulle “masse” = Clash. Eppure due gruppi importantissimi per chi scrive (anche se ovviamente musicalmente non c’è paragone, i secondi stravincono), ho appreso molto da entrambi, dai loro testi e scritti mai banali e sempre centrati. Come del resto è stato lo stesso per me con decine e decine di altre bands in ambiti punk ed hardcore. A fianco di queste, però, c’è sempre stata, e c’è tuttora, una fiera di ovvietà e di luoghi comuni diciamo così “alternativi” da mettersi le mani nei capelli o, in alternativa (appunto), da vomitare pranzo e cena. Che il “sistema” faccia schifo siamo d’accordo, non c’è neanche bisogno di dirlo (citazione da “Brian di Nazareth” per i più attenti fra voi), che tutti gli sbirri (facciamo quasi tutti, non generalizziamo proprio) siano dei bastardi (propongo quindi A.a.c.a.b., almost all cops are bastards, nuovo motto per l’ultrà intelligente che non generalizza) è la realtà, che la chiesa cattolica sia un’istituzione marcia fino al midollo è sotto gli occhi di tutti, che una società basata su soldi e potere sia una schifezza è sacrosanto, ecc.ecc. Però dopo più di trent’anni di questo tipo di testi siamo al livello di “l’acqua è bagnata” o “il fornello acceso scotta”, cioè, come dicevo prima, la fiera dell’ovvio e dello scontato, oltre che quello che ci si deve aspettare da un gruppo di un determinato genere. Guai a cambiare argomenti! Possibile che, per esempio, non ci sia mai almeno un testo anti-impiegati statali (però i Paolino Paperino Band, che la sapevano lunga, avevano una strofa a riguardo! Su statali e vigili urbani. Mi sto accorgendo che i testi dei modenesi dietro la patina divertita/divertente celavano grandi verità) e burocrati fancazzisti in genere? Il discorso è ampio e vale soprattutto per mille gruppi pseudo-politicizzati, pseudo perché quando un pezzo è (esempio tipo): titolo “Odio i nazi”, svolgimento “odio i nazi, bastardi morite, Hitler era un coglione, voi anche di più, ficcatevi nel culo i vostri scarponi, teste di cazzo dovete crepare” (inventata adesso su due piedi, mi propongo quindi come liricista per gruppi hardcore/crust a corto di idee, ha ha!) …insomma, faccio un po’ fatica a dare del “politicizzato”. Poi magari nei 70’s/primi 80’s anche un testo così poteva avere un vago senso politico, ma siamo nel 2013, certa gente non capisce che adesso liriche così sono controproducenti, perché il ragazzino dubbioso (o la persona matura, perché no?) non vuole sentire una serie di insulti da bar, ma vuol sapere perché si è preso la manganellata dal poliziotto intanto che guardava tranquillamente il corteo, perché al suo amico i marocchini fanno schifo, perché sul lavoro tendono a pagarlo il meno possibile, perché la gente ride di quel ragazzo dai modi gentili ed effeminati, perché la chiesa cattolica influenza così tanto la vita di tutti i giorni, ecc.ecc. e la risposta non è perché sono tutti una massa di stronzi (almeno, non è solo quella…), la risposta è tutto quello che c’è dietro ed è di quello che bisognerebbe parlare nei testi di un certo Hardcore (come facevano gli Infezione, però stavolta in una forma più rivolta all’uomo della strada). Oh, parere personale eh! Ad esempio mi è piaciuto molto il titolo di un disco abbastanza recente degli inglesi Active Minds, “It’s perfectly obvious that this system doesn’t work”, che più o meno significa “è perfettamente ovvio che questo sistema non funziona”, ecco è una cosa che vediamo tutti i giorni, dal politico al sociale, dal mondo del lavoro all’ambiente, dai rapporti interpersonali a quelli relazionali. Poi i testi non li ho letti dato che il disco non ce l’ho, ma immagino siano intelligenti e colpiscano nel segno, come (quasi) sempre quelli di questo duo inglese dal look normalissimo e composto da due fratelli (fra l’altro persone alla mano e corrette, per anni ci ho scambiato dischi per le rispettive distribuzioni). Per chiudere mi è flashato in mente adesso un geniale testo di un “pezzo” degli australiani 7 Minutes Of Nausea (chi li conosce sa perché pezzo è fra virgolette!) che recitava “say Oi! to Le Pen”, non ricordo il titolo, ma aveva a che fare coi naziskins francesi: per me geniale nelle sue brevità e semplicità, così alla “mi illumino di immenso”.

 

COCK SPARRER – Where are they now? (1982)
Ok, loro parlavano di Clash, Sex Pistols, Sham69 e in generale delle persone del giro punk del ’77 che non avevano tenuto fede ai propri proclami tradendo quindi i ragazzi che ci avevano creduto (anche se poi, a detta degli stessi Sparrer, qualcuno come Joe Strummer o Jimmy Pursey si farà poi perdonare), però io sto pensando a che fine hanno fatto quei gruppi minori, siano essi punk, hardcore o metal, o meglio i loro componenti. Che so, i punk-rockers svedesi Rude Kids di fine anni settanta, dove sono adesso nel 2013? Cosa fanno? Cosa pensano? E come loro gli hardcorers statunitensi di metà anni ottanta Peace Corpse? O senza andare troppo lontano i thrashers bergamaschi Bloody Anger, attivi nella seconda metà degli 80’s? E come loro mille altri. Ascoltano ancora la musica che suonavano al tempo? Ricordano con piacere i dischi e i demo che hanno inciso o li rinnegano, giudicando quegli anni come un capitolo della propria vita in cui erano solo dei giovani irresponsabili? Qualcuno di loro suona ancora? Se sì con chi e a che livello? Per passione in saletta e basta o per incidere dischi e fare concerti? Chi più, chi meno, sono stati tutti eroi di cui nessuno ha cantato le gesta, salvo venire magari un po’ riscoperti anni e anni dopo perché qualche gruppo conosciuto ne ha fatto una cover. Eppure magari ancora adesso c’è qualcuno in giro per il mondo che ascolta un demo dei Bloody Anger, magari in auto dopo averlo scaricato grazie alle vie del file-sharing che sono infinite, e batte il tempo sul volante. Ed è questo il bello, la magia della cosa. E tocca anche me. Sì, perché noi gente di provincia (senza una chance, come direbbe il Balestrino) in qualche maniera (scambi, promozione, internet stesso, qualcuno che si compra i cd) riusciamo a far sentire in tutto il mondo la nostra musica (di merda) ed ha un nonsochè di magico sapere che in un certo istante temporale c’è qualcuno in Malesia, in Giappone, in Argentina, in Nuova Zelanda, o anche solo in Europa o in Italia, che sta ascoltando quello che tu hai creato e magari, sottolineo magari, gli piace pure! ;-) Metti uno, che so a Singapore, che sta battendo il tempo su un pezzo dove ho suonato io, nello stesso momento in cui qua sto lavorando o, per questioni di fuso orario, dormendo. Come ad esempio sto facendo in questi giorni io in giro per lavoro in macchina coi pezzi della compilation di oi! italiano anni ottanta “Quelli che urlano ancora” e penso a dove saranno quei batteristi in questo momento? Come magari il singaporiano sta pensando chissà chi sono e cosa fanno adesso questi quattro idioti, che stanno in un posto lontanissimo chiamato Morbegno, di cui sta ascoltando il disco? ;-)

 

AT THE GATES – Blinded by fear (1995)
Gran pezzo questo, tratto dall’ultimo album della band svedese, un ottimo disco che però ha avuto la “colpa” di dare il via ad una serie di vomitevoli imitatori di questo particolare stile di death metal ibridato con vecchio thrash da un lato e suggestioni melodiche dall’altro. E anche il videoclip di questo pezzo ha le sue “colpe”, quelle di aver lanciato la moda dei video filmati in parcheggi sotterranei o, peggio, in capannoni industriali dismessi. Sarà che io di capannoni, fabbriche et similia ne vedo tutti i giorni per lavoro e quindi ne ho abbastanza, però da un videoclip vorrei una storia filmata e possibilmente una divertente. Video come quelli di “Smoking in the boys room” dei Motley Crue o di “We’re not gonna take it” dei Twisted Sister, per intenderci. Ok, quello era un altro tipo di metal, d’accordo, però gente come gli Immortal o gli Emperor hanno dimostrato che si può riempire gli occhi dello spettatore coi propri videoclips anche suonando metallo estremo. E, al di là delle pose assurde, divertendosi un mondo, mi sa! Dai, solo negli ultimi anni, fra video di big-bands e video di gruppi più underground (anche italiani, anche locali), ho visto più fabbriche dismesse io di un abitante di Birmingham. Pose seriose, sguardi accigliati, colori grigi, e che cazzo! Allegria gente, come diceva la buonanima di Mike Bongiorno. A queste bands composte da individui seriosi ed anonimi preferisco addirittura una cover-band che so dei Motley Crue, composta da quattro improponibili impersonatori dei quattro Motley in versione italiana con nomi tipo Vincenzo Nela, Michele Marte, Nicola Sei e Tommaso Litti. E ho detto tutto!

 

JOHNNY THUNDERS – I only wrote this song for you (1985)
Da intendersi qui come ‘I only taped this song for you’ e ritornando quindi sull’argomento a distanza di qualche anno. Chi non ha mai compilato una cassetta da regalare ad una ragazza? Probabilmente molti di voi non l’hanno mai fatto, ma io sì e pure in maniera recidiva! Dopo alcuni tentativi embrionali da scuola superiore su cui stenderò un velo pietoso, ricordo uno di questi mixtape (credo fosse il ’92), una c90 con pezzi di 7 Seconds, Dag Nasty, Bad Religion, Fugazi, Kina, Hüsker Dü, Adolescents, ecc. (pensate un po’ voi coi pezzi Hardcore raramente superiori ai due minuti quanto tempo ci avevo messo!) che regalai ad una ragazzina di un paio di anni più giovane di me dopo aver racimolato un limone un paio di sere prima. La cassetta venne persa dalla fanciulla senza che l’ascoltasse mai e io con lei non feci il minimo passo avanti rispetto al french kiss di cui sopra… Quando raccontai a Giampiero dei Kina dell’inclusione di un loro pezzo in questa particolare compilation, il bassista della band aostana si mise a ridere e mi consigliò di “non inserire più i Kina a scopi simili…portano sfiga!”. Da allora decisi che avrei compilato delle cassette (e in tempi più recenti dei cd) solo a risultato completamente acquisito, eccezion fatta ovviamente per quelle compilations destinate ad amiche o amici. Anche se ci fu un’eccezione fatta di un pezzo singolo su di un cd, ma è un’altra storia, come dicevano gli Squallor nella title-track di “Manzo”. E ci furono alcuni cd per colei che ha avuto l’onore/onere di passare sei anni assieme al sottoscritto, come ce ne sono stati, cd e cassette, per quelle altre due che in passato intrecciarono una relazione seria con chi scrive. E adesso, da single, vorrei quasi quasi non essere più tale unicamente per poter riempire la mia amata di cd-r in quantità pari a quella della discografia degli Agathocles ;-) (per profani/e, un gruppo grindcore belga che ha superato i duecento titoli dall’87 ad oggi!). Però poi, le femminucce li apprezzano questi cd? Al di là di quelle che certa musica la ascoltano già da sé, ovvio. Uhm, non saprei e non ne sarei così sicuro! Certo, uno li compila perchè ritiene che quelli siano dei bei pezzi e che quindi possano piacere anche alla dolce metà, perché quei brani hanno a volte dei testi il cui significato può essere vagamente applicabile alla relazione in questione, perché sono canzoni che per te che le stai mettendo assieme sono state importanti nella tua crescita e quindi pensi che sia come dare all’amata un qualcosa di te sottoforma di note, ecc.ecc.ecc. Ma, ripeto, vengono poi veramente apprezzati? Chiudo con un aneddoto abbastanza in tema: riguarda la mia amica A. (che, per sgombrare il campo da equivoci, non sta per l’Alida degli Eternit, di cui avete letto nell’articolo precedente a questa sorta di diario) un giorno mentre le davo un passaggio fino a casa: lei mi fa vedere ‘sto cd-r che uno dei suoi spasimanti le aveva appena regalato e mi chiede di metterlo nell’autoradio. Tolgo il cd (originale) di “Transilvanian hunger” dei DarkThrone e lo rimetto nella custodia, con la mia passeggera che guarda a metà fra stupore e schifo la foto di copertina con Fenriz in posa da vampiro, sangue in bocca e candelabro in mano… Inserisco il cd-r…cristo di dio, una serie di gruppi emodemmerda (per citare i Tear Me Down) da spararsi per lo schifo. A. (solo l’iniziale, per salvaguardare la privacy, quella dello spasimante) mi dice ‘non mi piace ‘sta roba, tu cosa ne pensi?’ e io ‘mandalo affanculo’, e lei ‘ma io intendevo cosa ne pensavi del cd’, e io ‘appunto, uno che ascolta ‘sta musica di merda non è un uomo e non ti merita’. E se non fossi stato all’epoca felicemente fidanzato avrei proseguito con ‘i miei ascolti preferiti sono Motorhead, Bloody Riot, Circus Of Power e Zodiac Mindwarp, e vengo da Colico, dove notoriamente gli uomini si comportano come uomini e la carne è rossa: sono io l’uomo per te, piccola’ ;-).

 

SEPULTURA – Necromancer (1985)
Avvertenza: quello che segue è un articolo per “iniziati”, chi non ha voglia di imbarcarsi in una selva di nomi e titoli, peraltro anche abbastanza gratuita, passi pure oltre! Negli anni ho avuto spesso modo di discutere animatamente dell’argomento che segue con un amico di cui non farò il nome, ma soltanto il cognome: Rovedatti, Alessandro, un omaccione con due baffetti da sparviero! (credo che i nati prima del 1980 avranno colto la citazione da Drive In, con Gianfranco D’Angelo nei panni di Marina Ripa di Meana). In effetti, parlando di musica e gruppi, lui mi accusa del fatto che secondo me il miglior disco di qualsiasi band sia sempre e inequivocabilmente il primo. Accusa che contesto e che ora smonterò nei dettagli! ;-) Il fatto è che, come disse non ricordo più quale produttore di fama mondiale, il primo disco è quello che una band prepara in anni e anni modellando i pezzi via demotapes e concerti, mentre il secondo è quello che generalmente viene assemblato in pochi mesi e senza troppa pratica sui brani. Da lì spesso l’esordio risulta più curato, più sentito, più incisivo, mentre il disco (o i dischi) che seguono non ingranano mai e sono più piatti e noiosi. Ed è vero, soprattutto per bands minori o di media grandezza, mai per i gruppi di grido. Infatti, se andiamo a dare un’ occhiata ad alcuni generi (quelli su cui generalmente io e Alex ci siamo scannati per anni) e il mio giudizio venga formulato mediando gusti personali ed oggettiva validità di ogni disco, viene fuori quanto segue. Mi limiterò per decenza a pochi nomi, per non riempire pagine e pagine. Partiamo dal metallo classico e quindi dagli Iron Maiden: i primi sette dischi sono tutti da urlo, ma dovessi indicarne uno solo allora direi “Powerslave” (quinto). Manowar, io direi “Kings of Metal” (sesto). I Judas Priest hanno fatto un mare di bei dischi sparpagliando i grandi classici (nel senso dei pezzi) qua e là; io comunque indicherei “Defenders of the faith” (nono album datato ’84 di una carriera iniziata nei primi anni settanta). Ma forse queste big-bands non sono l’esempio adatto. E allora Manilla Road, di cui il migliore è chiaramente “Open the gates” (quarto) di stretta misura su “Crystal logic” (terzo). Riot, decisamente “Fire down under” (terzo). Armored Saint, beh, qui devo citare Carlo Verdone in “Acqua e sapone”: “ ’a mejo, la seconda”, dato che “Delirious nomad” (secondo album appunto) rimane il loro top. No, anche qui niente da fare! Spostiamoci sul thrash metal e vediamo i cosiddetti Big Four del genere: Metallica, beh, i primi quattro albums li adoro, ma il migliore è senza dubbio “Master of puppets” (il terzo). Anthrax, sicuramente “Among the living” (terzo) che brucia sul traguardo di pochissimo “Spreading the disease” (il secondo). Slayer, ovviamente “Reign in blood” (il terzo), fermo restando che i primi cinque dischi sono tutti fantastici. Megadeth, anche qui i primi quattro sono una bomba e se dovessi indicare il migliore direi “Rust in peace” (che è addirittura il quarto). E se passiamo ai big four tedeschi indicherei “Extreme aggression” dei Kreator (quarto), “Infernal overkill” dei Destruction (primo, questo sì, ma segue il mini-lp d’esordio), “Persecution mania” dei Sodom (terzo) che stacca di un’incollatura “Agent orange” (quarto) (menzione a parte per il mitico mini-lp d’esordio comunque) e “The meaning of life” dei Tankard (quarto). E poi, prendendo nomi a caso, Celtic Frost diciamo “Into the pandemonium” (terzo) di un paio di centimetri su “To mega therion” (secondo), VoiVod facciamo “Killing technology” (terzo), Bathory “Under the sign of the black mark” (terzo) con “Blood fire death” (quarto) dietro a qualche decimo di secondo. Gli italiani Bulldozer? Beh, “Neurodeliri” (quarto). E i Necrodeath? Ecco, qui sì, “Into the macabre” (primo), ma “Fragments of insanity” (secondo) è quasi a pari merito. Gli Schizo invece senza ombra di dubbio “Main frame collapse” (il primo), dopo hanno avuto una parabola discendente. Nell’hardcore/punk-rock è un po’ più difficile, dato che spesso la discografia dei gruppi si frammenta fra 7”, dischi split con altre bands, mini-lp’s ed albums veri e propri, però, se parliamo di “big bands” statunitensi posso snocciolare via via “No control” dei Bad Religion (terzo), “White trash, two heebs and a bean” dei NoFx (quinto), “Warehouse: songs and stories” degli Hüsker Dü (settimo ed ultimo pre-scioglimento), “My brain hurts” degli Screeching Weasel (terzo), ma anche “Fresh fruit for rotting vegeatables” dei Dead Kennedys (primo, stavolta sì), mentre è vero che molte hardcore bands anche conosciute hanno sfornato un primo album capolavoro e una serie di dischi scialbi (o comunque peggiori dello sfolgorante esordio) a seguito (Zero Boys, Adolescents, Black Flag stessi), oppure hanno fatto un album e basta, come nel caso dei Gorilla Biscuits dell’inarrivabile “Start today” o di molti gruppi italiani. E se a livello nazionale facciamo scorrere un po’ le discografie dei due nomi più noti e prolifici, metterei come top dei Kina “Se ho vinto, se ho perso” (terzo) e come top dei Negazione “Lo spirito continua” (primo lp, ma segue due 7” e uno split). La realtà è che, è vero, nel caso di moltissime bands il disco migliore è veramente il primo, e in genere si tratta di quei gruppi che, dopo l’esordio, si mettono a scrivere pezzi più complessi, più lunghi, più tecnici e in generale spaccapalle! Non è sempre così, se ad esempio penso agli elvetici Coroner, fautori di un thrash piuttosto strano, è palese che il disco migliore sia l’esordio “R.i.p.”, ma gli albums che seguiranno sono tutti di ottimo livello. Idem per Testament (almeno i primi che seguiranno…) e Possessed, tanto per fare due nomi. Ma se penso a gruppi come, ad esempio i Crumbsuckers che dal devastante primo album “Life of dreams” passarono all’orrendo secondo disco “Beast on my back”, o i Cro-Mags da “The age of quarrel” (capolavoro) al palloso “Best wishes”, la teoria espressa più sopra trova conferma. E direi di fermarci qui. Con un’arringa ad hoc, cioè citando solo i gruppi che mi avrebbero dato ragione, smonto le accuse che il mio socio mi ha rivolto per anni e ottengo l’assoluzione da parte del giudice che, ovviamente, è Mike Judge della hardcore band newyorkese Judge (che esordì con un 7” spettacolare e proseguì con un album abbastanza noioso). Ah, tanto per fare incazzare Alex chiuderò indicando ancora una volta come top dei Sepultura “Morbid visions”, primo lp, e peccato che “Bestial devastation” (disco d’esordio) fosse uno split-lp, se no avrei indicato quello! ;-)

 

ZODIAC MINDWARP & THE LOVE REACTION – Backseat education (1987)
Cos’è il Rock? E’ una domanda stile quella ‘che cos’è il genio?’ che poneva Gastone Moschin nei panni dell’architetto Melandri in “Amici Miei”, ma la risposta in questo caso ha mille sfaccettature. Nel mio caso: marzo 2009, io e il Bassman in studio a Ferrara a registrare un po’ di chitarre per l’album dei Gradinata Nord (cioè io a fare da spettatore, ma dato che la batteria l’avevamo registrata nello stesso studio e il mio socio aveva suonato le ritmiche-guida di chitarra, dovevo in qualche maniera rendergli il favore): il sabato sera nella foresteria dello studio a dividere un pagnottone gigante col Lollo (il nostro fonico), prima di coricarci nei letti bisunti con le coperte piene di macchie sospette della “zona notte”. Io colto da un attacco di semi-dissenteria in un cesso gelido a trecento chilometri da casa che mentre evacuo anche gli intestini realizzo cosa sia la gloria di essere nei Gradinata. Il Bassman che, nonostante non funzioni il riscaldamento, ostenta con fierezza origini vichinghe che rafforza facendo docce gelate da infarto. Io che cerco disperatamente di dormire mentre nello studio al di là del muro un gruppo indie-rock sardo sta mixando un pezzo a volumi da soglia del dolore. Il Bassman che va a dormire in macchina alle quattro. Io che la domenica mattina accendo il cellulare e trovo l’sms “dai porcodio, I need to rock!” firmato da un Bassman smanioso di iniziare a registrare. Io e il Lollo che usciamo e veniamo accolti da un sorridente Bassman seduto al posto di guida del suo Kangoo: occhiali da sole, bandanona a metà fra Andy McCoy, Little Steven e il Berlusca al mare, Motorhead a palla sull’autoradio. Tutte istantanee di quello che per me, ragazzo di provincia ormai cresciuto, è il Rock ;-)

 

PRIMAL SCREAM – Miss Lucifer (2002)
Al bancone del bar per un caffè assieme al Fonta (col quale, come cantavano i Colonna Infame Skinhead “siamo cresciuti nello stesso quartiere, un inferno di ciminiere”. Ciminiere… oddio, le uniche che vedevamo noi ragazzi cresciuti a due passi dal lago erano quelle del Patria e del Concordia, due storici battelli a vapore del Lario) che mi chiede della fanza, se la faccio ancora, ecc. Gli dico che pian piano qualcosa sto sempre scrivendo e che prima o poi riuscirò a far uscire questo numero 10. La ragazzina sedicenne dietro il bancone mi guarda, fa brillare due occhioni scurissimi e, tutta interessata, mi dice “sul serio scrivi?” (immaginandosi probabilmente chissà che, magari romanzi rosa o, peggio, poesie ermetiche e quindi incomprensibili). Io ripenso alla scena del film “The football factory”, quando la nuova morosa di Rod chiede a Tom “E cosa fai nella vita Thomas?” e lui, guardandola sogghignando, pensa “Thomas? Prendo a calci in culo la gente per divertimento e tu dovresti saperlo cara dato che lo hai letto ad alta voce in tribunale” (la tipa era la cancelliera del tribunale in cui i due erano andati a processo per una rissa da hooligans e aveva conosciuto Rod in quella particolare situazione), ma poi invece risponde “Io? Lavoro molto e faticosamente”. Al che io fisso di traverso la ragazza con quel mio sguardo da delinquente esteuropeo (me lo disse un bosniaco anni fa: tu ha faccia da criminale nostro paese), penso “scrivo? certo che scrivo tesoro mio, ho scritto ‘Prete bastardo’ e ‘Cago su Morbegno’ degli Obbrobrio, oltre a ‘The pedifile’ e ‘Pure fucking analgeddon’ dei Deflorator”, ma rispondo sorridendo “sì, però sono cose poco adatte ad una ragazzina come te”, lasciandola sorpresa, delusa e forse leggermente incuriosita allo stesso tempo (poco dopo il suddetto bar l’ha rimpiazzata con un’altra, ma se per caso quella citata legge si faccia viva che una copia gratis per l’ispirazione gliela devo ;-) !).

