L’estate, la stagione in cui le temperature sono più elevate e l’aria è più calda. Vi racconto qualcosa delle mie ultime cinque:
2008 – CALIFORNIA ÜBER ALLES
Fine giugno, nel pieno degli immancabili dieci/quindici giorni di caldo torrido che negli ultimi anni generalmente contraddistinguono questo periodo dell’anno. Sembra di essere in California, lo dico sempre nei miei chiacchiericci da bar/cantiere quando arriva questo caldo porco, forse che illudermi di essere nella terra che ha prodotto ed esportato tantissima musica (sparsa fra vari generi) al top delle mie preferenze, mi faccia sopportare meglio la calura… Da un paio di giorni sto percorrendo avanti e indietro senza sosta la tratta Colico-Verceia (una dozzina di km. circa) portando a spasso camionate di materiale terroso per un riempimento. Ovviamente sono in un bagno di sudore. L’incauta esposizione al sole a torso nudo per una decina di ore di qualche giorno prima mi ha lasciato in dote una schiena arrossata tipo aragosta (non mi capitava da più di vent’anni, capirete l’eccezionalità del caldo targato giugno ’08!) che, opportunamente “pomatata”, copro parzialmente con una canotta bluastra che mi illudo faccia molto Agnostic Front. oltre che inequivocabilmente tamarro (oddio, le due cose vanno decisamente di pari passo però, no?). Per decenza tralascio i dettagli del sudore nelle parti intime! Con la coda dell’occhio scorgo un mio cliente (che resterà anonimo) il quale, oscenamente sovrappeso e in costumone ascellare, sguazza nella piscinetta gonfiabile davanti a casa assieme alla prole: l’immagine agghiacciante mi fa pensare che forse, se fossimo davvero in California, la mia clientela non sarebbe composta da elementi come il suddetto (e schiere di personaggi simili), ma da attricette hollywoodiane o pseudo-tali che ovviamente riceverebbero nelle loro ville il sottoscritto con addosso solo qualche striscia di costume e strapperebbero uno sconticino in cambio di qualche momento intimo… Un’auto strombazza al mio indirizzo perché durante la fantasticheria di me medesimo che si fa offrire il caffè da Megan Fox in topless, devo evidentemente aver invaso parzialmente la corsia opposta col mio mezzo in perenne sovraccarico…ritorno quindi tristemente ad una realtà fatta di pensionati incapaci di parlare in italiano, di beceri milanesazzi, di personaggi ignoranti come tavole di noce o dal cervello grande come un nocciolo di pesca e di furbastri di varia specie ed estrazione nella “miglior” tradizione italica… Che poi, se fossimo davvero in California, ma dovrei proprio fare un lavoro come questo? Là dove c’è gente che campa col Punk/Hardcore/Metal?? E allora, in pieno stile Fantozzi caduto sul 102 nero delle collinari, mi metto a fantasticare su un ipotetico sottoscritto californiano: writer “illuminato” di costume e società su vari magazines per sole donne, oltre che chiaramente columnist fisso per “Maximum R’n’R” e redattore di personale fanzine hardcore/metal estremo tirata in 10.000 copie con uscita bimestrale. Batterista in gruppo glam/sleazy/rock (o in alternativa punk-hc melodico) di grido, che fa duemila persone a serata, oltre che chiaramente columnist fisso per “Decibel Magazine”, rivista di metal estremo, e redattore di personale fanzine metal/hardcore/punk tirata in 10.000 copie con uscita bimestrale. Talent-scout di attrici hardcore, sceneggiatore di films hard e curatore di sito correlato con milioni di accessi al giorno, oltre che chiaramente columnist fisso per “Maximum R’n’R” e “Decibel Magazine”, e naturalmente redattore di personale fanzine hardcore/metal tirata in 10.000 copie con uscita bimestrale. Ogni opzione prevede ovviamente villetta su colline hollywoodiane e immagini del sottoscritto in vestaglia al computer che dà gli ultimi ritocchi ad una delle sue columns sorseggiando una tazza enorme di caffè nero american-style, mentre cinque o sei starlettes zampettano mezze nude per casa e lo stereo (impianto costosissimo e ultra-moderno, of course) diffonde Rolling Stones o Motley Crue a volumi medi mentre sul pavimento è sparso un miscuglio di vinili rari e di indumenti intimi femminili… Ecco questo lo sto scrivendo mentre sono in boxer e maglietta senza maniche dei Bathory (quella col caprone, s’intende), sto scrivendo per un numero di fanzine iniziato sei anni prima (e finito cinque dopo –nota 2013), ho appena sorseggiato un caffè effettivamente nero da una tazza con l’effigie di Topolino (e non Mickey Mouse, dato che siamo tornati nella realtà tricolore), per casa è già tanto che circoli la solita sventurata come ormai da cinque anni, e lo stereo (del ’94, epico blitz serale a Lecco per l’acquisto, fra l’altro una semi-fuga durante un turno in Croce Rossa, io e il Pecchia. Doppia piastra defunta già da un po’, fortunatamente piatto e lettore resistono. Nota 2013: lo stereo è morto di recente. Fra l’altro negli stessi giorni in cui è passato a miglior vita anche Clive Burr, il batterista dei primi tre albums degli Iron Maiden: hallowed be thy name, Clive!) sta diffondendo a basso volume le note di “Just say no” degli Agent 86, formazione minore dell’hardcore statunitense di fine anni ottanta….ah, e ovviamente la mente è già proiettata alle rogne lavorative della settimana incombente (sto scrivendo di domenica). Citando per l’ennesima volta Guccini, “non è la stessa cosa!”