 

IMPALED NAZARENE – Blood is thicker than water (1994)
Lo so, fare il traduttore è un lavoro infame. Lo so, vi pagano pochi euro. Lo so, avete poco tempo a disposizione perché vi tocca fare un altro mestiere più remunerativo e dovete fare l’impossibile per ritagliare qualche ora per le traduzioni. Però non si può tradurre così a cazzo! Parlo sia di libri a sfondo musicale (biografie et similia) che di romanzi di vari generi letterari. Faccio qualche esempio: don’t fuck with me non vuol dire non scopare con me, ma non immischiarti con me. Fuck around non vuol dire scopa in giro, ma cazzeggiare. Cristo, fuck non vuol dire sempre scopare, ma non vedete in che contesto sono inserite queste espressioni?? E’ come suck, non vuol dire solo e sempre succhia. Ho letto “il tuo caffè succhia”, traducendo your coffee sucks che invece sta per il tuo caffè fa schifo. Un altro abominio è quello dell’impiegato dato alle fiamme, da fired cioè licenziato. Giuro! Insomma, io che NON SO l’inglese non tradurrei così a cazzo! E quel poco che so l’ho imparato un po’ a scuola alle superiori (alle medie ero nelle classi di francese. No, non lo so parlare per nulla, ovvio), tanto leggendo testi di gruppi e fanzines/riviste, un altro po’ scrivendo a gente in giro per il mondo, un altro po’ quando ho avuto per un certo periodo una morosa straniera (e ci parlavamo in inglese, cioè lei mi parlava in inglese, io usavo una specie di linguaggio più simile all’esperanto che all’idioma albionico), un altro po’ ancora quando esco dai patri confini e chiacchiero con la gente (anche se temo che le conversazioni, almeno la mia parte, siano più simili all’inglese delle conferenze stampa del Trap da c.t. irlandese che all’english propriamente detto!). Ho letto traduzioni alla lettera di espressioni tipicamente inglesi come What goes around, comes around (che vuol dire Si raccoglie ciò che si ha seminato) con Quello che va in giro viene in giro, rendetevi conto! Oppure Blood is thicker than water (il sangue/la classe non è acqua) con Il sangue è più duro dell’acqua. E poi le “bestemmie” in ambiti specifici: il Valentini mi segnalava tube amp (cioè amplificatore valvolare) tradotto come amplificatore a tubo!!! Io segnalo un Chelsea played at the Marquee tradotto come Il Chelsea giocava al Marquee, tragico equivoco fra la punk band dei Chelsea e la squadra di calcio, che comunque mai avrebbe potuto giocare in quel rock club londinese, se non magari improvvisando una partitella di calcetto sul pavimento della sala con le borse sportive a fare da pali delle porte… Oppure una traduzione del testo di ‘Stay free’ dei Clash dove down the Crown viene tradotto come sotto la corona, quando in realtà questo Crown è un pub che porta questo nome (come quello di Rogolo fra l’altro, nota per i lettori locali) e leggendo il testo nella sua interezza lo capirebbe anche un cretino. I salad days non sono i giorni dell’insalata (cosa sarebbero? Giornate dedicate al consumo smodato di questa verdura?), cristo! Letteralmente sarebbero i ‘giorni verdi’ ed indicano quel periodo della gioventù in cui si è ancora ingenui, idealisti ed inesperti (è anche il titolo, assolutamente non casuale peraltro, di quel 7” dei Minor Threat uscito a band già sciolta). E questa gente lo fa di mestiere! Certo, qualche cazzata sul lavoro la facciamo tutti, ci mancherebbe, non siamo macchine, però questa è incompetenza vera e propria e senza giustificazioni. Non si può, a me cadono i cosiddetti quando leggo cose simili, specie nei romanzi, perché si spezza la tensione del racconto, il pathos, l’atmosfera che si era creata. Non si rendono conto questi traduttori che quanto scrivono suona male nell’economia della frase in questione? Che quanto hanno messo suona malissimo nel contesto? Io non voglio fare quello che la sa lunga, anzi, la mia conoscenza della lingua inglese, come ho già detto sopra, è pessima, ma quando mi imbatto in queste espressioni idiomatiche cerco sempre di andare a vedere cosa significano per curiosità e per capire meglio quello che sto leggendo. Adesso poi che c’è pure il web come luogo di ricerca non si possono più accampare scuse, dai! Con una conoscenza dell’inglese così atroce mi sembra quasi di tornare ai primi anni novanta col pezzo dei locali Karsavina ‘Time to fuck is come’, credo l’unico testo scritto dallo Zonca (che fra l’altro avevo conosciuto un paio d’anni prima in Eire, dove era stato spedito ad imparare l’inglese, appunto!), se non ai tempi della prima superiore quando un ragazzino di Dervio mi passò una cassetta con alcuni gruppi metal registrati dalla radio fra cui dei fantomatici Exhaiter (sì, scritto esattamente così), che scoprirò solo un bel po’ di tempo dopo essere i canadesi Exciter. Ed erano anni in cui l’inglese era una lingua abbastanza sconosciuta in Italia rispetto ad oggi. E di questo ne faceva le spese anche il giornalismo musicale “specializzato”: ricordo l’agghiacciante presentazione dell’album “State of euphoria” degli Anthrax su “HM!”, dove, accanto ad alcune castronerie di stampo musicale, il pezzo ‘Make me laugh’ era dipinto come la richiesta disperata di poter sorridere ancora (?!?), quando in realtà era un attacco ai predicatori religiosi che impazzavano sulle televisioni degli States in quegli anni e il significato è che “mi fanno ridere”. “HM!” è stato un giornale storico, pionieristico e fondamentale che io adoro tuttora, ma chissà le boiate che ci han propinato traducendo a cazzo da testate straniere e da risposte alle interviste sui metal-mags esteri! ;-)

 

DEATH – Zombie ritual (1987)
“Mi sono scopato la xxxx al ritmo di ‘Zombie ritual’ dei Death!” mi dice orgogliosamente il giovane yyyy. Faccio mente locale: il compianto Chuck Schuldiner (all’epoca Evil Chuck) che ringhia “stare into his eyes, now in his spell, kiss the rotting flesh, now you’re in hell” e la batteria di Chris Reifert che martella senza pietà. ‘Azzo! Povera crista, mi dico. A parte che Rocco Siffredi, quindi non proprio l’ultimo arrivato in questo campo, diceva che il ritmo ideale è quello della colonna sonora di “Rocky”, però dai, secondo la mia modestissima opinione il death metal ci azzecca proprio poco col fare sesso. Oddio, c’era il Luca “Mene” che vantava prestazioni con dischi di Decide, Pungent Stench, Obituary ecc., però io non ci ho mai creduto più di tanto, non al fatto che combinasse, quello era vero che era pure un bel ragazzo, ma al fatto che usasse questi dischi come soundtrack, però chissà, tutto può essere. Personalmente, quando c’è la possibilità di farlo con la musica in sottofondo e quando posso sceglierla io, ho sempre optato per bands glam, hair metal o hard rock commerciale, anche se nei primissimi duemila avevo compilato un cd-r appositamente per questo fine. Per chi la condivise con me: dato che leggerai di sicuro, te la ricordi “Red light fever”? (denominata come il pezzo dei Venom, la compilation presentava una serie di ipnotici pezzi dance/techno affiancati ad altri di laido-metal da parte di Type O Negative ed H.I.M., più brani sparsi di Bloodhound Gang e Moby e pure il pezzo ‘Emotional hooligan’, il dub di Gary Clail col cane che abbaia di cui avevo letto su un libro del solito John King). Ah sì, lei è la stessa di cui ho scritto riguardo alla trasferta udinese dei Gradinata, prima che sembri che io ne faccia girare come Gene Simmons ;-) e vi assicuro che purtroppo non è certo il mio caso (poi ok, come, che so, Nagatomo, che i suoi due gol all’anno li fa anche lui, pure io…). E comunque, ragazze/donne che leggete, trovàtene un altro che la mattina dopo la prima notte assieme ti mette su apposta il pezzo ‘Guilty’ dei Ritmo Tribale, quello che dice ‘…pensando a te che dormi nel mio letto, che un giorno te ne andrai, un giorno mi lascerai…’, trovàtelo! ;-)

 

NEGAZIONE – Lo spirito continua (1986)
Arese, dopo un concerto coi Gradinata. Ascolto affascinato il nostro giovane bassista parlare con un suo amico del milanese, citano una lista di gruppi hardcore ed etichette che io non ho mai sentito nominare nemmeno di striscio…in pratica in quello che era il mio mondo adesso non conosco più nessuno, come fosse un quartiere dove conoscevi tutti e adesso ci abita gente completamente diversa, degli estranei insomma. Figurarsi io, che quando si parla di Hardcore sono come quegli interisti da Inter Club Quand Che ‘l Ghera El Suarez, loro rimasti agli anni sessanta e il sottoscritto agli ottanta/massimo ai novanta. E, fermamente convinto che quello che c’era da dire in ambito hardcore/punk è stato detto tutto ormai da decenni, faccio una piccola riflessione pensando a quanti quintali di dischi anche solo di un determinato genere ci sono in giro per il mondo. E c’è gente che se li compra/copia tutti! Eppure avere mille dischi è come avere mille vestiti, quanti poi ne metti realmente? E lo dice uno che, ok, di vestiti non ne ha tanti, ma di dischi ne ha a centinaia. Quelli che servono davvero per capire un genere particolare, però, sarebbero solo una manciata di questi. Ad esempio, i due giovincelli di cui sopra parlavano di bands di Hardcore melodico o giù di lì; nel genere, per quanto mi riguarda, chiunque sarebbe a posto con questa serie di dischi (tutti databili fra fine 80’s e prima metà dei 90’s): Pennywise primo lp omonimo e ‘The unknown road’, No Use For A Name il mini ‘The daily grind’ e ‘Leche con carne’, Offspring ‘Ignition’ e il best-seller ‘Smash’, Lag Wagon ‘Duh’ e ‘Trashed’, Propagandhi ‘How to clean everything’, NoFx tutti quelli da ‘S&M Airlines’ a ‘Punk in drublic’…e mettiamoci anche Bad Religion, gli albums che vanno da ‘Suffer’ a ‘Generator’, anche se considero il gruppo di Greg Graffin un’entità un po’ a parte rispetto alle bands succitate. Ecco, a posto così per l’eternità! Anche se ci sono decine di altri gruppi in tema che non sono assolutamente male, anzi, ma che servono sono questi qua, punto. Poi però penso che i tempi sono cambiati (l’aveva predetto anche quel fricchettone yankee di Bob Dylan secoli fa!), che dagli anni di quei dischi sono nate e morte svariate nuove generazioni di bands, che adesso ci sono ragazzini che suonano ed ascoltano hardcore italiano e non conoscono “Screams from the gutter” dei Raw Power (ce ne sono, giuro), che è come se uno che tifa Inter non sapesse chi è Jair (per i profani/e è il brasiliano della Grande Inter anni ‘60 il cui gol decise la finale col Benfica, quella della seconda Coppa dei Campioni nerazzurra. Temo però che ce ne siano di interisti così, purtroppo) e torno in quel quartiere dove non conosco più nessuno, dove quando cammino per le sue strade i nuovi abitanti mi guardano con indifferenza e non riconosco più le insegne dei locali e dei negozi. E allora faccio una cosa, vado alla fermata dell’autobus, aspetto il bus, quello blu (è un omaggio-citazione questo) e mi faccio portare dall’altra parte della città, dove si suona sempre hardcore, i musicisti defunti vivono ancora e il tempo si è fermato ai primi anni novanta: bigliettaio un sola andata grazie, e i ragazzini che si fottano! ;-)

 

SUBTONIX – Too cool for school (2002)
Nel 2004 su uno dei suoi blog (Carburetor Dung) il Valentini, mio “muso” ispiratore da sempre, scrisse alcune righe che mi colpirono. Adesso adatterò quelle righe ad una mia giornata dell’estate 2011, la constatazione finale non sarà molto diversa dall’originale… Quanto ci si può sentire fighi (anche solo per pochi secondi) nel realizzare che: è fine luglio, si stanno per compiere trentanove anni, è una serata calda ma non troppo, si sta andando a prendere un’amica di lungo corso, sull’autoradio sferraglia un cd-r con “Sexual carnage” dei Sextrash (death/thrash band brasileira di fine anni ottanta con alla voce il purtroppo defunto Pussy Ripper, all’anagrafe Oswald Scheid, brasiliano di origini tedesche, roba da ‘Professor Kranz tedesco di Germania’ con Paolo Villaggio!), sul sedile del passeggero ancora vuoto c’è una busta con una fattura ad avere di circa 16.000 euro da imbucare, si è vestiti comodamente con una maglietta Lonsdale stirata di fresco, jeans puliti e converse basse. Quanto?? Rispondete. Ve lo dico io. Molto. Troppo. Esageratamente. Al limite della decenza. Oltre il consentito. Perché essere troppo fighi è controproducente. E non porta da nessuna parte. Sarà per questo che sono un disgraziato?

 

ROLLING STONES – Walking the dog (1964)
E’ una cover del bluesman americano Rufus Thomas, per la cronaca. Comunque, settembre 2011, tardo pomeriggio di un soleggiato venerdì. Parafrasando un classico minore dell’oi! italiano, ‘Porto a spasso la Violetta aspettando il rendez-vous’…col veterinario. Sì, perché la Violetta in questione è una cagnetta (una femmina di pointer), una degli otto cani dei miei genitori (sì sì, otto, e per la cronaca qualche anno fa ci fu un picco massimo di addirittura quattordici elementi). E’ stata chiamata Violetta per il suo aspetto dolce e fine e per il carattere molto mite, contrariamente ad uno dei suoi fratelli che già da cucciolo giovanissimo devastava il giardino davanti a casa dei miei, tant’è che mia mamma decise di chiamarlo Attila, cosa che io approvai in pieno, anche perché mi riporta alla mente sia il film con Abatantuono (a proposito, ma avete visto le raffigurazioni dell’Attila vero? Cavolo, è uguale a Diego!!), sia uno sketch dei Monty Python, sia Attila Csihar (il grande artista unghereseeee!, citando Fantozzi dal primo film della serie. Una sorta di Bela Lugosi tossico, oltre che cantante ultra-versatile per una marea di bands di vari generi, citerò le mie favorite cioè i Tormentor ungheresi e i norvegesi Mayhem). La cagnolina è piuttosto strana, dolcissima ma a suo modo un po’ autistica e inoltre soffre di epilessia, con crisi che da piccola la facevano sbattere anche per più di un’ora senza che poi riuscisse a mangiare per due o tre giorni, oltre a sballarla completamente al punto di farla scappare da casa per essere poi recuperata da qualche anima buona che la trovava a vagare in stato confusionale, una volta anche sulla statale con le macchine che facevano lo slalom per evitarla… E ha la particolarità di non reagire minimamente agli stimoli musicali, contrariamente agli altri cani (specie sugli assoli di chitarra, che probabilmente sono su frequenze particolari; ricordo ad esempio qualche anno fa un viaggio Colico-Valsassina con a bordo un incrocio viszla/pointer e sull’autoradio ‘The legacy’ dei Testament col cane che inclinava la testa ogni volta che Alex Skolnick partiva in assolo). Con la piccola autistico/epilettica sull’autoradio possono esserci Bad Religion, Cripple Bastards, Madball, Possessed, ZZ Top (sto andando a memoria ricordando trasferte dal veterinario o missioni di recupero della suddetta), che lei mantiene sempre la stessa espressione da sfinge. Immagino e temo che anche con dischi di Malmsteen o Satriani (per profani/e, due chitarristi della madonna i cui albums sono infarciti di super-assoli) la cagnetta non si smuoverebbe dalla sua espressione fissa e placida… Prima di entrare nello studio veterinario la porto a fare pipì vicino all’oratorio di Colico. Lei espleta la propria funzione corporale e io mi siedo un attimo sul muretto dove c’è il playground di basket a guardare il vecchio campetto di calcio ‘mentre i ragazzini giocano a pallone’, ma non volendo sembrare ‘uno spacciatore (che) guarda molto interessato’ (stavolta ho citato un grande classico dell’oi! nazionale) decido di camminare lungo il campo e di avviarmi verso il medico. Nel mentre osservo il rettangolo, dove appunto stanno giocando una decina di ragazzini sui dodici anni; ai lati del terreno, sulle fasce, cresce dell’erba…evidentemente giocano in pochi qui. Non sono più gli anni ottanta, quando su quel campetto iniziavano a giocare alle sette e venti di mattina i ragazzini delle medie che venivano in pullman dalle frazioni e che attendevano di entrare a scuola alle otto. Durante la mattinata il campo era occupato dalle classi che facevano educazione fisica e quindi soprattutto giocavano a calcio, anche in inverno, anche a meno dieci, tutti volevano dare quattro calci al pallone! Poi a fine lezioni ancora quelli delle frazioni in attesa del pullman per il ritorno (facevano delle assurde sfide anche di dieci minuti l’una, tutte all’ultimo sangue) e, dopo una mezzora abbondante in cui bambini e ragazzini colichesi erano a casa per il pranzo, attorno alle quattordici iniziavano ad affluire i primi calciatori del pomeriggio, generalmente con qualcuno che portava un pallone dentro una di quelle reticelle rosse che all’epoca davano nei negozi di frutta e verdure. Si iniziava a giocare tipo 3 contro 3 (se non 1 contro 1 a rinvii!) e alle sedici si era diventati qualcosa tipo 14 contro 14, in un turbinio di polvere sollevato da una massa informe di bambini che si spostava uniformemente dietro al pallone modello Taz, il diavolo di Tasmania dei cartoni animati! D’estate poi andava in scena ogni giorno una non-stop di almeno sedici ore, calcolando anche le partite in notturna dello storico torneo delle contrade (nell’83 la squadra in cui giocavo vinse quello under-14, uno dei pochissimi tituli nel mio palmarès calcistico…). E quante botte prese e date qui, sia in campo che fuori. Prese soprattutto dai più grandi ovviamente! Ma all’epoca eravamo tutti bambini con una certa scorza data dall’orgoglio, mai saremmo andati a casa a lamentarci, le botte si prendevano e si davano, anche perché non è che lo si facesse per motivi così profondi! Ricordo un bambino che, preso un pugno in faccia da un ragazzo sui quindici (ed era una bella legnata), lo guardò con due occhi cattivi e con aria di sfida senza dire nulla, ma alzando il mento come a significare ‘coglione, non mi hai fatto niente’…mi fa venire in mente il mitico Mario Brega, ‘manco er sangue me fai uscì’. E quello più vecchio che se ne va, come avesse capito e quindi rispettasse, se non addirittura temesse, il piccolo, che di anni ne aveva dieci. Non faccio nomi, paesani che leggete potreste pure riconoscervi! Vi immaginate adesso? Quello va a casa, si lamenta, i soliti genitori del cazzo denunciano, mettono in mezzo un avvocato, pretendono soldi dalla famiglia di quello che ha dato il pugno, ecc.ecc. Come mi disse giustamente un mio direttore dei lavori qualche anno fa in riferimento alla segnaletica di cantiere che stavamo mettendo in previsione di un ponte primaverile di alcuni giorni: “una volta se un ragazzino entrava in un cantiere e si faceva male a casa gli dicevano ‘bravo scemo, così la prossima volta impari a non entrare dove non devi’, adesso invece ce lo farebbero pagare finchè campiamo!”. Secoli fa, sarà stato il 1981 così a naso, ricordo che su uno di quei pontili galleggianti del centro nautico locale, un attuale assessore del comune di Colico all’epoca di anni nove, dopo un breve alterco, venne preso a calci in culo da un pescatore sulla cinquantina e, dopo aver perso l’equilibrio, cadde in acqua ed era la fine di novembre! Io e altri due lo aiutammo a risalire sul pontile, col tipo e i suoi compari che se ne sbattevano e se la ridevano. Ma vi immaginate adesso che casino salterebbe fuori? E invece niente, tutti zitti per orgoglio, ma qualche giorno dopo tornammo sul posto a tirare sassi dove quell’imbecille stava gettando la lenza per rovinargli la pesca e dirgliene di tutti i colori. E finiva lì, senza denunce, senza finire sui giornali, senza fare di tutto per quattro luridi soldi. Una delle mille realtà di mille paesini sparsi per il mondo, chissà quante scene analoghe se non peggiori ci sono state (e me ne sono state raccontate eccome). Adesso finisce sui giornali se in due o tre bloccano uno e gli rubano il cellulare, io ho visto gente rubare allo stesso modo le scarpe (le Timberland), in una sala giochi qui da noi (figuratevi nelle città!). Ma il derubato si vergognava di andare a casa a raccontare il fatto ai suoi e magari si inventò che le aveva perse o rotte o che altro. Adesso invece si è sviluppata una mentalità differente, peggiore per quanto mi riguarda. A me non hanno mai rubato nulla, anche perché non è che indossassi chissà che, però di botte ne ho prese eccome (e ne ho date anche, ovvio), almeno fino ai tredici/quattordici anni, poi (paradossalmente, nel senso che allora iniziai ad andare in curva a San Siro, quindi in un ambiente incline alla violenza) realizzai l’inutilità e la stupidità del tutto ed imparai ad evitare le situazioni da scontro fisico, a capire quando una discussione può sfociare in una rissa (e in effetti a questo fine mi servì molto anche l’esperienza curvaiola), a lasciar perdere. Non ne vale mai la pena. Make love, not street fights! ;-)

 

E ora, tanto per sputarmi in faccia, la trilogia Hardcore:
avevo infatti scritto nell’introduzione della ‘zine “niente riflessioni sulla scena Hardcore” e adesso…! Però avevo anche scritto che “ci saranno probabilmente anche parecchie contraddizioni fra uno scritto e l’altro”…appunto! ;-)

CARRIONS N.N. – Attimo di libertà (1993)
Title-track del 7” dei prime-movers dell’Hardcore valtellinese. E Attimi di Libertà-storie di punk/hardcore in Valtellina è il nome della mostra organizzata nell’ottobre del 2011 dal trio Rocco/Diego/Lele coadiuvati dal Manager (e in teoria pure da me, dato che mi han messo nei credits del volantino, avendogli fornito buona parte del materiale; quindi ebbi almeno il buon cuore di presenziare ad una delle due serate). E’ bello quello che hanno scritto i ragazzi (ragazzi ormai cresciuti e in due casi su quattro prossimi alla quarantina!) nel volantino di cui sopra, però non vorrei che queste mostre fuorviassero le nuove generazioni che vengono a vederle. Nel senso che è giusto e sacrosanto raccontare cosa succedeva qui a chi non c’era, però a me quel vivere di nostalgia punk-hardcore (non che i curatori lo facciano, sia chiaro, voglio partire da questa mostra per fare un discorso generale), per usare un francesismo, fa cagare. No al nostalgismo e al reducismo (citazione dalla fascio-band romana Londinium S.p.q.r., così qualcuno si incazza ;-) !) !! Che poi, va detto alle nuove leve, ai tempi, fidatevi, era la stessa merda di oggi, se non peggio, solo che noi eravamo giovani come voi e avevamo meno rogne da smazzarci. E non c’è niente da mitizzare di quei tempi, anzi, era una normalissima scena di provincia che fra l’altro non è che abbia prodotto ‘ste gran cose alla fin della fiera, ma era una scena che aveva senso allora e non ne ha più oggi. Adesso ha senso quella di oggi. C’è stata gente che mi ha chiesto anche in tempi recenti ‘perché non riformate i Pubertas per un concerto?’, e perché dovremmo? Per me avrebbe lo stesso senso che mangiarmi un omogeneizzato seduto su un seggiolone con un bavaglino al collo, perché ogni cosa ha il suo momento. Piuttosto perché non usiamo le poche energie e il poco tempo rimastoci (nel senso di tempo libero, vorrei campare ancora un po’!) per fare qualcosa adesso? E ‘fanculo a guru, maestri, santoni, grandi vecchi, che si ergono a depositari del verbo e a quegli pseudo-sociologi che analizzano dove non c’è da analizzare un bel niente. E’ capitato pure a me che si avvicinassero ragazzini col timore di avere a che fare con “uno che conta nella scena”, ma io ho sempre fatto capire da subito che chi hanno davanti è un coglione esattamente come loro, se non di più. Contare nella scena, riuscite a pensare a qualcosa di più squallido? Mi sembra di vedere quelle mezzeseghe che non sono nessuno nella vita vera, ma che però sono che so, capetti oratoriali o presidenti di qualche associazioncella del cazzo e per quello si atteggiano da padroni del mondo… Oppure questa mania di riformare gruppi hardcore italiani storici, addirittura sono tornati i Kina e tutti “vieni a vedere i Kina a Milano?”. Ma no che non ci vengo, sarebbe come andare a letto con la Bouchet adesso! Piuttosto, se fosse possibile, entrerei in una bella macchina del tempo e mi andrei a vedere i Kina nel tour europeo dell’86, quello sì! E furono proprio i Kina nel 1992 a scrivere queste parole rivelatesi poi tristemente profetiche: “è l’assalto del tempo che vincerà (….), mostrerà i nostri ideali in una teca, qualcuno morirà di nostalgia”. Ecco, la nostalgia per quei tempi è proprio una cosa che non provo, certo vorrei avere ancora vent’anni di meno, chi non lo vorrebbe? Ma solo per quello. A me piace raccontare situazioni passate, ma raccontarle appunto, non riviverle, come chi fece la guerra e per anni ne ha raccontato, ma non avrebbe rivissuto quelle situazioni per nulla al mondo. Io voglio vivere l’oggi per il domani, anche se Johnny Rotten mi ha insegnato che non c’è nessun futuro e tutto sommato aveva ragione e John Lennon disse che “la vita é quello che ti succede mentre sei impegnato a fare altri programmi” e, per quanto io non sia mai stato un grande fan del defunto ex Beatles (imagine all the people living life in peace e tutta la menata, bah, roba troppo positiva e sdolcinata per questo mondo di merda), aveva più che ragione. Non voglio vivere l’oggi ripensando all’ieri, se non per imparare dai miei errori (tanti/troppi) e per farmi quattro risate ricordando tempi che furono e che come tali non ritorneranno e non devono farlo! Per me che contano realmente sono sempre oggi e domani, mai ieri, quello che hai fatto è fatto, nel bene e nel male, ormai è storia passata. E poi, certo, a me piace la musica “vecchia”, l’hardcore, il metal, il punk e il rock di tempi che furono, ma non per questo ritengo sia l’unica via, anzi è giusto e sarebbe meglio che i giovincelli odierni si suonino la loro di musica, anche se a me poi fa schifo, ma sarebbe giusto e nell’ordine delle cose. Su ‘Nessuno Schema’ # 9 scrissi che il verso “never go back, I wish I could learn to never go back” da un pezzo dei Dag Nasty aveva molto a che fare con me. Poi nel tempo, forse, ho imparato a non guardare più indietro, in generale e nel personale. Ci sono cose, persone e situazioni che sono proprie di un certo periodo, di un momento temporale. E comunque, hardcorers miei, “don’t waste your time always searching for those wasted years” (Iron Maiden, ma ve lo devono dire proprio i metallari che state facendo una cazzata? ;-) !).

 

UPSET NOISE – Hardcore (sei stato il primo amore) (1985)
Ne ho accennato più sopra, ci sono parecchi gruppi hardcore italiani che dopo vent’anni e passa tornano sulle scene. Mah, alla fine avevate sputato nel piatto e mollato quelle cose perché non vi ci riconoscevate più e ora vi ci riconoscete ancora a cinquant’anni? …gente con figli e nipoti che risale su un palco a rifare pezzi con testi scritti da loro sedicenni o poco più e come tali quasi sempre ingenui ed anacronistici se riproposti ora. E non si tratta di un concerto una tantum, giusto per divertirsi. No, credendoci (o facendo finta di crederci) e, saputo da fonti affidabili, per dei cachet da migliaia di euro…c’è qualcosa di più disgustoso? Mi viene da vomitare… Un plauso a gente come i Wretched o gli (ai tempi) sputtanatissimi Negazione, che hanno evitato qualsiasi reunion, anche se le malelingue sostengono che quest’ultimi non la facciano solo perché non riescono a mettersi d’accordo sui soldi ;-) (e un plauso va anche a chi è sempre andato avanti anche fra i lutti, come i Raw Power). Quella dei Kina invece è una reunion a parte, nel senso che quasi tutti gli ex membri non avevano mai mollato/rinnegato l’ambiente, però io preferirei rimembrare com’erano all’epoca e non rovinarmi il ricordo. Meglio sarebbe però stato se certi cinquantenni che hanno comunque fatto la storia dell’hardcore italiano (si tratta di svariati gruppi fra i miei preferiti…) avessero avuto la dignità dei Clash e di Joe Strummer in primis che rifiutò sempre di riformare quella band. O quantomeno la strafottenza dei Sex Pistols quando tornarono a metà anni novanta per quel tour in cui ti spiattellavano in faccia che ti stavano prendendo per il culo e volevano solo guadagnare il più possibile sulla loro (meritatissima, sia chiaro) fama.

 

OBBROBRIO – Anal servants of the Hardcore Gods (2002)
Pezzo citato in maniera autoreferenziale, visto che gli Obbrobrio sono una mia band, ma è il titolo perfetto per quello di cui vado ora a trattare: l’atteggiamento spocchioso e borioso di chi suona hardcore, una cosa venuta fuori da metà anni ‘90 in poi, prima mi sembrava meno presente, ma forse vedevo il tutto io con occhi diversi (però se rileggo le vecchie interviste alle bands e le confronto con quelle a gruppi più nuovi mi sa che non sto dicendo una cazzata). Gente che si comporta ed atteggia come fosse parte di un popolo eletto, detta leggi e comandamenti e si crede migliore di quelle persone che suonano generi differenti o vivono vite diverse dalla loro. Vi apro un po’ gli occhi và. L’ho già detto, cose come i dettami e i dogmi fanno diventare l’hardcore come una religione, quando ne dovrebbe essere l’antitesi! Le persone, cazzo, le persone, come sono loro? Che tipo di gente avete davanti? Non quelle quattro cose scritte su un disco o le memorie, solitamente fasulle o quantomeno esagerate (quante ne ho lette e sentite negli ultimi anni e per chi c’era al tempo, io ad esempio, certe cose risultano veramente patetiche) dei veterani che godono a farsi idolatrare dai 15/20enni di oggi. Non gente come ad esempio il Vandalo, che racconta dei tempi andati con lo spirito giusto e la necessaria autoironia, senza per questo rinnegare il passato, eppure non mettendosi sul pulpito. Che è l’atteggiamento che spero di avere anch’io. Non quello di gente che trancia giudizi tipo “quello è un fascista”, parola ormai anacronistica in tempi di ideali di destra e sinistra messi in soffitta dalla bramosia economica e di potere del tornaconto personale, ma che fa tanto effetto su giovani menti eccitabili al posto di un più corretto “quello è uno stronzo” o “quello è un coglione”. Certo che se chi ha rischiato la pelle o dato il sangue nelle fila partigiane al tempo vedesse chi è che pronuncia queste frasi ad effetto oggidì, mi sa che una fucilata gliela tirerebbe volentieri, fidatevi! E poi quelle bands statunitensi o comunque estere (noi italiani siamo sempre tendenzialmente esterofili) che per due/tre anni dettano legge ed attitudine e poi i componenti mollano tutto e ne trovi uno a far saltare patatine in un fast-food, un altro a inserire numeri in un computer, un altro ancora entrato nell’esercito, e tutti che rinnegano quanto detto/scritto/suonato/cantato… predicatori che hanno cambiato vita e scappano dalla “chiesa hardcore” (‘Nuova chiesa hardcore’ è un altro pezzo degli Obbrobrio, non a caso) che avevano edificato sostenendo che prima erano giovani ed ingenui… Io non rinnego manco di aver scritto un pezzo come “Surf”, solo magari un po’ me ne vergogno (e dovrei, vedasi il testo nell’articolo in cui si parla dei Pubertas Morbegno). Come tutti quelli che la rimenavano sullo straight edge e poi si sono fatti ricoprire i tatuaggi in tema con carte da gioco e draghi vari e passano le giornate ad ubriacarsi o a drogarsi… Gente (estera ed italiana) che si erge a modello comportamentale e che dalla sua posizione privilegiata (da mantenuto o da posto di lavoro comodo) sputa sentenze senza sapere cosa vuol dire non riuscire a dormire la notte perché hai mille rogne in ballo quando invece vorresti solo e semplicemente fare il tuo lavoro al meglio. Dave Smalley disse che l’hardcore e la sua mentalità do it yourself/fai da te ha insegnato a molti ragazzi a fare le cose, non a subirle passivamente, ed è un atteggiamento che può tranquillamente essere applicato alla vita di tutti i giorni, anche per perseguire un obiettivo lavorativo e svolgerlo al meglio. Parole decisamente interessanti (eh, ma Smalley è un conservative-punk, dirà qualcuno da dietro i suoi paraocchi…). Il mondo dell’hardcore ha dato voce a molte persone che hanno portato alla ribalta parecchie argomentazioni degne di nota, ma queste persone non devono essere prese come modello, mai basare la propria vita su quella degli altri. Come si dice, ascoltare tutti e poi fare di testa propria, sempre. Certo, per un ragazzino è meglio rifarsi comportamentalmente a Ian MacKaye o a Ray Cappo (pre-krishna, ovvio) che a Johnny Thunders o Sid Vicious (anche perché questi ultimi due sono già schiattati da quel dì), ed è sicuramente meglio un giovane hardcorer che un giovane metallaro tutto birra e vomito, oppure un black-metaller adolescente pallido e depresso, per tacere di un discotecaro impasticcato o di uno che più in là di auto/moto e del calcio (soprattutto le pettinature alla CR7 più che il gioco in sé) non riesce ad andare, però, e già lo scrissi in passato, questo a volte comporta una basilare incapacità di divertirsi o quantomeno un essere come frenati nel proprio approccio alla vita, frenati forse da qualcosa che altri hanno pensato e detto. E non so quanto questo possa essere un bene per dei ragazzini. Che poi noi hardcorers italiani magari sappiamo di essere osservati dall’inganno, che lo spirito continua e che viviamo in un mondo criminale, immersi in una realtà che è un’ irreale realtà e in uno stato perenne di disperazione nevrotica, dove tutti voi altri vi siete condannati a morte nel vostro quieto vivere e che soltanto la morte potrà fermarci dato che la tua morte non aspetta. Proviamo troppo spesso solo odio. E davanti a tutta la merda che ci sorbiamo e vi sorbite diciamo chiediti il perché e spesso ci tocca dover tenere la bocca chiusa.* Ok. E dopo?…. “Ma porcoddio, in macchina con quella gente nun se poteva parlà de calcio, nun se poteva parlà de gruppi nazi, ma de che parlavo io?!?” [Andrea Timpani, marzo 2002, dopo essersi fatto dare un passaggio da alcuni componenti di una nota band hardcore-anarco-punk-militant italiana!]. *: quelle parole in corsivo sono i titoli di alcuni dischi storici hardcore italiani, un’ovvia nota per profani/e.

 

WARRANT – Cherry pie (1990)
Questa l’avrete sentita tutti/e almeno una volta anche solo per caso, a meno che non veniate da qualche paesino valchiavennasco e allora posso capire ;-). E’ un pezzo di hard rock commercialissimo, ruffianotto, dozzinale se vogliamo, eppure resta un gran bel pezzone! Sì, perché non è che musica commerciale = merda. Primo esempio che mi viene in mente, ‘Russians’ di Sting (un brano dell’86) era un pezzo da classifica eppure è un pezzo della madonna. Oppure certe canzoni pop o dance che saranno anche stupide, eppure sono accattivanti, un po’ come una bella ragazza stupida, sarà stupida ma che sia bella non lo si può negare, no? E’ un po’ lo stesso meccanismo di quando si tende a rifiutare, considerandoli finti, gruppi rock dell’area mainstream, dove girano soldi ed interessi. Sì, però quando nel 2002 i Rolling Stones fecero uscire la millesima raccolta di hits, il pezzo nuovo ivi incluso (“Don’t stop“) era una botta di rock’n’roll alla Stones mica da ridere, ancora in grado di pisciare addosso a tutta la schiera di imitatori “veri” rockers con trenta/quaranta primavere di meno sul groppone. Ci sta il parallelo col calcio della Champion$, un giro di soldi enorme che affossa i motivi per cui si partecipa alle varie competizioni (se conta di più il terzo posto in campionato per arrivare in champions, rispetto alla vittoria di un’europa league o di una coppa italia, ditemi voi cos’è rimasto dello spirito competitivo dello sport vero e proprio in tutto ciò), eppure il lancio col sinistro di quaranta metri di Sneijder per Eto’o in Chelsea-Inter del marzo 2010, col camerunense che infila l’angolino per l’1-0 con cui l’Inter espugna Stamford Bridge, beh, sarà anche calcio di plastica, ma gesti tecnici simili sono ancora qualcosa che possiamo solo ammirare, punto. E’ uno scritto sulla bellezza esteriore contrapposta alla bruttezza interiore? A dire il vero no, però facciamo che lo sia, messa giù così potrebbe far colpo su qualche bella ventenne con pretese intellettualoidi no? ;-)

 