2009 – CELEBRATED SUMMER
12 agosto 2009, 21.30 circa. In macchina lungo una strada di montagna buia e deserta, in mezzo ad amene abetaie di ‘Fracchia contro Dracula’ memoria, a fianco la vecchia gloria delle serie minori locali Ivano a.k.a. Tazio, dietro due ragazzini peruviani di 17 e 16 anni da poco in Italia (che non parlano quasi nemmeno una parola dell’idioma peninsulare) e per questo torneo di Ferragosto subito arruolati dal connazionale Juan (che Tazio, un po’ come ai tempi del Duce quando in nazionale il friulano Colausig era diventato Colautti, in una sorta di italianizzazione, anzi dialettizzazione della squadra chiama Giuan…). Eh sì, perché l’eterogenea compagnia appena descritta è la prima di due macchine che si stanno recando in quel di Indovero…sì, non preoccupatevi, nemmeno la parte italiana della squadra sapeva dove fosse! Il sottoscritto sì, e difatti sono io che, lavorando nella zona in questione durante quel periodo, ho trovato questo torneo scalcinato pubblicizzato con un foglio A4 battuto al computer in un baretto minore dell’Alta Valsassina. Stante la mia situazione sentimentale/sociale (rotto da poco, unica amichetta – eventualmente e nemmeno sicuramente, peraltro- disponibile al mare -non con me come potete vedere-, voglia di andare da qualche parte poca e comunque compagni/e di viaggio papabili ancora meno…) decido che le mie ferie di quindici giorni saranno parzialmente impegnate alla sera da questo torneo di calcetto che, se anche come poi in effetti succederà verremo sbattuti fuori al primo turno (e succederà per una maledetta differenza reti), garantisce ben quattro partite nel girone e quindi ben quattro sere impegnate. Il resto dei giorni lo sfangherò fra giri in montagna (a conti fatti, uno!), pomeriggi al lago (a conti fatti, parecchi), pomeriggi e serate in studio a coordinare alcuni ospiti per il disco dei Gradinata, mattinate a leggere libri e ascoltare musica, serate in pizzeria con amici e nottate a “ride through mansions of glory in suicide machines” come direbbe il Boss, o meglio “a zonzo come uno stronzo” come invece direbbe Giorgio Bracardi. La prima partita è terminata con un epico 4-4 contro una squadra del lecchese piuttosto forte e con nostro pareggio all’ultimo minuto, quindi stasera contro quella che dovrebbe essere il materasso del girone dobbiamo vincere! Per cui quando mancano dieci minuti a Indovero zittisco Tazio, accendo l’autoradio, inserisco un cd e in un’atroce poltiglia di italiano, pseudo-spagnolo e dialetto veneto dico ai due del sedile posteriore di ascoltare bene. “We shall go on to the end. We shall fight in France. We shall fight on the seas and oceans. We shall fight with brave confidence and great strenght in the air. We shall defend our island whatever the cost may be.< We shall fight on the beaches. We shall fight on the landing grounds. We shall fight in the fields and in the streets. We shall fight in the hills. We shall never surrender!!!” declama Winston Churchill e poi parte “Aces high”, Iron Maiden al loro meglio, anno di grazia 1985 dal vivo alla Long Beach Arena, il disco è chiaramente il mitologico “Live after death” con quell’inizio da pelle d’oca! E mentre Bruce Dickinson è impegnato nello strepitoso ritornello “live to fly, fly to live, aces hiiiiiigh”, io mi soffermo a pensare che nella settimana pre-ferragosto, a quasi 37 anni, sono in viaggio verso un posto montano sperduto per giocare un torneo di basso livello, con due minorenni sudamericani e un quarantenne colichese che calcisticamente ha vissuto tempi migliori, che sto cercando di caricare a mille con la musica degli Iron Maiden… (per la cronaca vinceremo poi 4-1, col sottoscritto che entra nel secondo tempo e segna su punizione il gol del 3-1…). La situazione è altamente e terribilmente surreale! E la tragedia è che durante l’operazione penso anche che forse potevo portare e mettere su, in onore dei due stranieri, “Demon tales” dei death-metallers loro connazionali Mortem o, perché no?, “Peruvian vacation” degli hardcorers inglesi The Stupids… E’ in situazioni come questa, quando la mia mente indugia in simili inutili ed insulsi ragionamenti, che penso mi sia saltata qualche connessione neuronale. Please kill me.