KRAFTWERK – Computerliebe  (1981)
Io ho un rapporto coi personal computers abbastanza particolare. Da un lato non ho mai visto tanto di buon occhio la troppa tecnologia applicata alla vita di tutti i giorni. Non sono un luddista, certo, più semplicemente sono uno di quelli che fan fatica ad accettare le novità, anche perché non sempre significano in toto qualcosa di meglio di quello che avevamo in passato. Ad esempio, come argutamente ha rilevato Paolo Villaggio, con l’avvento dei telefonini abbiamo perso la possibilità di scomparire per un po’, di nasconderci, di staccare veramente la spina dal resto del mondo. Parlando di computers, avrete già letto nel ‘dietro le quinte’ di questa fanza di quando entrai in possesso del mio primo macchinario (vi risparmio di scorrere le pagine all’indietro, lo dico per quelle due persone che avranno sentito questo impulso irrefrenabile ;-), era la fine del ‘96). Utilissimo per scrivere questo ammasso di carta che tenete in mano, utilissimo per lavoro (conti, preventivi, fatture, varie ed eventuali), utilissimo (con l’avvento di internet, strumento che fra l’altro dà voce a milioni di pazzi certo, ma anche a tantissima gente con parecchio da dire/dare) per tenere i contatti (siano essi legati a band/etichetta/fanzine stessa o ad amici/amiche sparsi/e in giro per il mondo. Il tutto rigorosamente via e-mail, rifiuto sdegnosamente diavolerie tipo Facebook -o Stasibook, come dice il Timpani- et similia. Il giorno che cadrò in una di queste diaboliche trappole mi sputerò in faccia da solo come Lino Banfi in ‘L’allenatore nel pallone’, promesso), utilissimo per scaricare musica e films in quantità industriale (sì, ciò uccide l’industria disco-cinematografica e musicisti ed attori ne risentono, ok. Però se io dovessi regolarmente comprare tutto quello che mi interessa sarei da tempo senza il becco di un euro, quindi mors tua vita mea ;-) !), utilissimo per informazioni in tempo reale e per ricerche di vario genere. E basta. Ed è già tanto, almeno per me. Giochi sul pc non ne installo più perché so che poi diventano una sorta di droga (ricordo un vecchio Fifa 98 che mi teneva attaccato per delle ore nottetempo a giocare campionati minori tipo quello svedese…), di altre cosiddette applicazioni sinceramente non so che farmene, anche perché il mio tempo davanti allo schermo si riduce generalmente ad un’oretta la sera o poco più, eccezion fatta ovviamente per le centinaia di ore spese su questa maledetta fanza! ;-) Passiamo al cellulare, aggeggio che per quanto mi riguarda deve avere solo ed unicamente due funzioni, anzi tre: fare da telefono, poter essere usato per scambio di sms e infine segnare l’ora, dato che l’orologio non lo porto. Di applicazioni varie e compagnia simile non saprei sinceramente che farmene. Io ho avuto il mio primo telefonino solo nel gennaio 2002 (a ventinove anni), un Motorola resistentissimo (cadde da un terzo piano sulla terra battuta e non ne risentì minimamente) che è stato con me fino al giugno 2006 (ricordo che c’erano i Mondiali in Germania), quando di colpo tirò le cuoia. Lo sostituii con un altro Motorola, un modello più recente (dell’altro non ne producevano più da anni purtroppo), trenta euro al Media World di Lecco, ottimo telefono ma durò purtroppo solo un anno, dato che nell’estate del 2007 mi cadde dal taschino della camicia direttamente nella vaschetta dell’acqua dei cani (tolsi la batteria al volo e la asciugai col phon, si rimise a funzionare ma con un fastidioso rumore di sottofondo che rendeva spesso impossibile capirsi durante le telefonate). Per cui Media World again e acquisto di medesimo modello, stavolta in promozione a soli venti euro. Durò fino al febbraio 2011, quando morì di colpo esattamente come il mio primo telefono di cui sopra. Passo quindi ad un vecchio Nokia ultra-usato (l’aveva mio padre e non lo usava più da anni), che dura fino ai primi mesi del 2012 quando, contrariamente ai Motorola, inizia un declino progressivo che lo porta prima ad agonizzare e poi a spegnersi (letteralmente!) serenamente. Lo sostituisco con un altro Nokia da 29,00 euro che ho tuttora. Nel frattempo, dal gennaio 2008 per la precisione, quando passai a Wind (ottenendo in effetti un notevole risparmio), ho anche un telefono “di quelli che fanno le foto e i filmati”, un LG che ti davano come promozione se cambiavi operatore. Ce l’ho ancora, ma lo uso pochissimo, un po’ perché lo reputo troppo delicato (e io per il lavoro che faccio e i posti che frequento ho bisogno di telefoni-carrarmato!) e un po’ perché nel tempo ne ho limitato l’uso alle sole foto da fare sui cantieri, a quelle in qualche gita, a quelle ai miei cani (di cui ho decine di cartelle strapiene…), alle ovvie foto e ai filmati psuedo-hard che si fanno con la propria ragazza o con un’amica (e non fate i moralisti che li avrete fatti di sicuro anche voi ;-) !)…tutte cose che, converrete, non si fanno proprio tutti i giorni, no? Questo detto, a me il telefonino non piace molto, come dicevo già prima detesto essere sempre reperibile in qualche maniera: ok, puoi spegnerlo, ma poi lo riaccendi e trovi sempre l’sms che ti avvisa che il rompicoglioni/apportatore di rogne di turno ha chiamato. Almeno il caro vecchio telefono fisso lo staccavi e poi che chiamasse pure il Kgb, tu non c’eri per nessuno! Finalmente però qualche mese fa il mio socio Mirko mi ha informato di essere riuscito a dismettere il servizio dell’sms di avviso chiamata, subito mi son fatto spiegare come si facesse e prontamente ho dato il là alla disattivazione! E adesso chiamatemi pure mentre sono svaccato in spiaggia e tenermi mezzora al telefono per dirmi, con dovizia di inutili dettagli, che c’è da praticare un buco in un muro che ci si mette cinque minuti a fare o peggio per chiedermi cosa può costare il tal lavoro e poi andare a tirare il prezzo a qualcun altro che alla fine glielo farà peggio di come lo faremmo noi, sì sì chiamatemi! Il mio Nokia è lieto di mandarvi tutti affanculo col beneplacito del suo padrone, cioè io! ;-) Non fraintendetemi, il cellulare è ottimo per lavoro, che non oso immaginare se fosse ancora come una volta che ti sedevi a mangiare a mezzogiorno e sera ed era uno squillare ininterrotto perché erano gli unici orari in cui la gente poteva trovarti, però ciò non significa che uno debba sentirsi in diritto di telefonarti a qualsiasi ora del giorno e della notte (salvo rari casi cataclismici, ovvio, ma altrettanto ovviamente c’è gente capacissima di chiamarti alle dieci di sera del sabato per delle immani cazzate e tenerti al telefono per minuti che sembrano interminabili come quei dischi di sludge-doom da due ore!) o la domenica o il giorno di pasqua (capitato anche questo). Perché ci sono momenti in cui uno ha il sacrosanto diritto di staccare: ha sonno, vuole rilassarsi, non sta bene, sta facendo sesso, vuole ascoltare musica o guardare un film in santa pace, vedersi l’Inter, ecc.ecc. specie se questi momenti sono, come è abbastanza ovvio che sia, limitati ad orari serali o del weekend. E poi ci sono sempre gli sms (quelli di testo arrivano in ogni caso, ma ciò non mi disturba anzi…anche perché se il rompicazzo di turno ha effettivamente fretta di dirmi qualcosa di importante, potrebbe affidare il suo messaggio ad un sms tipo ‘richiamami al più presto che è successo così e così’…beh, non lo fa mai nessuno, quindi si capisce quanto siano importanti certe telefonate…). Gli sms sono ottimi per gli accordi con gli amici, per organizzare partitelle di calcetto/calcio, vanno bene anche per mantenere i contatti con ragazze/donne, ma solo a rapporto avviato, prima è sempre meglio il ‘faccia a faccia nella strada’ (dite che il Balestrino sarebbe fiero di me ;-) ?). Anche se, questo lo ammetto, se una volta avessimo avuto ‘sti telefonini e gli sms, ci saremmo risparmiati siparietti tipo il seguente: Ragazzino (io…) sedicenne: ‘Ehm, pronto, buonasera, c’è (metti nome femminile) ?”. ‘Chi parla?’, tono indagatorio da madre sospettosissima. ‘Eh, sono Claudio, un suo amico, è magari in casa?’. ‘Claudio come?’ il tono della madre si avvicina a quello usato nei sotterranei della Lubianka. ‘Claudio Canclini’ con tono rassegnato, e poi di mia iniziativa ‘di Colico’, anticipando la prossima domanda. ‘Ah!’ (misto di soddisfazione per l’informazione estorta e, se la signora mi conosceva, insoddisfazione stile ‘ma quella cretina di mia figlia si fa venir dietro da questo coglione?’). E lì, o la ragazzina veniva chiamata al telefono (e fin lì tutto ok, più o meno a seconda dei casi) oppure la madre-Kgb rispondeva con freddezza robotica ‘no non c’è, arrivederci’ (con la figlia magari ignara in camera sua) e metteva giù lasciandoti lì come un pirla e con la voglia di richiamare quel numero pari a quella di entrare nella gabbia dell’orso polare dello zoo che non mangia da due giorni. Oppure ancora era la tipa stessa a farsi negare al telefono, figurarsi! …insomma, a conti fatti un lavoraccio infame, peggio di quello degli operatori dei call-center! Adesso che ho sviluppato una sorta di capacità nel mettere il pilota automatico durante le conversazioni telefoniche mi piscerei via qualunque madre-cerbero in assoluta nonchalance, buttando lì qualche complimento idiota di quelli che addolciscono le classiche segretarie zitelle o infelicemente sposate sui sessanta, magari facendo anche le parole crociate nel frattempo. Adesso, forse, ma avessimo avuto questi diabolici cellulari venti/venticinque anni fa! ;-)

Diabolic force, occult energy
Diabolic froce, live eternallyDiabolic force, occult energy
Diabolic froce, live eternallDiabolic force, occult energy
Diabolic froce, live eterna

 

MACABRE – Serial killer  (1987)
Sabato mattina di inizio primavera, sono in stazione a Colico seduto su una delle panchine lungo il primo binario in attesa del treno per Milano. Arriva un ragazzo sui trenta, di bell’aspetto, vestito bene, capelli alla Big Jim, ma espressione da stronzo e soprattutto due occhi cattivi. Ma non la cattiveria da rissa del sabato sera, no, gli occhi di chi da bambino torturava piccoli animali, un tipo da filmati snuff e porno misogino, un sadico uomo di merda che torturerebbe e stuprerebbe (e magari l’ha già fatto) senza rimorsi, uno per cui la vita, figurarsi quella di una donna, non ha valore alcuno. Un autentico spurgo mascherato dietro la facciata del bravo ragazzo, ma gli occhi non tradiscono mai e trasudano arroganza e disprezzo per il prossimo. Si sta avvicinando per sedersi sulla mia stessa panchina, io lo guardo negli occhi e vedo chi è veramente, vedo il marcio che c’è nel suo cervello, vedo la fiducia che ispira negli altri, ma non in me. E il mio sguardo fisso nei suoi occhi è come se gli dicessi ‘ho capito chi sei’, manco fossi un Dexter o meglio un Frank Black (‘Millennium’). Lui capisce di essere stato smascherato, queste merde sono sempre piuttosto intelligenti, e difatti non si siede più, ma si sposta di qualche metro e resta in piedi ad aspettare il convoglio. Io intanto rifletto, ma ci avrò visto giusto? In effetti, in una certa misura, ho questa capacità di capire come siano le persone al primo colpo, solo che generalmente, nei casi negativi, le capisco, vedo prima di altri che stronzi siano, ma non so fare nulla per evitare che la loro stronzaggine danneggi me e quelli attorno a me. Semplicemente so che succederà, ma non riesco ad evitarlo. Ma oggi qui è roba grossa, stavolta non ho avvertito la solita sensazione tipo questo è uno che non pagherà i lavori, quest’altro è uno che fa l’amicone ma poi appena ti giri parla alle tue spalle, questa è una che sembra starci ma poi alla resa dei conti si tira indietro, ecc. No, stavolta ho avvertito la presenza di qualcosa di più forte, addirittura mi si è quasi bloccato lo stomaco mentre guardavo il tipo negli occhi, come se avessi avvertito il male che c’è dentro di lui. Arriva una coppia attempata, il ragazzo li conosce e iniziano a scambiarsi convenevoli. I vecchi, due milanesi, sembrano brava gente, ma è il modo in cui il tipo risponde che mi gela il sangue nelle vene, avverto la falsità nelle sue risposte banali, il disprezzo per quei due anziani. No, non li butterebbe sotto il treno in arrivo, non è così stupido, ma lo vorrebbe fare eccome. Mi ricorda Paul Bernardo, il serial killer canadese che assieme alla moglie stuprò, torturò e uccise alcune giovani studentesse (fra cui la cognata) nei primissimi anni novanta: aspetto rassicurante, eloquio, bei modi, ma dietro la facciata un essere agghiacciante. Il Tirano-Milano arriva, saliamo tutti, loro vanno a destra e io a sinistra e la storia finisce qua. Il tipo non l’ho più visto in giro, eppure qualcosa che non andava ce l’aveva eccome. Voi cosa dite di fare? Una cosa alla Dexter, lo cerco e lo faccio fuori in maniera preventiva? ;-)

 

KLASSE KRIMINALE – La ragazza dalla t-shirt degli Angelic Upstarts  (1993)
Le magliette dei gruppi. Forse anche adesso, ma soprattutto trenta, venti, ancora dieci anni fa, un modo per riconoscersi fra appassionati di un determinato tipo di musica. Negli anni ottanta, quando il senso di cameratismo fra ascoltatori di metal, hard rock, rock, punk e via dicendo, era fortissimo, capitava di essere fermati da perfetti sconosciuti che volevano fare due parole sulla loro musica preferita e magari trovare qualcuno con cui scambiare qualche registrazione. A quattordici anni un pomeriggio di maggio ero andato a Lecco dal dentista in treno; mentre mi accingevo a prendere il convoglio per il ritorno a casa ed ero in piedi sulla banchina in attesa, passò un gruppetto di ragazze di qualche anno più vecchie di me. Mentre tre di loro non mi degnarono nemmeno di uno sguardo, la più brutta del drappello, una grassona con spessi occhiali e capello crespo, mi guardò, indicò la mia maglietta con la copertina di ‘Killers’ e mi disse “Iron Maiden! Bravo, hai degli ottimi gusti!”. Io sorrisi e la ringraziai. Wow, pensai, quella era una metallara! E però non assomigliava a Doro Pesch o a Lee Aaron. Uhm, se le metallare locali sono così, meglio le duraniane allora! Poi arrivò il treno. A trentadue anni sono in giro per il centro di Lecco mano nella mano assieme alla Tea, incrociamo un’altra coppia, anche loro si tengono per mano. Io guardo lui e lui guarda me, ci scambiamo un cenno del capo, non visto dalle nostre ignare compagne: l’assenso di chi la sa lunga. Io indosso una maglietta dei Turbonegro, lui una degli Hellacopters. Dopo secoli, ancora una volta una ventata di riconoscimento. E mi vengono in mente decine di magliette ed altrettante situazioni: una mia professoressa di inglese del liceo che a settembre si presenta in classe con una maglietta dei Led Zeppelin sotto la camicetta e io che do di gomito al mio vicino di banco Luca, fan di hard e classic rock, dicendogli “è una sorella!”. La prof. avrà avuto meno di trent’anni all’epoca e assomigliava un po’ alla Pellegrini la nuotatrice. A me nemmeno quindicenne piaceva da morire e lei aveva un debole per me (inteso che le stavo simpatico e che andavo bene nella sua materia, what else? lo dico in inglese), ma una volta le avevo chiesto di tradurmi a voce alcune righe dei testi di “Kill’em all” dei Metallica e lei l’aveva fatto! E le sempre meno frequenti situazioni degli ultimi anni: a fine 90’s ricordo un tipo sui cinquanta in piazza a Colico con una maglia del Michael Schenker Group, abbinata a stivaletti e jeans stinti, un po’ sullo stile del Michael leader della band in questione! Volevo scendere ad abbracciarlo. In tempi più recenti ricordo con piacere, sulla strada che congiunge Como a Lecco, un ragazzo a passeggio con due cani in una notte d’estate con la maglietta dei VoiVod. E chi era quell’eroe immortalato sulla ‘Provincia di Lecco’ durante Piccantissima 2012 (che non è un festival tipo MiSex, ma una competizione, con sede qui a Colico, basata su quanto peperoncino uno riesce a mangiare) con forchetta in mano e t-shirt degli Hüsker Dü? E poi le mie maglie, quelle che hanno segnato momenti più o meno importanti nella vita del sottoscritto: la prima volta che ho fatto sesso (e volete che non me lo ricordi?) non avevo una maglietta di qualche gruppo, ma quella dei Viking dell’Inter, naturalmente nemmeno levata vista la situazione precaria in cui il fatto avvenne. Al primo concerto dei Pubertas Morbegno (qui c’è un video che me lo ricorda) indossavo una t-shirt dei Descendents, quella di ‘Milo goes to college’, e anche un cappello (cappellino da pescatore con visiera ed immagine di un black bass, noto in Italia come persico trota o, gergalmente, boccalone) girato all’indietro da pirla visto il taglio di capelli alla Johnny Ramone venuto male… Una sera di metà anni novanta, al mare in Liguria, mi sbaciucchiai (in maniera molto soft devo ammettere) con una ragazzina milanese e avevo addosso una maglietta dei Point Of View (spero che il Valentini apprezzerà). Il capodanno fra 1992 e 1993 lo trascorsi in una discoteca locale (a Domaso) che ospitava spesso concerti rock/metal/hardcore, essendo la serata di San Silvestro deputata all’esibizione (e la parola esibizione per l’occasione, visto il clima di festa e relative ubriachezza e tossicità di gran parte dei suonatori, è veramente centrata ;-)!) di quattro bands: Mamma Pus, Karsavina, Mosquitos e Skunk, il gruppo dove suonavo io. Verso le due del mattino riuscii ad imboscarmi sui divanetti in fondo al locale con una ragazzina del posto in quel momento abbastanza devastata, anzi decisamente devastata dato che dopo nemmeno cinque secondi di bacio la stessa si tirò indietro e vomitò l’impossibile sulla mia maglietta dei Raw Power. Superfluo dire che il ‘vomit wet kiss’ (come il titolo del pezzo di Jeff Dahl) non mi entusiasmava molto (avrei vomitato a mia volta, stile la scena sull’aereo di ‘Amici Miei atto terzo’!) e la cosa finì lì, anzi io piuttosto incazzato buttai in un angolo sul palco la mia t-shirt e mi rimisi quella (non ricordo di quale band) ancora zuppa di sudore con cui avevo suonato. La maglia dei Raw Power, di cui mi ero dimenticato, venne raccolta alle prime luci dell’alba dal Giorgio (voce e chitarra dei Mamma Pus) che se la portò a casa per poi riconsegnarmela lavata e stirata qualche giorno dopo! 29 dicembre 2011, un giovanissimo (quindicenne) fan dei Gradinata Nord scrive alla nostra mail annunciando che la notte dell’ultimo dell’anno metterà la nostra maglietta. Io ne sono estremamente lusingato, cavolo lo farei anch’io coi miei gruppi preferiti, pure adesso a quarant’anni! Due giorni dopo, la sera del capodanno fra 2011 e 2012 ero ad un cenone e sotto la felpa portavo una t-shirt dei Bad Religion, se avessi avuto il numero del cellulare volete che un sms a Greg Graffin non gliel’avrei mandato? ;-)… Speriamo che al ragazzino non abbiano vomitato su quella dei Gradinata…

 

7 SECONDS – Not just boys fun  (1984)
Invece qui da noi era proprio “solo un divertimento per ragazzi”. Ricordo che ai primi concerti hardcore a cui andavo da ragazzino mi veniva sempre in mente una frase di Villaggio in un racconto di Fantozzi (intitolato “I templari della montagna dei sette soli” e piuttosto particolare): “cosa curiosa, non c’erano donne”. E quelle pochissime che ogni tanto si vedevano, ovvie eccezioni a parte che conterei sulle dita della mano di Tony Iommi (quella a cui mancano due dita), erano veramente al di là di ogni tentazione e oltretutto decisamente simil-maschi come aspetto. Certo, ora salterà fuori quello che dirà che al concerto milanese dei Cro-Mags nel ’91 (o era il ’92?) si è scopato tre strafighe nei cessi del Prego. Beato lui nel caso, io sto parlando di quello che tristemente vedevo io ;-). E’ curioso che il termine Hardcore indichi sia un tipo di musica che fra 80’s e 90’s era esclusivamente, o facciamo al 95% và, appannaggio di maschi adolescenti, che un genere cinematografico altrimenti detto porno. Come rilevò qualcuno in riferimento agli anni del primissimo hardcore americano (che viveva una situazione simile a quello italiano di qualche anno dopo descritto più sopra), da loro regnava su tutto una certa asessualità da parte di questi ragazzini. Con le pochissime ragazzine che per essere accettate dovevano uniformarsi al modello e quindi maschilizzarsi (nonostante i 7 Seconds che cercavano di far cambiare queste abitudini, far diventare l’Hardcore una cosa per tutti e due i sessi, da vivere assieme, aprendo così l’ambiente veramente alle ragazze, mica scemo il Kevin Seconds ;-) !). Probabilmente anche qui era lo stesso, la situazione cambierà nel corso degli anni, ma in quei miei primi tempi era così e io ne trassi le mie conclusioni che permangono tuttora. “Considero l’hardcore la musica antifiga per eccellenza, quando non faccio sesso quindi ascolto hardcore. Di questi tempi ne ascolto a pacchi…” (io, purtroppo, parlando con Alex fuori dall’Eurospin, febbraio 2012).

 

CHELSEA – The right to work  (1977)
Un sabato primaverile del 2012 sto tornando da Milano in treno e in cuffia sto ascoltando una compilation di singoli (alcuni famosi, altri più oscuri) di Punk ’77 made in Britain. Il treno fa tappa alla stazione di Monza mentre ‘The right to work’ dei londinesi Chelsea mi sferraglia nelle orecchie. E d’improvviso mi sovviene il ricordo di un momento di un sabato di moltissimi anni prima, sempre in primavera, sempre su questo treno, sempre in questa stazione e, quello che è più sorprendente, sempre con questo pezzo nelle cuffie! Doveva essere l’aprile del 1990 e tornavo da un giro a dischi nel capoluogo lombardo, eravamo io e il Luca e sulla via del ritorno, stanchi come asini per il lungo girovagare, ascoltavamo delle cassette ognuno dal proprio walkman. E il pezzo dei Chelsea lo stavo ascoltando esattamente qui, mi sembra addirittura di essere seduto nello stesso sedile inteso come posizione (unica differenza, allora pioveva a dirotto, stavolta è un tardo pomeriggio soleggiato). Sensazione straniante, eppure non è la prima volta che mi capita di vivere una situazione analoga. Nell’estate del 1995 trovai per strada un cucciolo bastardino che qualche pezzo di merda aveva abbandonato, lo caricai in macchina e lo portai a casa dei miei dove vivrà quindici anni in agiatezza. Sull’autoradio stava girando un nastro con l’album “Let’s go” dei Rancid. Nel novembre del 2012, sul mezzogiorno di una giornata di metà settimana, mio padre arriva nel cantiere dove sto lavorando, con un cucciolo di pointer di tre mesi completamente (o quasi) di colore nero che gli è stato donato e mi chiede di portarlo a casa sua visto che lui deve andare urgentemente da un’altra parte. Carico il piccolino in macchina, accendo l’autoradio e il cd ivi inserito è sempre incredibilmente quello del succitato disco dei Rancid. E a suo modo è stato straniante anche quando, verso fine 2012,  mi sono reso conto che l’album “Don’t miss the train” dei No Use For A Name, che stavo ascoltando in auto in attesa che si alzassero le sbarre di un passaggio a livello, l’avevo ascoltato sempre in auto in attesa che si alzassero le sbarre dello stesso passaggio a livello…nel 1994! Bisogna anche dire che ascoltare lo stesso disco in anni diversi, e quindi in momenti della propria vita diversi e con differenti stati d’animo, può far cambiare opinione sulla musica stessa. Ad esempio ricordo che nel 2001, prima di una serata in compagnia di una mia amichetta, avevo ascoltato a casa un bootleg live dei Clash (“From here to eternity: live”) e mi sembrava un disco della madonna, dal suono vivo ed avvolgente tanto che mi pareva quasi di trovarmi sottopalco davanti a Joe Strummer, di percepire le vibrazioni della chitarra di Mick Jones e di sentire nel petto il basso di Paul Simonon e i colpi di cassa di Topper Headon. Anni dopo riascolterò lo stesso album in macchina in un momento in cui avevo le balle parecchio girate per questioni di lavoro e il disco mi sembrava soltanto un bootleg senza infamia e senza lode e nemmeno registrato troppo bene… A volte invece stai ascoltando la musica perfetta per quei momenti che stai vivendo. Quando facevo la quarta superiore (stagione 89/90), nelle tarde serate d’inverno uscivo col mio fido walkman e passeggiavo per la zona rimesse della stazione, con un occhio alle numerose siringhe sparse per terra e ai tossici locali che a volte si aggiravano nell’area, l’altro occhio volto ad individuare e quindi evitare eventuali vecchi pederasta in trasferta, e nelle orecchie dischi come il 12” dei Contr-azione o il 7” dei Nerorgasmo, bands hardcore torinesi di qualche anno prima che trasmettevano l’angoscia delle città industriali e a Colico le rimesse ferroviarie erano la cosa più vicina alla grigia Torino, il posto perfetto per ascoltare quei gruppi. Quando invece ero in vena di ascoltare metal oscuro avevo scoperto il fascino della chiesa buia il sabato sera durante la messa delle venti. Chiarisco subito che io dopo la cresima in chiesa non c’ero più andato (la messa era una gran rottura di balle) e, divenuto nel frattempo ateo, non l’avrei fatto per anni e anni a venire, anche durante matrimoni o funerali stavo fuori sul selciato. Poi qualche anno fa al funerale di un idraulico locale col quale avevo lavorato per anni sono entrato, mi sembrava di mancargli di rispetto stando fuori, e da allora entro anche ai matrimoni… Ma in quell’inizio del 1990 in chiesa ci andavo solo ed esclusivamente qualche volta il sabato sera appunto, verso le otto mi piazzavo in fondo alla navata, nella zona più buia. E mentre il prete celebrava la funzione per una ventina di vecchiette nelle prime file, io laggiù in fondo col solito walkman ben imboscato nel giubbotto e le cuffie nascoste da una berretta, mettevo su “The story of DeathSS”, la raccolta dei primi anni della occult-band di Pesaro, oppure l’ep “Reliquarium” di The Black, il chitarrista pescarese che cantava in latino e ammantava di oscurità il suo doom-hard rock. In quei momenti ero rapito soprattutto dai pezzi dei DeathSS 1983/1984, quando alla voce c’era il compianto Piero “Sanctis Gorham” Gori e non Stefano “Steve Sylvester” Silvestri, con la chitarra di Paolo “Paul Chain” Catena che dipingeva affreschi orrorifici da brivido. L’ambiente notturno della chiesa fiocamente illuminata era l’ideale per le atmosfere da antiche chiese italiane piene di reliquie e dipinti misteriosi tipiche di quei gruppi della costa adriatica. Mi dimenticai di tutto ciò per anni e anni, poi un giorno lessi un’intervista a Varg Vikernes, in arte Count Grishnack quindi Burzum, che raccontava di quando diciottenne se ne andava in giro in macchina lungo le strade di montagna fra i boschi vicino alla sua Bergen ascoltando sull’autoradio il primo album dei Paradise Lost, giudicando quelle locations perfette per la musica della doom/death band inglese. E allora il giorno in cui dovevo andare a verificare un’asfaltatura lungo una strada di montagna ai bordi della quale avevamo eretto più di seicento metri di cordoli, decisi di andarci di notte, per due motivi, uno per evitare incontri con personaggi locali che sicuramente mi avrebbero chiesto favori gratuiti (del tipo “già che sei qui…”) o avrebbero criticato l’asfalto, l’altro per ascoltare “Under a funeral moon” dei DarkThrone al buio fra boschi di conifere ed impetuosi torrenti. E’ un disco grandioso quello dei norvegesi, ma ascoltato in una situazione simile lo apprezzi almeno tre volte di più, garantito! Sensazione comunque già sperimentata due o tre anni prima, quando una domenica sera dovetti portare mio padre a recuperare la sua auto in un zona boschiva dei monti sopra Colico e mentre tornavo indietro in solitaria ascoltavo “Dark medieval times” dei Satyricon, messo in macchina appositamente prima di partire, la colonna sonora perfetta per quei posti. Un tardo pomeriggio autunnale di pioggia di qualche anno fa ero stato con la mia convivente dell’epoca a fare un giro all’Abbazia di Piona (un complesso di antichi edifici ospitanti frati cistercensi in una frazione di Colico). Mentre ce ne stavamo andando, alla finestra della costruzione vicino alla chiesa apparve un frate con cappuccio e leggermente girato in modo che non si vedesse il viso, un’apparizione vagamente inquietante anche per l’atmosfera piovosa d’autunno, tant’è che mi misi a frugare fra i cd per vedere se avevo in macchina quello adatto a fare da colonna sonora a quel momento e il meglio che trovai fu “Nightfall” dei Candlemass il cui pezzo ‘Bewitched’ (quello con l’esilarante video in cui Messiah Marcolin, il cantante di origini venete della band svedese, strega e si fa seguire da una serie di giovani metallari fra cui Dead, il futuro cantante suicida dei Mayhem) suggellò detta apparizione. E infine lasciatemi citare questo episodio recentissimo: sono in auto fermo in una coda interminabile dovuta al Carnevale in un paesino della west coast del lago, alla mia destra compaiono delle ragazzine fra cui una sui quindici anni vestita da diavolessa con tanto di corna diaboliche. In quel momento, incredibile casualità, la mia autoradio sta diffondendo a volumi elevati le note di ‘Diabolic force’ dei Running Wild, con Rock’n’Rolf (sì, il leader dei Running Wild, giocando sul fatto di chiamarsi all’anagrafe Rolf Kasparek, aveva assunto questa denominazione) che declama “diabolic force, occult energy, diabolic force, live eternally” (dal pezzo tratto dal mitologico lp “Gates to purgatory”, quello dalla copertina cialtronissima con la foto del metallaro borchiatissimo che aziona una fiamma ossidrica…io ho sempre avuto un debole per queste cialtronate, lo ammetto). Al che alzo il volume di quel tanto che basta a far girare la diavoletta e le sue tre amiche vestite una da gatta e le altre due non ricordo, e rido da solo come un cretino…

 

MINISTRY – Waiting  (2004)
Tempo fa sul sito immaginidivertenti.org, c’era questo negrone in costume e copricapo tradizionali a bordo di una finta limousine bianca di dimensioni ridotte e sollevato da alcuni portantini per sfilare lungo le vie di un villaggio. L’immagine era sottotitolata Nel frattempo in Uganda…Ecco, io voglio dedicare le righe che seguono a tutte quelle persone che aspettavano ignare in qualche posto mentre il sottoscritto, altrettanto inconsapevole, si faceva gli affari suoi altrove, finchè le rispettive strade non si sono incrociate. E vale sia per situazioni positive (la ragazza che diventerà la tua fidanzata dov’era e cosa faceva ad esempio cinque/sei anni prima che vi conosceste nel momento in cui tu stavi magari suonando in un postaccio umido e maleodorante davanti a venti persone? Il ragazzo con cui diventerai amico e che si dimostrerà una persona corretta e come si deve, cosa stava facendo e dove mentre tu, che so, anni e anni prima, eri a pescare nel sole lariano di un’estate di metà anni ottanta?) che per negative (quello stronzo che ti ha fregato qualche migliaio di euro dov’era e cosa faceva mentre tu, che ancora non lo conoscevi, un lustro prima te ne stavi beato, per fare un esempio, a guardare l’Inter del Mancio che vinceva finalmente il campionato? La ragazza che ti spezzerà il cuore cosa stava facendo in quel momento di una decina di anni prima in cui tu, che manco sapevi chi fosse, facevi felicemente l’amore con la tipa che amavi all’epoca?). E in entrambe le situazioni provi ad immaginartelo e il farlo ti strappa sempre un sorriso, felice in un caso ed amaro nell’altro. Provateci anche voi con le persone della vostra vita.

 

The CLASH – Cheapskates  (1978)
Giugno 1990, appena prima dei mondiali. Sono sul balcone della casa di mia nonna e in mano ho una telecamera (acquistata dai miei qualche anno prima), una di quelle a videocassette 8 mm. Faccio qualche ripresa della piazza nel tardo pomeriggio di un giorno di pioggia, sono gli ultimi giorni di scuola della mia quarta liceo (mi prendo un esame in matematica, tanto per la cronaca) e ascolto questo pezzo dei Clash, con quel verso che dice “raccogliere mozziconi sotto la pioggia”, particolarmente appropriato per la giornata. La piazza del lago è ancora old-style, aperta al traffico ed asfaltata, con una grande aiuola triangolare al posto della fontana “leghista” che sarà eretta qualche anno dopo. Sul molo il solito gruppetto di pensionati con l’ombrello che chiacchiera e poco più lontano Giuàn Stainer che pesca. Un quadretto di un paese lacustre più di vent’anni fa. Giugno 2012, appena prima degli europei. Sono ancora sullo stesso balcone, adesso qui ci abito io da qualche anno, in mano non ho nulla, quella telecamera è defunta da quel dì ormai. Piove. La piazza è cambiata molto da allora, lo stile è più moderno e i getti della fontana che ricadono sull’acqua disturbano lievemente la quiete di un tardo pomeriggio di inizio estate. Ci sono ancora i pensionati con l’ombrello sul molo, certo non gli stessi di allora, quelli sono quasi tutti morti. E, incredibile, c’è ancora Giuàn Stainer che pesca, stavolta su uno dei pontili della navigazione lariana. Corro a prendere l’album “Give ‘em enough rope”, metto il lato b, cerco ‘Cheapskates’ e alzo il volume, ventidue anni dopo la stessa colonna sonora ad una scena che è cambiata per restare fondamentalmente uguale.

 

AGNOSTIC FRONT – Bomber Zee  (1986)
Nello schifo di calcio/calcetto che gioco io (quel livello decisamente basso fatto di tornei da bar e di partitelle fra amici, per intenderci) sono un centravanti. Uno di quelli “old school”, il classico terminale offensivo che deve avere una squadra che gioca per servirgli i palloni, che staziona regolarmente sulla linea del centrocampo a fare coppia fissa con l’ultimo difensore della squadra avversaria, che rarissimamente aiuta la squadra in fase di copertura. E’ che so fare (decentemente) solo quello. Non essendo capace di dribblare, non avendo un gran tiro, so solo fare i movimenti a tagliare, giocare sull’anticipo e liberarmi dalla marcatura, più tutte quelle piccole furbizie/semi-scorrettezze tipiche del ruolo. Fin da bambino l’unica cosa che mi riusciva nel calcio era buttarla dentro, che è un po’ lo scopo di questo gioco ok, ma il ruolo dei miei sogni era (ed è tuttora, lo ammetto) quello del trequartista, del regista, quello che fa girare la squadra, che batte tutti i calci piazzati, che fa gli assist, ecc. Però non ero/sono all’altezza, ho dei piedi decenti, ma in realtà do del lei al pallone più che del tu ;-) e poi non ho l’intelligenza tattica per stare in mezzo al campo. Per cui, sin dal giorno in cui a nove anni o giù di lì un ragazzino più grande, esasperato dai miei continui errori mentre cercavo oscenamente di riprodurre delle giocate alla Beccalossi, mi disse ‘gioca davanti, che almeno lì danni non ne fai’ e quel giorno segnai sette o otto gol uno in fila all’altro, ho sempre giocato in quel ruolo (tolto il mio fugace passaggio nel “calcio professionistico” dove mi schieravano sulla fascia sinistra da esterno di centrocampo e dove irrimediabilmente facevo cagare! Le uniche cose che ho imparato giocando lì furono l’usare di più il sinistro e il rientrare all’interno per calciare col destro…). Spesso ripagando chi mi ha dato fiducia facendomi giocare nelle sue squadre da torneo, altre volte risultando indolente ed indisponente, il destino di noi centravanti che se non facciamo gol siamo odiati irrimediabilmente ;-). Poi certo, se sono in giornata i gol li faccio (ad esempio, in un’assurda partita di un torneo di calcetto terminata 17-6 per la mia squadra io ne feci quattordici) e quindi ogni tanto qualche pazzo mi chiama Bomber, cosa che non mi dispiace perché è il titolo di quel disco dei Motorhead o il soprannome della buonanima del batterista degli R.K.L. (ah no quello era Bomer, vabbè comunque gran batterista), però mi vergogno ogni volta che succede. Ad esempio quando una sera di inizio millennio al Megashow (discoteca locale, e già qui mi vergogno a scrivere che ci sono entrato) vengo salutato così da un gruppo di ragazzi che sulle prime non riconosco, poi mi accorgo che sono alcuni componenti di una squadra della Val Masino a cui qualche tempo prima avevo fatto una tripletta (di cui due gol di testa, io che col capo sono una sega tremenda, il primo impressionante all’incrocio che non sapevo nemmeno come avevo fatto). Eppure a volte sbaglio dei gol che hanno del clamoroso, tipo quando ad un torneo over-35 in Valvarrone del 2008, durante una combattutissima partita contro una squadra locale (quello che marcava me mi avrà steso da dietro una decina di volte, ammonito da un arbitro pure locale solo a pochi minuti dal termine…), il portiere avversario esce su un mio compagno lanciato a rete, la palla si impenna e sta rimbalzando verso la porta, io che stavo seguendo l’azione le vado dietro, vedo che sta chiaramente entrando e decido di mettere la firma sul gol toccandola di testa a mezzo metro dalla linea, lo faccio, la prendo male (sono una sega di testa, vedi sopra) e la devio fuori dalla porta… il portiere mi mormora un ‘grazie’ a metà fra il sollevato e l’ironico, ma meno male che due minuti dopo segniamo il 2-1 per noi che sarà anche il risultato definitivo, se no quella notte non avrei dormito ;-). Invece il mio sogno da regista/trequartista l’ho poi definitivamente abbandonato dopo averci provato ancora una volta in un torneo di quasi dieci anni fa, risultato: quattro sconfitte su quattro partite, zero gol segnati, un assist per un gol di un nostro attaccante, una traversa su punizione e un gol oscenamente mancato davanti al portiere dove ero arrivato stanco e quindi poco lucido. Per il resto avversari ventenni che mi scappavano via da tutte le parti e una grossa difficoltà nel coprire la mia parte di campo. Da allora sono nuovamente tornato a centroattacco senza più muovermi da lì, mai più (a parte una volta in cui giocai, unico maschio assieme al portiere, come libero in una squadra di calcio femminile contro avversarie tutte donne e con tanto di allenatore in panchina, oltretutto davanti ad almeno sessanta persone…vincemmo, fortunatamente). Negli ultimi due anni, a parte un altro torneo over-35, mi limito a giocare (calcetto in inverno/calcio a sette in estate) perlopiù il venerdì sera con un gruppo composto da ex-calciatori veri, hobbisti come me e qualche nuova leva. Gioco in Valchiavenna, prima andavo con due o tre miei compaesani, ma ultimamente vado da solo, ultimo “caduto” colichese il Mantovano che ormai si infortuna più spesso di Pato. E vado per muovermi un po’, senza grande interesse per il gioco in sé, anche perché, devo ammetterlo, ormai fisicamente non ne ho quasi più e capisco perché i calciatori veri smettono prima dei quaranta (fermo restando che giochiamo comunque due ore di fila e a ritmi abbastanza alti)! La serata ormai si svolge così: esco, mi fermo in un bar lungo la strada a bere un caffè, arrivo sul posto, mi cambio, entro sul terreno di gioco, non mi scaldo nemmeno, anzi chiacchiero con qualcuno a bordo campo mentre sul rettangolo prende forma una manifestazione derivata da un evidente eccesso di testosterone, coi più vecchi del lotto (e parlo di gente con qualche anno più di me, oltre ad alcuni trentenni) che tirano nella porta vuota con estrema violenza. I più giovani invece si passano il pallone rasoterra… Noi poi, quando giochiamo a calcetto, fra l’altro su un campo minuscolo, pratichiamo un misto fra calcio a undici, calcio fiorentino, hockey, rugby, lotta greco romana e hurling (un terrificante sport irlandese che è un misto appunto fra hockey, calcio e rugby). Io segno la mia manciata di gol, corricchio (poco), faccio i miei turni in porta subendo qualche rete e poi me ne vado a casa e la strada del ritorno la vedo sempre come l’ipotetico viale del tramonto della mia “carriera” di “calciatore” ;-)

 

ROUGH – Borghese  (live 1983)
Freddo boia, rientro a casa la sera, accendo il riscaldamento e mi attacco al calorifero, gas metano che fa il suo dovere e che arriva giù direttamente dalla grande madre Russia. Ci metto un secolo per scaldare le ossa messe a dura prova da dieci ore al gelo e penso che vorrei proprio diventare un “bastardo borghese che non fa un cazzo tutto il giorno” (citando l’introduzione a questo pezzo della oi! band torinese), altro che dignità del lavoro o retorica working class! A parte che poi io, lavorando in proprio, dovrei essere un capitalista/sfruttatore di merda seguendo certe logiche ignoranti, ma tant’è (vorrei farvi vedere il mio conto in banca, và…)… E come fece Tommy Lee su “The Dirt”, la biografia dei Motley Crue, vi faccio un sunto della mia giornata-tipo (la sua in tour iniziava alle cinque del pomeriggio in albergo, proseguiva fra interviste, soundcheck, cena, concerto, alcool e droghe varie, groupies in abbondanza, aereo privato per nuova città, nuovo albergo, un po’ di droga, un po’ di alcool, svenimento finale): 6.30-7.00: Sveglia. Se in buone condizioni fisiche bene, se con mal di testa o di gola o febbre bene lo stesso. Abluzioni mattutine e vestizione, pesante d’inverno, leggera d’estate, in entrambi i casi un abbigliamento da mercenario in zona di guerra africana… 6.45-7.15: Uscire di casa. Salire in macchina. Fermarsi a bere un caffè. Accendere il cellulare. Trovare almeno un paio di chiamate, della tarda sera precedente o della mattinata stessa in ore antelucane, da parte di altrettanti rompicoglioni (questo prima di disattivare gli sms di avviso). 7.00-7.30: (gli orari incrociati dipendono dalle stagioni) Arrivo in cantiere. Sperare a dita incrociate che i miei tre ragazzi si presentino tutti e tutti in buona forma. Se sì, iniziare a lavorare, se no, piano b e anche piano c per non perdere tempo e riuscire a combinare qualcosa ugualmente. 7.30-12.00: Lavorare. Sotto la stecca del sole d’estate, al gelo d’inverno. Rispondere alle chiamate dei vari spaccapalle, apprendere di un paio di nuove rogne, effettuare almeno due chiamate di sollecito pagamenti e altre due a sollecitare stesura di contabilità da parte di altrettanti direttori dei lavori, verificare eventuali pagamenti in banca, incazzarsi per tratte rimandate indietro, chiamare i pagatori mancati che si negano al telefono o fanno promesse da marinai. Eventuale giro di uffici per questioni burocratiche. Colonna sonora: Pink Floyd “Welcome to the machine” (1975). 12.00-13.00: Pranzo. Se a Colico sfrutto l’ospitalità di mia madre, se fuori zona menu-lavoro a dieci euro o colazione al sacco se in zona lontana dalla civiltà. 13.00-18.00: Ripresa dei lavori. Speranza continua che nessun mezzo/attrezzo si blocchi, che nessuno dei ragazzi si faccia male, che non arrivi l’Asl in cantiere, che arrivi il direttore dei lavori a fare almeno una volta lui i tracciamenti del caso. Rispondere alle chiamate dei vari spaccapalle, apprendere di ulteriori nuove rogne, ri-effettuare le due chiamate di sollecito pagamenti più le altre due a sollecitare stesura di contabilità da parte di altrettanti direttori dei lavori. Nel frattempo lavorare controllando che né io né i miei combiniamo qualche cazzata, che poi mi tocca pagare di tasca mia. Eventuali azioni lavorative in stile ‘Giochi senza frontiere’ per riuscire ad effettuare qualche intervento particolare. Carico di materiali vari sul camion in inevitabile sovraccarico e quindi percorso di strade secondarie per evitare le pattuglie della stradale manco fossi un delinquente. Colonna sonora: Cripple Bastards “Italia di merda” (1996). 18.00-19.00: Se lavoro di giornata concluso si va a casa. Eventuale preparazione attrezzatura e materiali per il giorno dopo. Linea telefonica sempre hot e purtroppo non nella maniera che ciò dovrebbe significare… 19.00-20.00: Rientro a casa. Stanchezza e nervosismo. Cambiarsi i vestiti, prepararsi la cena, mangiare guardando il regionale di Rai3 o QSVS su Telelombardia. 20.00-21.00: Se non devo uscire per qualcosa, occhiata alle notizie su internet, giro di siti vari, spegnimento pc. 21.00-23.00: Film in tv o su dvd, o partita di calcio in diretta. Svenimento a metà film o al trentacinquesimo del primo tempo. Spegnimento tv a film o partita finiti e visti per metà. 23.00-6.45: Sonno agitato e pieno di incubi. 6.30-7.00: Sveglia. Se in buone condizioni fisiche, bene, se con mal di testa, ecc.ecc. (questa è una giornata-tipo di quelle toste, poi ce ne sono anche di peggiori e, una tantum, qualcuna leggermente migliore…) Tutti i maledetti giorni feriali, a volte anche il sabato. E per tirarci fuori una sorta di simil-stipendio personale decisamente stiracchiato (pagamenti mancati e/o ritardati permettendo…), lavorando in regola e quindi emettendo le regolari fatture del caso, fra mille tasse, balzelli vari, prescrizioni e regolamenti illogici, subendo pure una burocrazia titanica e quasi sempre inefficiente. L’amore non c’è, i soldi neanche, c’è solo un’altra birra sul bancone di un bar, cantavano i modenesi Lomas: per me non c’è manco la birra, essendo straight edge… ;-) Sinceramente se potessi diventare il bastardo borghese che non fa un cazzo tutto il giorno non ci penserei due volte! Certo, rischierei che i Rough della situazione mi rompano il culo, ma in ogni caso molti altri me lo rompono già (figuratamente!) tutti i giorni, per cui sarebbe un rischio che correrei moooolto volentieri!

 

SCREECHING WEASEL – Kathy isn’t right  (1994)
A volte mi viene in mente che potrei dar vita ad un progetto pop-punk (in italiano) incentrato come concept sulle ragazze/donne con cui ci ho provato e che, usiamo questo eufemismo, non si sono concesse al sottoscritto (un buon 75% del totale, com’è giusto che sia). Prendendo quelle più “significative” ed inserendo anche un paio di pezzi su tipe che si sono concesse solo minimamente per poi troncare di colpo, suppongo che ne avrei quasi per un album intero o quantomeno per un ep a 12”. Potendo capitare che qualcuna di quelle che vado a breve a citare (seppur solo a livello di iniziali) legga queste righe, speriamo che l’intento ironico (facciamo ironico al 90%, và) della cosa venga compreso, anche se non ne sarei così sicuro ;-). Titoli possibili: “C. è una disturbata”, “I. è succube della madre”, “S. è una lobotomizzata” (così ci piazzo anche l’ispirazione/citazione-Ramones che non fa mai male), “F. è una cretina fricchettona”, “D. è da TSO immediato”, “K. ha le amiche stronze”, “M. è fuori di testa”, “P. ha già il tipo”, “G. non ne vuole più sapere”, fino ad arrivare al classico “L. non me la dà”. Dai, mi occupo della batteria, voglio un chitarrista e un bassista, canto io! Avevo già anche il nome, al contrario degli Heartbreakers di Johnny Thunders noi saremo i Broken Hearts capitanati dal sottoscritto, e quindi invece di J.T & The Heartbreakers ecco Jello Viagra & The Broken Hearts…poi ho scoperto che il nome Jello Viagra (niente di autobiografico, sia chiaro, finora almeno non ne ho ancora avuto bisogno, ma non si sa mai!) esiste già, me l’ha fregato un gruppo noise o giù di lì…

 

The BUSINESS – Steal this record  (2001)
Io capisco i musicisti, quelli che lo fanno di professione, quando si schierano contro la diffusione gratuita della musica via internet. In fin dei conti è come se facessero del lavoro gratis, anche se possono sempre compensare, come in effetti fanno tutti, con concerti e soprattutto merchandise. Però mi viene in mente che senza poterli scaricare aggratis, ad esempio, non avrei mai ascoltato (ed apprezzato, in buona parte) i dischi recenti dei NoFx (per recenti diciamo dal ’96 ad oggi!), per cui Fat Mike & soci devono essere contenti di questo. Idem per molti altri gruppi di svariati altri generi. Senza il download quanta bella musica avrei perso? Invece ho potuto provare ad ascoltare ed apprezzare bands di filoni musicali a me ignoti, ma che sempre mi avevano incuriosito, come il kraut-rock o il progressive, inglese ed italiano, anni settanta. Ho approfondito i generi che più mi interessano negli ambiti metal, punk ed hardcore, scoprendo gruppi del passato veramente fantastici. Gente che può solo ringraziare internet, dato che è solo così che la loro musica ha potuto entrare in casa mia e in quella di centinaia di altri appassionati come me che, per ovvi motivi, non possono conoscere tutto quello che è uscito nel corso degli anni, né tantomeno permettersi di comprare tutto quanto ci interessi. Il file-sharing è, come si può facilmente immaginare, una versione milioni di volte più potente e ramificata di quello che era il tape-trading (cioè lo scambio di cassette internazionale) negli anni ottanta/primi novanta. E come quello è mosso dalla passione per la musica, non dalla voglia di fregare i gruppi e le etichette (che in certi casi se lo meriterebbero pure, bands e labels!), credetemi! Certo, questo e l’attuale crisi economica hanno messo in ginocchio i negozi di dischi, non lo nego, come non nego che mi salga una certa tristezza ogni qualvolta vedo che dove c’era un negozietto, ora c’è uno spazio vuoto o una saracinesca abbassata. Sono passato recentemente sulla Lecco-Como e ho visto che un negozio che si trovava lungo quella strada è ora chiuso da tempo… Ricordo che, doveva essere verso la fine del ’92, andando con la mia 127 a Como per qualche documento (all’epoca eravamo ancora in provincia di Co), notai questo negozio e al ritorno mi fermai a vedere se c’era qualcosa di interessante. Ne uscii con “The birthday party”, album dal vivo dei Motorhead anno 1985, preso in offerta a diecimila lire. Adesso al posto di quegli scaffali che all’epoca traboccavano di vinili c’è un grande spazio vuoto con all’esterno un enorme cartello vendesi/affittasi…

 

GHETTO 84 – Fuori dal branco  (1996)
In questo pezzo la band bolognese, nella maniera diretta e senza mezze misure tipica dell’oi! cantava molto appropriatamente “sogna sogna il futuro, intanto oggi ce l’hai in culo”. E’ una grande verità. Lo provo sulla mia pelle, sempre in attesa di quel mio sol dell’avvenire che mai sorgerà veramente. Perché le cose andando avanti, crescendo, peggiorano giorno dopo giorno. E andando indietro nel tempo, agli anni del primo hardcore nazionale, c’erano dei ragazzini italiani di 18/20 anni che avevano già capito tutto: l’esortazione “vivi ogni momento non perdere un istante, un altro giorno è passato e indietro non ritorna” (Wretched), la vita vista come una “grande corsa verso la morte” (Negazione), l’esistenza nella quale “come lemmings cerchiamo il mare” (Fall Out, già un po’ più vecchi degli altri). I Negazione, soprattutto, hanno scritto delle cose come “l’unica certezza resta la precarietà”, ditemi voi se questa non è LA verità assoluta della vita, oppure “troppe volte il bello diventa brutto, troppe volte soffro, troppe volte”, un verso che semplicemente condensava in poche parole la realtà, non risultando nemmeno troppo dissimile dalla filosofia di Schopenhauer secondo la quale il piacere è solo una fugace cessazione del dolore che invece è pressoché permanente. Per quello ho sempre sentito più vicini i testi dei Negazione rispetto a quelli dei Kina, contrariamente a molta altra gente, anche di mia conoscenza, per quanto l’immortale “questi anni stan correndo via come macchine impazzite, li senti arrivare e sono già lontani, ti chiedi cos’è successo?” sia un’altra verità indiscutibile di questo mistero chiamato vita/esistenza. Restando sempre in ambito hardcore, i Madball saranno anche dei tamarroni al cui confronto anche il tronista più cafone sembra un azzimato baronetto inglese dell’ottocento, ma dicono una verità tanto semplice quanto enorme in ‘Pride’ (un pezzo del ’96), parole che sento anche un po’ mie: “…thinking back when I was a kid, times have changed so much since then, times are changing for the worse. I know my family is there for me and without them where the hell would I be…” (traducetevele da voi, và). Ed in effetti, non sarebbe bello, anche solo per un po’, poter tornare indietro, in quegli anni della fanciullezza? Coi genitori giovani e pieni di speranze e col resto della famiglia ancora in salute e sempre pronta a dare una mano. E io senza una menata al mondo, a godermi il calore degli affetti. Anche solo per un attimo. Solo utopie dettate da un momento di riflessione, ovvio, nella realtà c’è solo da andare avanti cercando di rimanere sempre in piedi, sempre con in testa quella frase dei Negazione, quella secondo cui è la precarietà l’unica certezza dell’esistenza. Eppure mi ricordo di gente che a vent’anni si era già programmata la vita, che mi raccontava per filo e per segno quali sarebbero state le loro mosse nei quindici anni successivi, ed hanno fatto esattamente quello che mi dicevano quando io li ascoltavo stupito ed incredulo. Cazzo, io ancora adesso non so nemmeno cosa succederà domani di preciso, figurarsi su una distanza di anni. Anche perchè ogni momento è sempre una sliding-door, a volte basta un minuto in più o in meno per fare (o evitare) quell’incontro o quella situazione che ti cambiano la vita o indirizzano gli eventi futuri. Per esperienza personale devo dire che le cose, semplicemente, accadono. Se cerchi di farle accadere, nel mio caso almeno, va tutto in merda. Non significa vivere con rassegnazione e fatalismo, anzi, ma quantomeno con la consapevolezza derivata dall’esperienza. E ognuno ha ed ha avuto le sue di esperienze…

 

COMRADES – The Mustafà mosh (summer 2000 dance version)  (2000)
Ho appena rivisto una vecchia puntata di “X-Files” in cui c’era un prete praticamente sosia del Petralia (voce dei Comrades di cui sopra, per i profani e le profane), che non a caso sfoggiava una croce rovesciata al collo (anche se come simbolo della Chiesa di San Pietro e non come orpello demoniaco). Comunque, che serie che era “X-Files”! Aveva tutto quello che si può chiedere ad un programma del genere: u.f.o., mutazioni genetiche, vampirismo, satanismo, cospirazioni governative, scienza spinta all’estremo, sette e religioni, criptozoologia, puntate ispirate a fatti storici realmente accaduti, storie costruite su leggende e miti da tutto il mondo, ecc.ecc.ecc.…forse l’unica cosa che è mancata è stata qualche tematica strettamente lovecraftiana, lì saremmo stati alla perfezione assoluta. Ottimi anche i personaggi e le loro caratterizzazioni. Soprattutto Mulder è perfetto per il ruolo (personalmente però non avrei spinto sull’aspetto sentimentale fra lui e Scully, vedi le ultime serie, avrei preferito che la loro restasse una relazione puramente professionale). Ottimi i vari Skinner e gli informatori di Mulder più, fra i “cattivi”, l’Uomo che Fuma e Alex Krycek. I miei preferiti sono i grandi Pistoleri Solitari (col biondo sempre con magliette Ramones o Social Distortion). Le prime quattro/cinque serie sono veramente spettacolari, ma alla fine non sono male nemmeno le ultime, quelle in cui Fox Mulder sparisce per un lungo periodo, Dana Scully si fa un po’ da parte e arrivano John Doggett e Monica Reyes (se c’è qualche lettrice che le assomiglia mi contatti immediatamente ;-) !). Fra gli ospiti in alcuni episodi: Jack Black, Burt Reynolds, Dave Grohl (dei Foo Fighters, nome quanto mai appropriato, ex Nirvana, ma soprattutto ex Scream) per due secondi nel ’96, la pornostar mainstream Ashlyn Gere, l’attrice che interpretava Xena la principessa guerriera qui nei panni della supersoldatessa, il tipo che faceva Orco nei vari “La rivincita dei nerds”, Terry O’Quinn (il pelato di ‘Lost’, John Locke) più altri attori visti poi nello stesso ‘Lost’. Le musiche di Mark Snow (conosciutissima sigla a parte) sono strepitose ed inquietanti (come un Mortiis dei primi dischi all’ennesima potenza), lo scenario dei boschi canadesi (le prime serie vennero filmate appunto in Canada) è altrettanto inquietante e, anche se questa musica non si sentirà mai nel corso della serie, l’atmosfera è quella evocata da certe death/doom metal bands statunitensi dei primi 90’s. La musica, appunto: nei vari episodi troviamo frammenti di ‘Radar love’ (il classico degli olandesi Golden Earring, la band preferita da Steve Harris degli Iron Maiden), del mega-hit ‘Come out and play’ degli Offspring, di ‘The unheard’ degli X, di ‘Deep’ di Danzig, di ‘The sky is broken’ di Moby (di cui ricordo i trascorsi hardcore con la band dei Vatican Commandos nei primissimi 80’s). E poi il duetto fra Alice Cooper e Rob Zombie, alcuni pezzi di Syd Barrett solista post-Pink Floyd (nell’episodio incentrato sul ragazzino fan di Barrett) e svariati brani di rock classico di Jimi Hendrix, degli Eagles e dei Pretenders. Ovvio che sia andato a vedere in rete quali pezzi sono stati utilizzati, però in effetti mi era capitato di riconoscerne alcuni (quelli di Barrett ad esempio, oppure ‘Radar love’ o i classici del rock, ovviamente) oltre che dire a me stesso ‘ma questa non è la voce di Danzig??’ (certo che, ricordando i trascorsi hardcore-punk e pre-piacioneria di Glenn Danzig nei Misfits, quest’ultima band avrebbe meritato l’inclusione di qualche pezzo tipo ‘Astro zombies’ o ‘I turned into a martian’, viste le tematiche in linea con quanto trattato in ‘X-Files’!). Fra l’altro John Carter, ideatore della serie, pare sia un grande fan di hardcore-punk e ciò spiega la puntata col protagonista sempre abbigliato con t-shirt dei Vandals e svariati pezzi della band californiana nella colonna sonora dell’episodio in questione. Gillian Anderson, l’attrice che interpreta Scully, pare invece sia una fan di heavy metal e in effetti in un episodio, nel quale c’era la solita crociata contro il metal satanico, dice “ma che provino ad ascoltarsi i Megadeth!” o qualcosa del genere. Nota di cronaca, nel 1996 uscì un album, “Songs in the key of X: music from and inspired by the X-files” con, fra gli altri, Danzig, Meat Puppets e, ovviamente, Foo Fighters (il cui nome, per chi non lo sapesse, è quello che venne dato a quei fenomeni aerei inspiegabili avvistati dai piloti militari durante la seconda guerra mondiale nei cieli d’Europa e sopra il Pacifico). In “X-Files” si teorizzava una tremenda invasione aliena prevista per il 21 dicembre 2012 come dalle (supposte) predizioni dei Maya, l’invasione non c’è stata (oi! fatti una risata, direbbe il Balestrino), però io pensavo che noi italiani, come all’epoca sostenevamo che “Francia o Spagna, basta che se magna!”, avremmo tranquillamente sostenuto che “alieni e Maya, basta che se maja!”: che popolo siamo! ;-)

 

The DICKIES – Killer klowns from outer space  (1988)
Superstrada Lecco-Colico, verso le ventidue di un giovedì di inizio agosto, traffico zero assoluto. Sto rientrando a casa dopo una serata nel lecchese caratterizzata soprattutto da un fortissimo mal di testa che ho cercato di combattere con un paio di pastiglie triptanimiche. Il dolore ormai è passato, ma le due compresse mi hanno spedito in un’altra dimensione, mi sembra di essere io in giro per l’universo (l’outer space del film di cui i Dickies scrissero la colonna sonora). E cominciano le visioni: mi appare Dio, ma non la divinità cristiana, intendo il compianto Ronnie James Dio a cui dico “mi spiace, eri uno dei miei cantanti preferiti” e lo saluto con un “Ronnie James Addio” (come la geniale scritta che c’è nel sottopassaggio di Talamona, apparsa pure in una foto sulla ‘Provincia’ che stigmatizzava il degrado di quell’area). Dio se ne va facendomi il suo classico gesto delle corna che interpreto come un saluto metallaro e basta, dato che per avere le corna, quelle del tradimento, dovrei avere anche qualcuna che mi tradisca, quindi la cosa attualmente non è un mio problema. E mi appare Johnny Dorelli nei panni del mago di “Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio” quando il contadino gli dice che gli stregoni solitamente hanno le corna (quelle fisiche) e gli chiede se lui ce le ha, con Dorelli che equivocando risponde sornione “non credo, però non si può mai sapere” e di colpo mi appare il volto di un noto cornuto colichese e dietro di lui i DarkThrone versione quartetto 1991 che suonano “In the shadow of the horns” (peraltro gran pezzo dal riff e dall’incedere nettamente celticfrostiani)! Ormai sono in pieno trip cosmico e mi appare il Paso di ForTheKids webzine che mi chiede “quali sono i tre dischi che ti porteresti su un’isola deserta?”, ma no, rifletto, tre sono pochi, facciamo almeno venti, e poi penso che prima dei dischi servirebbe qualcosa d’altro e mi appaiono Sasha Grey e Jynx Maze che mi dicono maliziosamente “perché non porti noi due?”. “Eh!” rispondo ingolosito “e la crema solare la porto io!”, ma le due attricette scompaiono subito per essere rimpiazzate da Ted Nugent, il chitarrista-cacciatore americano che mi dice con aria da duro “ho un cugino a Colico” (in riferimento ad un tal John Edward Nugent che si trova sull’elenco telefonico del mio paese) e sparisce canticchiando il ritornello di ‘Kiss my ass’. E’ la volta di Rossano Funicello, noto come Ross The Boss, che mi dice con accento napoletano “o’ viking metal l’ho inventato io! Metti su ‘o piatto l’album ‘Hail to England’ e poi dimme tu”; ha ragione, rifletto io, sono quei riffs che risentirò anni dopo nei Bathory più epici. E qui ovviamente mi appare la buonanima di Quorthon che mi dice in svedese (che io nel trip triptanimico comprendo perfettamente) “ha ragione Ross, certi Manowar mi hanno ispirato parecchio come io ho ispirato decine di bands nordiche che verranno dopo noi Bathory”. E io penso che altro che fiordi norvegesi e coste svedesi, il viking metal l’ha inventato un italo-americano di origini campane! Mi viene voglia di fermarmi a prendere una pizza d’asporto appena esco dalla superstrada. E ci siamo quasi all’uscita, ma prima c’è l’ultima apparizione di questa serata allucinogena: Edgar Allan Poe in persona. “Scusi, lei è…?” chiedo al signore baffuto in abiti antichi che si è materializzato sul sedile del passeggero alla mia destra. Appresa la risposta giustifico la mia figuraccia con un “Mi deve perdonare, non sapevo che faccia avesse, ma ho letto parecchi suoi racconti”. Poe fa un gesto come a dire nessun problema e prima di sparire mi dice: “Chi come te sogna di giorno, anche se adesso sono le ventidue e trenta, conosce molte cose che sfuggono a chi sogna solo di notte, ti saluto!”.

 

BATHORY – Father to son  (1990)
C’è questa cosa per cui parecchi musicisti affermati sono figli (o nipoti, a volte) di altrettanti musicisti, famosi o meno famosi (un po’ una cosa che si riscontra anche nel mondo dello sport, calcio e formula uno le discipline più sotto gli occhi di tutti, ma vale per qualsiasi attività sportiva). Se ne deduce che il crescere in un determinato environment incoraggi il giovane a seguire le orme paterne e tutto quanto, fermo restando che qualche qualità questo giovane deve avercela comunque e che l’ambiente faccia sì che queste doti vengano sviluppate. Spesso ovviamente il genitore ingombrante eclissa il figlio sotto ogni punto di vista, qualitativo soprattutto (nomi mainstream: Julian Lennon, Dweezil Zappa, Ziggy Marley, Cristiano De Andrè, i primi figli di artisti illustri che mi vengono in mente). Ma nel mio caso e nel caso di tutte quelle bestie dello strumento come il sottoscritto, ci sono stati musicisti in famiglia oltre a loro? Nel mio caso sì, è questo il dramma! Io (che sono uno che dopo esattamente ventitre anni dietro una batteria ancora non ha ben compreso la differenza fra il 2/4 e il 4/4, che non conosce minimamente la musica ed è più facile che sappia leggere un pentagramma demoniaco piuttosto che un pentagramma musicale, che il livello “tecnico” col quale suonava, che so, nel ’95 è lo stesso di adesso del 2013, che conosce le meccaniche del suo strumento tanto quanto quelle di un motore di un aviogetto; anche perché ho sempre visto il suonare uno strumento come il mezzo per registrare qualche disco da proporre poi dal vivo e quindi per andare in giro a vedere posti/gente/situazioni nuovi, per cui non me n’è mai nemmeno fregato molto di imparare a suonare davvero la batteria), ecco, io ne ho avuti e ne ho. Il mio defunto prozio materno (fratello di quella nonna “Lady Nessuno Schema”) svizzero-francese (italiano di nascita, si chiamava infatti Achille Scotti, ma trasferitosi per lavoro in quel di Ginevra, lavoro di musicista s’intende), cieco dalla nascita (e, essendo stato un bell’uomo, con due belle mogli vedenti all’attivo), è stato un pianista di estrazione jazz di respiro internazionale, turnista su centinaia di albums di svariatissimi generi incisi negli studi del ginevrino e non solo (registrò spesso anche in Italia, oltre che in Francia e Germania), oltre che autore di parecchi dischi a nome proprio, assieme ad altri musicisti, ecc.ecc. (alcuni sono pure listati su discogs.com, ma sono il 2% di quelli che vidi nel suo archivio a Ginevra da ragazzino). Quindi, se vi capita in mano qualche disco nei cui credits compare un tale Achille Scotti, parafrasando il titolo del film ‘Era mio padre’, era mio zio. Lo zio, prematuramente scomparso sessantenne nel 1988, era un personaggio brillante ed ironico e da vero conoscitore di musica apprezzava parecchio l’opera e la tecnica di alcuni gruppi heavy metal (Iron Maiden su tutti). Credo che la mia passione per i suoni tastieristici (abbastanza inusuale per un patito di hardcore/metal/punk), come ho già scritto, sia stata l’unica eredità musicale che lo zio abbia trasmesso ai miei geni… Uno dei figli dello zio ha seguito le orme del padre (vedi sopra) ed è un apprezzato compositore di musiche per cinema, tv e spettacoli teatrali. Ma le mie parentele “illustri” non sono finite qui, la violinista Francesca Dego, attualmente famosissima e quotatissima a livello internazionale, è una mia cugina di terzo (?) grado (i nostri nonni erano cugini). Devo averla vista l’ultima volta dieci anni fa, ma in ogni caso, inspiegabilmente, una parte di quello che scorre nelle vene di entrambi è lo stesso sangue. Infine, menzione per due cugini di secondo grado da parte di padre, gemelli (purtroppo defunti giovani a poca distanza l’uno dall’altro, entrambi causa infarto fulminante) che, mi venne raccontato, negli anni settanta girarono in tour la Svizzera suonando in una specie di Beatles tribute-band (il basso à-la Paul McCartney venne riesumato anni dopo per la mia primissima band, i Marones). A tutto questo pensateci quando mi vedrete dal vivo entrare fuori tempo su un pezzo che suono per la trecentesima volta! ;-)

 

The BEATLES – Help!  (1965)
Io musicalmente sono ninfomane, nel senso che mi concedo a parecchi generi diversi, però non a tutti quelli esistenti e mi sento un po’ come la classica tipa che la dà a chiunque tranne che a quelli che non le piacciono…e i rifiutati che dicono ‘ma guarda quella troia’, quando invece lei è una che, avendone le possibilità, vuol godersi la vita giustamente con chi le piace. Idem io che avendone le possibilità (negli ultimi anni quella diavoleria del file-sharing chiamata Soulseek) voglio godermi tutta la musica che posso, ma non transigo su certi generi di merda soprattutto quando qualcuno me li vuol spacciare come musica di alto livello. Faccio alcuni esempi in ordine sparso: quell’atrocità di pseudo-hardcore coi riffs scopiazzati malamente a quelli di At The Gates e Dark Tranquillity di più di quindici anni prima, suonato da tipi col bel visino da studente modello e/o qualcosa da servizio sociale, magari con gli occhiali  da simil-intellettuale, ma tatuatissimi come neanche nei ghetti ispanici di Los Angeles; il nu-metal suonato da gente rotondetta con capello alla Pino Insegno e orecchini da pirla, l’orripilante ragamuffin suonato da studenti fuori corso con capelli rasta e occhiali spessi, certo ska allegrone magari con l’uso ed abuso di espressioni in spagnolo, quel rap pallosissimo da Mtv (quello che sbrigativamente viene apostrofato col commento da bar ‘müsica de neghér”, ma che nulla ha a che vedere col rap d’assalto dei vecchi Run DMC e Public Enemy, negroni pure loro), l’indie piagnone e finto tecnico con tutte le varie diramazioni del caso. Giusto per citare quelli che più detesto. Preferisco ascoltare il suono della pioggia che cade piuttosto che le musiche succitate (rubo la battuta ad un Varg Vikernes intervistato sul black metal attuale). Ci sono poi dei generi che non ascolto sulla lunghezza di un album, ma che, limitatamente a qualche minuto e a qualche brano qua e là, non mi dispiacciono affatto: la classica, il jazz (le sue varie diramazioni, sono ignorantissimo in materia), certo ambient, certa elettronica, il vecchio blues del sud degli States, il rock’n’roll delle origini, quel rap d’assalto di cui sopra, certa techno-dance, certo pop commerciale, il cantautorato e il folk nelle sue varie declinazioni. Alla fine però sono semplicemente un appassionato di musica rock, soprattutto, come ho già di sicuro scritto da qualche altra parte in questa fanza, di heavy/thrash/death/black metal, glam/hard rock/classic rock, punk ed hardcore. Però non mi sento nemmeno un rocker (quella è roba per il Bassman ;-)!), dovessi proprio darmi una definizione, ma proprio non ne potessi fare a meno, direi di essere un hardcorer (per look, pensiero e attività passate) a cui piace anche un mare di altra musica! E sulle musiche che piacciono a me faccio una piccola riflessione: l’attuale scena musicale rock/metal/punk/hardcore mi sembra decisamente statica! Ma come? Direte voi. Escono centinaia di dischi, con le nuove tecnologie chiunque può registrare il proprio lavoro, internet permette la diffusione in tutto il mondo con un semplice click, ecc. ecc. Ok, vi do ragione, ma come mai le big-bands (in svariati generi e sottogeneri) sono ancora quelle di vent’anni fa? Cosa è successo di nuovo dal 1992 ad oggi? Il nu-metal? Ah bè, allora… Ma vi rendete conto che da Rolling Stones/Beatles a Sex Pistols/Clash (che cantavano ‘no Elvis, Beatles or Rolling Stones in 1977’) sembrava passato un secolo ed invece si trattava solo di 12/15 anni prima? Ai giorni nostri dischi di 10 o 15 anni fa sembrano ancora nuovi, sono ancora la musica di adesso. Voglio dire, dal poniamo 1968 si è passati da Cream, Jimi Hendrix e Doors a Napalm Death e Carcass in 20 anni. Anni luce! E in mezzo di tutto: l’hard rock, il rock progressivo, il kraut-rock, il punk ‘77, la new wave, l’hardcore, la n.w.o.b.h.m., il doom, il thrash metal e le prime avvisaglie di death e black, e chissà cosa mi sto dimenticando! E i gruppi se ne rendono conto, sia quelli vecchi che pure quelli attuali! Idem gli ascoltatori o gran parte di essi. Sanno/sappiamo tutti che tutto è già stato detto/scritto/suonato e per questo si tratta di una scena statica. Il rock diventerà, e lo sta già facendo, come la musica classica, dove ancora oggi si parla dei vari Mozart, Beethoven, Bach, ecc. (qualcuno sa nominarmi un compositore diciamo così “mainstream” dopo di loro?), che codificarono il genere. Scommettiamo che fra due / trecento anni saranno ancora qui con Led Zeppelin, Jimi Hendrix, Pink Floyd, Bruce Springsteen, Deep Purple, Black Sabbath, Doors, ecc.ecc.ecc.? Se parlo strettamente di hardcore, dato che sopra mi sono definito un hardcorer ;-), ho recentemente fatto una riflessione che mi ha (relativamente s’intende, abituato a ben altri casini extra-musicali) sconvolto. Stavo ascoltando in macchina “Life of dreams” dei Crumbsuckers, un disco della madonna di Thrashcore statunitense datato 1986. Dopo 26 anni questo album suona ancora attuale, ma 26 anni prima di quel disco cosa c’era? Era il 1960!!! Non esistevano ancora nemmeno i Rolling Stones! C’erano Elvis Presley, Frank Sinatra, Gene Vincent ed Eddie Cochran e nascevano proprio in quell’anno i Beatles. Era la preistoria, cavolo! E’ come se dal 1960 al 1986 fossero trascorsi appunto anni luce, mentre dall’86 ad oggi ci sia stato un progressivo rallentamento del tempo che si è intensificato nell’ultimo decennio. E mi immagino un festival hardcore di quelli attuali (happenings che ormai non frequento più), suonano quattro o cinque bands di adesso e poi, dal cesso chimico che funge da macchina del tempo, sbucano fuori i Crumbsuckers versione ’86 e salgono sul palco, coi suoni e la strumentazione di allora e danno la merda a tutti, ventisei anni dopo, senza se e senza ma. Ridicolizzando quei gruppi nu-core o nu-death metal col loro look “giusto”, che poi bands così sono come quelle modelle perfettine delle riviste che trovo dal mio barbiere, bellissime ma che non mi fanno poi tutto ‘sto sesso, al contrario magari di altre ragazze meno perfette, ma con quel qualcosa che tocca i tasti giusti, dato che il sesso si fa prima con la testa che col…ci siamo capiti, và! ;-)

 

ANVIL – 666  (1982)
C’è un vecchio episodio della Hammer House Of Horror (una serie-tv britannica dei primissimi anni ottanta ideata dalla Hammer, la storica casa produttrice horror i cui primi films risalgono addirittura a metà degli anni trenta!) in cui un assistente d’obitorio era ossessionato dal numero 9 e dalle sue combinazioni ed era convinto che queste fossero codici demoniaci. Io, negli ultimi tre anni più o meno, sono invece ossessionato dal numero 666 (il numero della bestia nel Nuovo Testamento divenuto più avanti un simbolo satanico), dalla sua metà (333) e dal suo terzo (222). Esiste un pezzo, possibilmente metal, intitolato “Obsessed by 666”? Secondo Google no, per cui bands in ascolto vi do l’idea e se volete vi scrivo pure il testo ;-)! Comunque, tornando alla mia ossessione, sempre più spesso mentre sono in macchina e c’è un cd nell’autoradio (un cd qualsiasi, non necessariamente di metallo satanico), ogni qualvolta mi corre l’occhio sul display, quasi sempre questo segna il minuto 2.22 o quello 3.33. Oppure più volte mi è capitato di svegliarmi in piena notte e di leggere sulla sveglia l’orario delle due e ventidue o, meno frequentemente, quello delle tre e trentatre. Non sto inventando nulla. Quando poi recentemente mi corre l’occhio sui chilometri di autonomia che la benzina nella mia Punto mi garantisce e leggo 666 km., capisco che qui c’è qualcosa di strano! Di molto strano quando ricordo di aver letto che i chilometri percorsi una volta erano 235.222 e un’altra 252.666! Di stranissimo quando guardo nello specchietto e vedo che la macchina dietro la mia è una Opel Corsa con il famigerato numero 333 nella targa! Di inquietante quando scambio i numeri di telefonino con un elettricista con cui devo lavorare, mi faccio chiamare da lui così mi rimane il suo sul cellulare e nel display vedo apparire un numero le cui tre cifre finali sono 666! Roba da “Millennium”, la grandiosa serie horror/thriller anni novanta, non la trilogia svedese che va di moda adesso. Significherà qualcosa tutto ciò? Probabilmente no e sicuramente si tratta di casualità, un po’ frequenti quello sì, ma niente di veramente strano. Resta il fatto che quando guardo il display dell’autoradio e leggo che il pezzo è giunto al minuto 2.23 (e non al solito 2.22) mi sento decisamente sollevato! ;-)

 

AEROSMITH – Toys in the attic  (live 1978)
Sono svaccato in poltrona, leggo il “Centro Valle” e ascolto “Live! bootleg”, lo storico doppio dal vivo degli Aerosmith anni settanta. Poso un attimo il giornale e osservo il mobile dove sono stipati albums e sette pollici vari. Quanti saranno? Non li ho mai contati, né ho intenzione di farlo adesso, ma penso che in totale siano circa quattrocento unità. Quando ho iniziato a comprare vinile? Questa la so, era il 1984. Quale fu il primo disco (in vinile s’intende) che ho acquistato? Facile, “Born in the U.s.a.” di Bruce Springsteen nell’autunno di quell’anno (prima ascoltavo solo cassette, ma erano quasi sempre cassette che mi facevo registrare da chi aveva i dischi che mi interessavano, originali ne avevo pochissime), eravamo io e il Fonta (già citato più sopra, all’epoca mio compagno di classe in seconda media) un sabato pomeriggio in trasferta morbegnese. Mi faccio queste domande e inizio ad incuriosirmi, perchè ogni disco ha una storia dietro di sé, non è solo un pezzo di plastica e cartone, e questa storia per il sottoscritto conta più del valore musicale o collezionistico del platter in questione. Ne prendo uno a caso, Upset Noise “Nothing more to be said” (1988, la stampa su T.v.o.r.), hardcore thrasheggiante da Trieste. Questo l’ho preso a Como l’ultimo giorno delle visite di leva nell’ottobre del 1990. Eravamo io e il Mauro (vedi il Behind the scenes di questa fanza) e ricordo di aver comprato il disco in un negozio che stava al secondo o terzo piano di uno stabile vicino alle rive del Lario. Ne estraggo un altro, “7 wishes” dei Night Ranger (1985), hard rock band californiana. Preso a fine anni novanta dalla svendita del Freddy Krueger, negozio lecchese che avrebbe chiuso definitivamente i battenti da lì a pochi anni. Cinquemila lire spese principalmente perché su quel disco c’è il pezzo ‘This boy needs to rock’ che quando avevo tredici anni avevo registrato dalla radio e avevo ascoltato almeno un centinaio di volte ;-) ! Altro giro, altra corsa: Sodom, lo storico mini-lp d’esordio “In the sign of evil” (1985). Preso in offerta in un negozio di Alessandria in un torrido pomeriggio dell’agosto ’96, quando io e il mio ex-collega di fanza Marco eravamo scesi nella terre mandrogne a trovare il Valentini (difendo la mia reputazione da veterano black-thrasher assicurandovi che una registrazione su cassetta di quel mini la possedevo già negli anni ottanta ;-)!). Vediamo cosa salta fuori adesso: Candlemass “Epicus doomicus metallicus” (1986), primo album per la doom metal band svedese. Trovato per puro caso in una fiera morbegnese, sarà stato il ’95, da un tipo che vendeva parecchi lp metal anni ottanta, prezzando delle emerite schifezze in maniera esorbitante e vendendo a sole diecimila lire questo capolavoro. Fuori un altro: Digos Goat “Testimoni del silenzio” (1989), secondo lp per questa semisconosciuta hardcore band della provincia di Teramo, autrice di un disco decisamente originale e particolare che ancora oggi ascolto con piacere. Questo viene dalla gita scolastica di quarta superiore a Roma. Lo acquistai infatti da Disfunzioni Musicali, dopo una scarpinata terrificante ed interminabile dall’albergo dove alloggiavamo. Eravamo anche qui io e il Mauro di cui sopra. E poi N.I.A. Punx “Scendere a sud” (1993), l’album di questa hardcore band cosentina, un bel disco pure questo. Io e l’Alex conoscemmo due membri del gruppo che vendevano il loro lp fresco di stampa al concerto all’aperto di Bad Religion e Raw Power a Correggio, provincia di Reggio Emilia, nel luglio ‘93. Gliene presi cinque per l’allora neonata distribuzione La Fiera del Bestiame e uno di loro, credo fosse il cantante, ne aggiunse un sesto omaggio per il sottoscritto. E ancora, Anthrax “Fistful of metal” (1983). L’album d’esordio di questi thrashers newyorkesi molto italo-americani lo presi a Lecco al Discolandia in un grigio e ventoso pomeriggio del marzo ’88, eravamo io e un attualmente noto geologo forzista… Questo album live degli hardcorers statunitensi M.D.C., “Elvis in the Rheinland” (1988), che per anni ho avuto in versione cassetta-pirata made in Italy, lo presi originale per 10,00 euro in un negozio di Tampere nell’agosto del 2007, durante la vacanza di coppia col giro della Finlandia meridionale di cui ho accennato più sopra. E pure questo lp dei rockers norvegesi Gluecifer (“Tender is the savage”, 2000) viene dalle terre Suomi. Lo acquistai in un fornitissimo negozio metal/rock/punk di Helsinki nell’estate del 2001. Eravamo io e l’Alex in visita al Marco. E questo disco degli Aerosmith che sto ascoltando? Beh, questo è un acquisto abbastanza recente (due/tre anni fa), lo presi in offerta per 7,00 euro ad un’edizione di Vinilmania, alla quale ero andato, come molte altre volte, assieme al Valentini. Potrei andare avanti per ore così, ma ve lo risparmio ;-). Certo, moltissimi dei miei dischi vengono da acquisti o scambi postali, ma tanti altri hanno delle storie come quelle appena raccontate, compresi quelli comprati/scambiati ai banchetti delle distribuzioni nelle centinaia di concerti a cui sono stato in vita mia. Molti di questi dischi hanno un discreto valore economico (che so, il primo di Burzum, “Live in Leipzig” dei Mayhem primissima stampa, la stampa-bootleg fine anni ottanta di “Abominations of desolation” dei Morbid Angel sulla finta etichetta giapponese che invece pare fosse catanese, i primi albums dei DarkThrone, e mi limito alle prime cose black/death che mi vengono in mente. Poi ci sono altri titoli “di valore”: svariati dischi hardcore italiani e stranieri degli anni ottanta, parecchi dischi metal e thrash dello stesso periodo, ecc.ecc.), ma non ho mai avuto la minima intenzione di specularci sopra vendendoli (salvo se mai finissi in miseria un giorno e allora ci farei un pensierino sì, ovvio), anche perché darli via sarebbe come cancellare dei momenti della propria esistenza, come negare se stessi e quello che si era e si è. E quindi resto legato ai dischi per questo motivo soprattutto, poi certo anche per potermi vantare di possedere il raro ep dei Celtic Frost “I won’t dance”, ovvio ;-)! Tutto ciò detto, non mi sento un collezionista. Semplicemente se trovo un disco che mi interessa, e lo trovo a prezzi umani, me lo prendo. Sulla quantità gioca molto il fatto che sono abbastanza onnivoro in fatto di gusti musicali (anche se limitatamente ai molti sottogeneri di alcuni generi in particolare), per cui la gamma di scelta è piuttosto ampia. Ma non spendo centinaia di euro per un disco che mi manca, quello proprio no, trovo immorale (e stupida) la cosa. Dicevo più sopra di avere i primi albums dei DarkThrone, ecco in realtà mi manca il terzo (“Under a funeral moon”), che penso al giorno d’oggi sia reperibile tramite prestito bancario visto a quanto sarà schizzato il costo dell’edizione originale del vinile. E non mi interessa avercelo (a meno che qualcuno non me lo trovi a dieci euro, eheh), gli altri ce li ho perché comprati quando uscirono ed è così per grandissima parte dei dischi in mio possesso, così o tramite offerte a prezzi bassi in tempi recenti. Mi è infatti sempre piaciuto girare per negozietti, far passare decine e decine di dischi infami per poi magari trovare a poche lire/euro un bel disco rock/metal/punk. Negli ultimi anni, complici la morìa dei negozi di dischi e il fatto che se vuoi ascoltare qualcosa lo trovi senza problemi sul web, pratico molto meno questo passatempo, ma quando capita per me è un momento sacrale. Sul favoloso libro di Maurizio Blatto, “L’ultimo disco dei mohicani”, l’autore, gestore/socio del negozio di dischi torinese Backdoor scrive che la gente che va nei negozi di dischi, quasi tutta ci va per parlare, per avere dei contatti umani, che siano coi gestori o con altri avventori. Concordo, è una cosa che avevo notato anch’io nel mio peregrinare per negozietti di ogni genere nel corso degli anni, ma per quanto mi riguarda è esattamente il contrario! Come dicevo prima, i momenti in cui si fanno passare i vinili alla ricerca di non si sa nemmeno cosa, ma sempre sperando che salti fuori quel disco che ti fa sobbalzare il cuore, sono momenti sacrali, al limite dell’autoerotismo quasi. Già detesto quelli che mentre io guardo i dischi chiacchierano ad alto volume con gestori o altri clienti, immaginatevi quindi quanto io possa odiare ferocemente quelli che alle mie spalle parlano e sparano sentenze (generalmente cazzate) sugli albums che via via scorrono fra le mie dita. Tornando al paragone con l’autoerotismo è come se uno che si sta guardando un video hard abbia dietro le spalle un altro che sentenzia: ‘ah però la Silvia Saint è proprio una gran figa, però la preferivo a inizio carriera, e poi adesso fa solo scene lesbo’ ecc.ecc. No, silenzio totale e concentrazione sul video, cioè volevo dire sui vinili, ma stiamo scherzando? ;-)

 

BURZUM – A lost forgotten sad spirit  (1992)
Ventun anni fa lo Zorro (Carrions N.N., ma qualcuno fra voi lo riconoscerà meglio come il professor Vaninetti, insegnante di matematica e fisica al liceo di Morbegno) disse in un’intervista proprio per questa fanzine che “…quando tu scrivi, se vuoi scrivere cose vere, scrivi ciò che hai in mente in quel momento. Quando stai scopando oppure quando ti stai divertendo non ti viene in mente di scrivere un testo. L’unico momento in cui hai voglia di comunicare è quando sei triste”. Io sono d’accordo solo a metà, almeno in riferimento alle mie esperienze personali. Certo, va detto che i testi dei Carrions erano sicuramente più comunicativi/significativi di quelli di noi Gradinata Nord, che sono quantomeno più divertenti(spero almeno)/divertiti. Posso dire che la seconda strofa del pezzo “Gradinata Rock” (maggio 2007) mi è venuta in mente appunto mentre stavo facendo sesso, l’ho messa assieme facendo la doccia e poi sono sceso di corsa in cucina (dove abitavo allora) a prendere un block notes e l’avevo messa su carta (la prima strofa invece è di Renza, dalla prima versione del pezzo, gennaio 2000, per la cronaca). Comunque i miei momenti migliori per la scrittura, che sia quella di testi per canzoni o quella per questa fanzine, sono quelli in cui sto per fare qualcosa di divertente o sto per fare sesso con qualcuna, e in questo caso concordo in pieno con Lemmy e il pezzo dei suoi Motorhead “The chase is better than the catch” (traducibile con: il momento della caccia è meglio di quello della cattura, più o meno), in quei momenti mi viene come un flusso di energia creativa che mi fa mettere su carta un sacco di roba. Poi certo, specie su questo numero della fanza, come già detto in precedenza, ho scritto nelle condizioni più disparate: sia mentali (dalla disperazione più nera alla felicità estrema), sia fisiche (con la febbre a 39° e scoppiando di salute), sia meteorologiche (con un caldo infame e con un freddo porco), ma penso che in undici anni di gestazione sia una cosa piuttosto normale. O no? ;-)

 

POISON – Fallen angel  (1988)
Avete presente il video di questo pezzo? Brevemente, c’è la bella ragazza bionda che arriva col pullman dal midwest a Los Angeles con mille sogni nel cassetto, va a fare i castings, parla al telefono col padre a casa mentre la madre piange, finisce nelle mani di un sedicente manager che prima la introduce alla bella vita, la illude e chiaramente se la scopa, ma la maltratta, finchè lei gli pianta un calcio nei cosiddetti e va a fare la valigia per tornare a casa, ma mentre sta andando alla fermata del bus arriva Bret Michaels (il cantante dei Poison) con una potente motocicletta e la carica portandola metaforicamente in salvo e sorpassando l’appena giunto pullman della Gray Line da cui scende l’ennesima ragazza proveniente dal midwest che sta per infilarsi nel tritatutto losangelino. Una cosa simile che succede qui da noi, e che ho avuto modo di constatare più volte, è quello di tante ragazze delle nostre parti che a diciott’anni vanno a studiare a Milano o a Pavia o a Padova e finalmente vedono il mondo, quel mondo che fino a quel momento le era stato negato da genitori oppressivi, fratelli protettivi, fidanzatini dalle vedute limitatissime, amiche nella loro stessa situazione o, semplicemente, per mentalità provinciale che corre per le linee di sangue di una famiglia da generazioni. Vedono il mondo, scoprono che ci sono altri modi di vivere, altri tipi di persone e che la vita ha mille sfaccettature, non è solo bianca o nera. E sbroccano. Le capisco, io stesso, che da sempre cerco di “sprovincializzarmi”, che da più di vent’anni esco da queste amene lande, conosco persone di ogni tipo in svariati ambiti e frequento situazioni di vario genere, eppure ancora adesso, a volte, in certi momenti mi sento ancora come Pozzetto in “Il ragazzo di campagna” quando va in città. Figurarsi chi non ha il “background” del sottoscritto, come ovviamente non possono avercelo queste ragazzine appena maggiorenni. Altro che sbroccare. E difatti o ci sono quelle che non tornano più indietro e sviluppano la propria esistenza nelle città dove sono andate a studiare oppure quelle che tornano quassù e si adattano, per convenzioni sociali, ad una vita provinciale fatta di un marito del posto e di un paio di marmocchi, ma spesso, dopo qualche anno, o si fanno l’amante o danno fuori di matto, perché dopo aver appreso che esistono altri modi in cui condurre la propria esistenza, non ne possono più di una realtà fatta di mutui, bollette, pediatri e pappette, oltre che di un marito ottuso e di genitori/suoceri impiccioni, con l’unico diversivo del sabato sera in pizzeria coi bimbi vocianti e sbrodolanti. Per questo io, che sarò anche cinico ma sono soprattutto realista, non mi stupisco quando qualche povera crista fa fuori i propri bambini… E dato che siamo scivolati sul tragico, risolleviamoci con questa frase tratta da un’e-mail che mi spedì il Prof. Botka (perfetto esempio morbegnese di provinciale-sprovincializzato) dalla Germania nell’autunno del 2000: “Ho fatto carnevale a Mainz dove la presenza di tipi vestiti da marinai (una decina come minimo) mi ha spinto a canticchiare continuamente i Turbonegro. Mi sono ferito ad una mano (tipo Cripple Bastards) scivolando in un bar a Mainz su un vetro rotto. Un taglietto, ma ero gasatissimo: punk!!!!!!! Mi ha risollevato un tipo vestito da orso…”.

 

EXODUS – ‘Til death do us part  (1987)
Io per il lavoro che faccio viaggio molto e una volta sono stato anche a Genova. In realtà no, almeno non ci sono stato per il lavoro che faccio, ma questa era una citazione di “A me mi piace il mare” di Cochi & Renato. Però, sì, per il lavoro che faccio viaggio molto o meglio mi muovo continuamente fra i vari paesi delle province di Lecco e Como e a volte Sondrio; per cui può capitare che vada oggi in un paesino e ci ritorni fra una settimana circa. E passo sempre davanti al muro dove vengono appiccicati gli annunci mortuari. E quando ce ne sono di nuovi penso sempre che queste persone l’ultima volta che io ero nel loro paese erano vive e ora non lo sono più. E magari fra una settimana sarà la volta di altri, magari di quel vecchietto che mi sta facendo un cenno di saluto o di quella donna anziana che torna dall’orto con un secchio in mano. A me queste sono cose che fanno un certo effetto… Nel mentre che scrivo sto lavorando sul lago di Novate in Valchiavenna, non molto distante da dove effettuai un altro intervento simile nel 2008. Una mattina sono andato a vedere quel posto e mi sono ricordato di un pomeriggio in cui, mentre stavo spostando dei sassi con un mini-escavatore, ero stato richiamato da due uomini del posto per farmi osservare un gruppo di bisce d’acqua sulle rive del lago. Adesso, nel 2013, quei due sono passati entrambi a miglior vita, e non avevano novant’anni, anzi, uno ne aveva 48 e l’altro era già tanto se aveva passato i 60… Idem quando l’altro giorno sono stato a vedere un lavoretto di pavimentazione esterna presso una signora per la cui madre avevo già lavorato una quindicina di anni fa. Sia la madre che la zia che il muratore con cui all’epoca avevo effettuato l’intervento, oggi sono tutti sottoterra…….scusate i puntini, ma ho dovuto mettere una mano sotto il tavolo a toccare legno come dicono gli anglosassoni! E queste cose mi fanno ancora più effetto degli annunci mortuari di cui sopra. Eppure si sa, il tempo passa, nulla è eterno, ciò che nasce muore, e tutto il campionario solito. E quindi qual è il senso della vita? Annaspare per anni per tenersi a galla e poi di colpo (quando va bene) finire in cenere? Bella merda, direbbe il poeta. Cambio leggermente argomento, ma siamo sempre in tema più o meno. Recentemente ero fermo ad un semaforo, che sembrava rimanere rosso per un tempo interminabile, e guardavo il muro alla mia sinistra, un muro intonacato in maniera grezza che dato più o meno alla fine degli anni sessanta/primi settanta. E penso a chi l’aveva costruito. Mi immagino la squadretta di muratori e mi faccio il mio film personale: il capomastro già di una certa età taciturno ed autoritario, il bocia di quattordici anni che non sa fare niente se non impastare la malta cercando di non sbagliare le quantità di acqua e calce/cemento se no il capo si incazza, un ragazzo sui venti che non vede l’ora di sbaraccare per andare a prendere la morosa che lo aspetta fuori dalla filanda in cui lavora, un uomo sui trentacinque che sa che quando tornerà a casa troverà una moglie rompicoglioni e un paio di figli ingestibili e lavora rassegnato a lisciare la malta sui muri. Cosa avranno pensato quelle persone in quei momenti? Che vite avranno vissuto? Sono ancora tutti vivi? Come se la passano? E me lo chiedo davvero, anche dopo che il semaforo è diventato verde e io ho ripreso la strada verso la mia destinazione. Milioni di vite che si incrociano da sempre e quanto poco ne sappiamo noi… a me fa un certo effetto anche pensare a questo. Sono troppo sensibile io o in fondo queste cose fanno effetto anche a voi?

 

DEAD BOYS – Sonic reducer  (1977)
Il sistema migliore per far squillare il cellulare (naturalmente per una chiamata a base di rogne assortite e menate varie) quando si è in giro in macchina, almeno per quanto riguarda il sottoscritto e la sua personale esperienza, è il seguente: mettere sull’autoradio il cd di un disco della madonna. Mi spiego meglio: la scena è quella di un pomeriggio in orario fra le 17.30 e le 19, per cui già verso la fine di una normale giornata lavorativa (per quanto normali possano essere le mie giornate, col lavoro da delirio che faccio…), si sta andando a vedere un mestiere a casa di un privato, oppure in qualche rivendita di materiali o ferramenta a prendere ciò che occorre per il giorno dopo. Solitamente il telefono tace da un po’ e uno si dice “dai che forse per oggi è andata” e mette su un cd tipo “Zen arcade” degli Hüsker Dü, oppure “IV” dei Led Zeppelin, oppure ancora “Young, loud and snotty” dei Dead Boys, “London calling” dei Clash, “Master of puppets” dei Metallica, insomma ci siamo capiti. Puntualmente, dopo nemmeno un minuto del primo pezzo arriva il maledetto trillo del telefonino e tutto ciò che ne consegue. E capita regolarmente quando inserisco nel lettore un discone, se sto ascoltando dischi discreti ma non al livello dei succitati, come ad esempio, che so, “Batch” dei Big Drill Car o “The day the country died” dei Subhumans o “Immortal force” dei Mutilator, il telefono non squilla e il disco può suonare in tutta la sua interezza. E parlo, tristemente, per esperienze personali ripetute più e più volte in situazioni tipo quella appena descritta o comunque riconducibili ad essa. E’ come una unwritten law, dal titolo del pezzo dei Deep Purple dell’ottimo album “The house of blue light”, disco che se osassi ascoltare in macchina mi rimedierebbe al volo una bella telefonata zeppa di casini! ;-)

 

The QUEERS – I was a teenage bonehead (1992)
Nel mio caso se sostituite ‘bone’ con ‘dick’ calzerebbe a pennello. Ripensando a quegli anni mi rendo conto di essere stato spesso, troppo spesso, una discreta testa di cazzo, e scusate il francesismo. Mia mamma stessa mi ricorda che dagli undici ai sedici/diciassette anni ero spesso insopportabile. Certo, a quell’età è normalissimo che ci siano quei frequenti scollegamenti di cervello tipici dell’adolescenza, però in quegli anni ho fatto delle cose e assunto degli atteggiamenti che, ripensandoci ora a freddo, non posso che definire brutalmente come “comportamenti da testa di cazzo”. E non scendo nei particolari che me ne vergogno. Certo, a quell’età si è iperattivi (‘Hyperactive child’, gran pezzo dei Dead Kennedys, fra l’altro) già per natura e questo porta ogni tanto a fare delle emerite stronzate, che sia per curiosità, per noia o per convinzione, poco cambia. Non dico di essere stato un “Problem child” (come il pezzo degli Ac/Dc o quello che porta lo stesso titolo degli Hanoi Rocks), ma di sicuro ho dato sfogo a qualche lato negativo della mia persona di cui non vado certo orgoglioso. Ma io voglio ricordare la parte più positiva di quegli anni, specie quelli del periodo delle medie, quando raramente capitava di passare un pomeriggio interamente in casa (se non qualcuno domenicale ad ascoltare la radio con Tutto il calcio minuto per minuto), c’era voglia di scoprire il mondo, fosse anche solo la nostra piccola porzione di mondo, il nostro paese in cima al Lago di Como. Proprio la sera di un paio di giorni fa ero in giro per Colico verso le ventidue e mi rendevo conto che su ogni angolo di questo paese, su ogni stradina, su ogni particolare che vedevo avrei una storia da raccontare, solo che sono storie di trenta, massimo vent’anni fa, quando vivevo veramente il mio paese ventiquattro ore al giorno. Dal centro alle frazioni, dai boschi su monti e colline circostanti (ricordo epiche spedizioni ottobrine a castagne) alle spiagge e scogliere delle rive lacustri, da paludi e fiume a torrenti e prati nascosti, dalle centinaia di stradine secondarie ai mille anfratti che si celano alla vista in mezzo alle vecchie case del centro. E andare nelle gallerie in costruzione dell’attuale superstrada, quella che collega Colico a Lecco (e che venne inaugurata nel maggio del 1987), a riproporre in salsa paesana le scene nella metropolitana newyorkese del cult-movie (cult per noi ragazzini delle medie) di fine anni settanta “I guerrieri della notte”. Film da cui avevo imparato a memoria la battuta di Swan (il capo dei Warriors interpretato da Michael Beck) nei riguardi di Mercy (la ragazza della gang degli Orphans, intepretata da Deborah Van Valkenburg, che si unisce ai guerrieri): “Perchè non ti leghi un materasso sul culo? Così quando vuoi sei sempre pronta all’uso…”, frase che un paio di volte avevo rivolto ad altrettante ragazzine della mia scuola ricevendone in cambio una volta un’espressione inorridita e un’altra volta un ceffone. No, Colico non era Coney Island, decisamente…

 

ROLLING STONES – Harlem shuffle  (1986)
Una sera del gennaio 2013 verso le dieci sono a letto in stato comatoso, dovuto alla solita giornata infame, e sto distrattamente guardando quel canale che passa solo ed unicamente videoclips vintage 24 ore su 24. Un video mi fa drizzare le antenne ed è quello di questo pezzo degli Stones, la canzone con cui, nella primavera dell’86, li conobbi veramente ed iniziai ad apprezzarli per quello che meritano. In effetti prima di allora il nome Rolling Stones non mi era certo ignoto, ma lo associavo a quegli adesivi con la lingua che troneggiavano sui paraurti delle varie alfette e auto tamarre in genere e a quelle magliette griffate con la medesima linguaccia che vedevo addosso ad un discreto numero di teste di cazzo della zona. In più piacevano a mia mamma, per cui li bollavo come una band di vecchi fautrice di musica per vecchi (mia mamma all’epoca aveva 40 anni, la stessa età che ho io mentre scrivo ora…). Ma arrivò un giorno, sarà stato l’aprile dell’86 (esattamente ventisette anni fa…sticazzi!), in cui le cose cambiarono per sempre. All’epoca il pomeriggio al rientro da scuola era fisso l’appuntamento con Deejay Television su Italia1, lo guardavamo tutti, discotecari e pop-fans, amanti del cantautorato e metallari, rockers e duraniane: qualcosa di interessante saltava sempre fuori, che fosse un video del Boss o uno degli Irons o anche uno dei Survivor, almeno un clip per me, imberbe pseudo-metal/rocker, c’era quasi ogni giorno. Quel pomeriggio primaverile Linus o forse Gerry Scotti (ebbene sì) annunciò il nuovo video dei Rolling Stones e io storsi il naso al pensiero di quanto scritto più sopra. Partì il clip, inizialmente un cartone animato con dei gatti che sbavano dietro una negrona in abiti succinti e poi ecco gli Stones in carne ed ossa in un’esibizione pseudo-live in un club da gangsters, con la suddetta negrona che nel frattempo si è trasformata in una donna reale che danza sulla musica della band e i gatti del cartone che fanno capolino qua e là. E però, penso io, ‘sto Mick Jagger è un bel personaggio, in giacca e pantaloni entrambi lilla e con le sue movenze e le sue tipiche espressioni facciali: grosso figo, non come quegli altri, i Beatles, che nei video facevano sempre delle odiose facce da pirla (soprattutto Paul McCartney). E figa anche la nera, un tipo di donna che a me non piace e non piaceva nemmeno allora, però questa non è mica male e Mick ci si struscia per tutto il video (Jagger, da buon fan del blues del sud degli States, pare abbia sempre avuto una passione per le donne di colore!). E anche quelli della band, fighissimo il batterista (Charlie Watts) che sembra abbia settant’anni (ne aveva quarantacinque) e suona scazzatissimo, e poi quel chitarrista col cappello da gangster e la sigaretta all’angolo delle labbra (Keith Richards ovviamente). L’altro chitarrista (Ron Wood) ha l’aria simpatica, mentre il bassista (Bill Wyman) non viene quasi mai inquadrato. E alla fine il micetto più piccolo e sfigato si accaparra i favori della negrona, nel frattempo ritornata cartone animato, con Keith Richards che guarda la scena e sorride con la sigaretta fra i denti. Io ero a bocca aperta: cazzo, ma che gruppo sono questi Rolling Stones?! Volevo subito rivederlo e risentirlo ‘sto pezzo (che fra l’altro è una cover di un brano del 1963 di tali Bob & Earl, un duo di neri del sud degli Stati Uniti, appunto), ma all’epoca non c’era Youtube e dovetti quindi sperare che alla radio (nazionale o locale, chi si ricorda di Radio Onda Nord che trasmetteva dall’Alto Lario?) prima o poi lo passassero e quando finalmente qualcuno lo fece lo registrai prontamente su cassetta (ai tempi avevo uno spettacolare -per l’epoca e per me, intendo- radiolone con doppia piastra, ottimo per copiare cassette e per registrare dalla radio) e lo ascoltai decine e decine di volte, seguendo nel frattempo le varie trasmissioni musicali televisive (Superclassifica Show, Discoring, ecc.) per rivedere il video. Negli anni avrei pian piano conosciuto tutta la produzione del gruppo, pian piano nel senso che ogni tanto trovavo un disco e lo registravo (la mia Stones-mania vera e propria rimase limitata a quel pezzo e un po’ al primissimo disco loro di cui recuperai la registrazione su nastro sempre in quel 1986, lo spettacolare “Love you live”, disco doppio dal vivo del ’77) e va detto che, accanto a qualche album discutibile, hanno dei dischi e dei pezzi per cui la parola capolavoro è ancora poco. E mi rivedo tredicenne davanti alla tele a guardare con gli occhi spalancati e la bocca aperta quel gruppo di rockers fra i quaranta e i cinquanta che mi stavano insegnando cosa fosse realmente il rock’n’roll, altro che gli alfettoni col loro adesivo e gli imbecilli con la linguaccia sulla t-shirt!

 

QUEEN – Jealousy  (1978)
Spesso parlando con amici o amiche viene fuori l’argomento della gelosia in una relazione. Premetto che nel momento in cui scrivo sono single e quindi libero da vincoli di un’ipotetica relazione del momento che potrebbe influenzare i miei pensieri a riguardo. Questo detto, e chi è stata con me può confermarlo, non sono mai stato un tipo geloso, anzi. Ad esempio ho sempre aborrito pratiche inquisitorie (che ho scoperto con orrore essere molto frequenti) tipo il controllo del telefono o dell’e-mail della compagna o pressanti interrogatori su impegni e frequentazioni della stessa o peggio ancora controlli con presenza fisica sul posto. Tutte cose, per dirla alla Paolo Villaggio, da carrettiere siciliano del seicento, di origine araba ed allevato in un collegio di Enna da monaci sardi. Questo perché ritengo che se si sta assieme si ha stretto un patto di un certo tipo, se non lo si vuole rispettare perché mettersi l’uno con l’altra? E oltretutto so benissimo che se una vuole (e anche se uno vuole, ovvio) tradire lo fa comunque. E la fase dei controlli ecc. è tutto tempo che uno/a può occupare in maniera migliore e proficua senza rodersi il fegato. Almeno io la vedo così, poi magari mi son preso a mia insaputa delle corna da alce, ma almeno non mi sono rovinato la salute, fisica e mentale ;-). Ho sempre pensato che in una relazione non si debba nascondere nulla l’uno/a all’altra/o, dato che tutta la faccenda deve basarsi sulla fiducia reciproca, se no tanto vale. Se per stare con una devo ricorrere a mille sotterfugi, ma chi me lo fa fare? Che poi magari mi diverto di più e in modo più vario, e senza prendere in giro nessuna, anche se non ho sempre (motivo che sta alla base di mille relazioni) una ragazza a portata di mano? E poi se stiamo assieme non è che debba significare esserlo ventiquattr’ore su ventiquattro, tutto il tempo l’uno/a per l’altra/o, che alla fine diventa come ascoltare sempre e solo lo stesso gruppo, anche se è una band enorme alla fine stufa. Gli spazi ci devono essere per me e ci devono essere per lei, ci mancherebbe altro, se ad esempio uno dei due ha un hobby da single è sacrosanto che se lo tenga anche da ammorosato/a. E non è che poi bisogna seguire l’altro/a in questi hobbies, se non interessano meglio coltivarsi i propri di hobbies e di spazi, no? Sono i miei due cent come si dice, la situazione per me ideale, poi già quando ci si è dentro tra variabili e casini vari le cose cambiano e lo so già da me, senza che me lo diciate voi, grazie ;-). Certo, ci vorrebbe sempre buona volontà da entrambe le parti, ma a volte non basta nemmeno quella, tanto noi persone siamo strane ed imprevedibili. C’è chi (maschio) dirà che a volte le donne ti tirano fuori di matto (come c’è chi, donna, dice che sono gli uomini a farti uscire di testa). Sì, può capitare, ma ciò non giustifica ad esempio l’alzare le mani sulla compagna. Mai. Cosa che io non ho mai nemmeno pensato di fare, è da frustrati mezzeseghe picchiare chi è più debole e significa anche, come diceva Paul il Nero in “Fedeli alla tribù”, che lei ti ha in pugno perchè tu non sei capace di rispettarla e di conseguenza sei tu il vero debole. Non voglio fare quello che la sa lunga, eh, assolutamente no, sia chiaro, alla fine sono uno sfigo peggio di voi probabilmente, voglio solo condividere con lettori/lettrici qualche riflessione e che ognuno/a faccia sempre di testa propria. Magari però non come quel tipo di mia conoscenza che va a prostitute convinto che in questa maniera non tradisca la moglie. Ebbi un’accesa discussione parecchi anni fa con questo elemento (di cui, ovviamente, non farò il nome per correttezza), dopo una sera in cui io mi appartai con una ragazzina in quel momento non troppo in sé. Lui condannò decisamente la cosa, e ci poteva stare, ma io il giudizio morale di uno che va regolarmente a troie (al tempo su strada, poi pare si sia spostato nei locali svizzeri negli ultimi anni) non lo accettai proprio! Chiariamoci, io, se non fosse per motivi quali lo sfruttamento e la violenza che ci sono in quegli ambiti, dietro alla prostituzione probabilmente avrei dilapidato tutti i miei risparmi (e pure quelli lasciatimi da mia nonna!), ma non solo per quello, è anche perché, nel caso di quella realmente voluta dalle diciamo così operatrici, non ne trarrei la minima soddisfazione personale (il sesso si fa prima col cervello e a me uno svuotamento con una per la quale io valgo il pensionato unto e con l’alito fognoso, basta che paghiamo entrambi, non interessa proprio), è una cosa che non mi darebbe alcun gusto, come andare a trote (per favore, c’è una certa assonanza, lo so, ma ripeto per favore!) al laghetto della pesca sportiva (o come disse l’Alex una volta, direttamente al bancone del pesce dell’Iperal) in luogo di andare sul fiume o in cima al monte sul torrentello fosse anche per una trotella appena appena di misura. Comunque, tornando in argomento, io vedo le relazioni sentimentali come un rapporto paritario, una cosa fra due persone che si piacciono e si vogliono bene, senza che una delle due prevarichi sull’altra. Certo, ci sono quelli/e a cui piace comandare e quelli/e a cui piace essere comandati/e. Io ho sempre avuto un’attitudine molto “Hardcore” a riguardo: cioè nessuno/a comanda nessuna/o, stiamo facendo una cosa assieme. E non è questione di lavare i piatti una volta per uno (sempre meglio li lavi lei che li pulisce meglio, almeno di me di sicuro!), ma di non mettere i piedi in testa l’uno/a sull’altra/o. Mi han detto (sia uomini che donne) che sono troppo aperto su queste cose…mah, io pensavo di essere solo logico.

 

SUICIDAL TENDENCIES – Trip at the brain  (1988)
Uno va a letto con una ragazza il venerdì sera, poi il sabato al supermercato si ferma a chiacchierare con un’altra. La domenica quell’uno dovrebbe ripensare piacevolmente a quanto successo venerdì, rivivendo mentalmente la sintesi coi momenti salienti della serata, facendo la propria analisi tattica e tecnica, individuando gli eventuali errori ecc. No, quell’uno invece ripensa a quella ragazza incontrata al supermercato, fissa in testa come un fischer piantato in mezzo alla fronte. Perché? Lo sapessi… il cervello è strano, complicato, meccanismi che si attivano anche contro la propria volontà. Quali sono le connessioni neuronali che si avvìano in questi casi e perché lo fanno? Cosa le muove? Certo, se si potesse premere un ipotetico bottone e, taaaac (per dirla alla Pozzetto), ragazza al supermercato cancellata. Secondo pulsante, sempre ipotetico, ragazza del venerdì sera in primo piano: taaaac! Non è così, purtroppo…

 

VENOM – At war with Satan (Introduction)  (1982)
Era il pezzo, posto alla fine dell’lp “Black Metal”, che introduceva l’album seguente che sarebbe uscito un paio di anni dopo. Nel mio caso introduce un paio di argomenti che per ragioni di spazio (e di voglia, diciamolo) non ho inserito su questo numero, ma di cui scriverò sul prossimo (se mai ci sarà, ovvio, e se sì, chissà come sarà il mondo allora, visti i miei bradipici tempi d’uscita!). 1- le lettere su “HM!”, cioè un’analisi delle lettere che i metallari/e dell’epoca spedivano al loro giornale di riferimento, veri e propri affreschi di decine di giovani vite, mai banali e spesso decisamente interessanti. 2- la top 100 of my life, cioè le canzoni che hanno significato qualcosa per me (una top ten sarebbe riduttiva, quando hai passato anni e anni sempre con la musica in sottofondo, che sia mentre guidi, mentre scrivi, mentre riposi, ecc.ecc.), con ovvio relativo commento. Ci risentiamo fra qualche anno, và ;-)