2010 – WHEN 20 SUMMERS PASS
E’ il 2010 e in effetti sono passate proprio venti estati da quella del 1990 quando per la prima volta misi piede sul suolo d’Irlanda. La prima e l’ultima, fino ad oggi, agosto 2010! Sì, perché ho deciso di tornarci e l’idea di farlo esattamente vent’anni dopo ha un certo fascino.
Luglio 1990: stazione ferroviaria di Colico, io, Mauro (l’ideatore di questa ‘zine), Cesare, suo fratello Dario e Simone. E’ un mercoledì, siamo pronti a salire sul treno delle 15 per Milano, a cambiare poi con quello per Parigi, ad arrivare nella capitale francese la mattina successiva, a farci un giro in attesa del treno per Le Havre del primo pomeriggio, a salire su un traghetto strapieno di gente, senza cabina e dormendo nei corridoi (anzi vomitando per quasi tutto il tempo, specie io che feci l’intera traversata di ventisei ore in una situazione ben descritta dai Toy Dolls nel pezzo ‘You won’t be merry on a north sea ferry’. C’è una foto del sottoscritto sdraiato nei corridoi della nave con indosso una maglietta dei Clash e in mano un sacchetto per il vomito pieno a metà…) e ad arrivare a Cork sulla verde isola nel tardo pomeriggio di venerdì, più di due giorni dopo, in una giornata piovigginosa come vuole la tradizione (“è in un giorno di pioggia che ti ho conosciuta” come cantavano i Modena City Ramblers nel pezzo dedicato all’Irlanda. Band che poi prese una deriva troppo italica e a me poco gradita, ma che con quel primo disco realizzò davvero un’opera mica male che ascolto spesso ancora oggi). Per noi è come andare in Australia (e visto il tipo di viaggio scelto quasi quasi!), sono anni in cui le distanze sono realmente tali, non come oggi in cui il mondo sembra racchiuso in un fazzoletto.
Agosto 2010: casa mia, le 3 del mattino, ho provato coi Gradinata la sera prima e ho dormito circa quattro ore, ma sono vestito e con il borsone ai miei piedi in attesa della chiamata dei miei due compagni di viaggio, Cotta e Silvio (i quattro del ’90 sono alle prese con fidanzate, mogli, famiglie e figli, io no e nemmeno i miei soci 2010, due che comunque conosco da venticinque anni ormai). Chiamata che arriva puntuale e scendo in strada. Abbiamo l’aereo alla Malpensa alle 6 in punto, fosse per me si poteva anche partire un po’ più tardi, ma i miei compari temono l’ondata di vacanzieri al check-in e in effetti non sbagliano. Coda paurosa e tempo solo per un veloce caffè+brioche prima di salire a bordo. Cambio aereo ad Amsterdam in tutta tranquillità ed atterraggio a Cork attorno alle 11 di quella stessa mattina, una mattinata soleggiata e con solo qualche nuvola.
Che bella settimana è stata questa dell’agosto 2010: due amici con cui è un piacere andare in giro (in pratica ho iniziato a ridere salito in macchina e ho smesso quando ho riaperto la porta di casa otto giorni dopo), un paesaggio stupendo, la gente locale simpatica e alla mano, le sensazioni di vent’anni prima che ogni tanto riaffioravano…tutto davvero impagabile! Primi tre giorni a Cork, dove avevo preteso io di atterrare e di soggiornare per qualche giorno, proprio per tornare negli stessi posti di due decenni prima.
Luglio 1990: in piedi in un parcheggio aspettiamo che le famiglie a cui siamo stati assegnati vengano a prelevarci. Un lungagnone biondastro scende da una 127 verde pisello e chiama il mio nome. Salgo con lui, si chiama Ken, fa il ricercatore alla locale università, per me è la prima volta che converso in inglese con qualcuno, ma riesco a farmi capire decentemente (le varie lettere scritte in giro per il mondo a bands, tape-traders e distribuzioni mi aiutano a trovare le parole). Lui ha venticinque anni, solitamente le famiglie ospitanti sono molto più su di età (sarà così per tutti gli altri italiani in loco, oltre a noi cinque ce ne sono altri delle nostre zone, arrivati però con viaggi aerei organizzati, al nostro contrario! Proprio qui conoscerò lo Zonca e MicroRoby, coi quali suonerò qualche anno dopo nei Pubertas, ad esempio), ma per lui e la moglie Katy (una bella ragazza di ventiquattro anni che fa la maestra d’asilo) è l’occasione per qualche soldo-extra. Due persone davvero brave e simpatiche, al contrario di certe famiglie di cui mi diranno altri conterranei, passerò ore a chiacchierare con loro, soprattutto con lei, dato che essendo estate l’asilo è chiuso.
Agosto 2010: prendiamo possesso della camera d’albergo, poi usciamo a fare un giretto. Silvio e Cotta mi incitano a ricordare qualcosa della Cork del ‘90, se quello che vedo mi suona familiare, ma io rispondo (apposta, ma neanche tanto) con sguardo assente come Pozzetto nell’episodio di ‘Testa o croce’ “…il tavoliere delle Puglie”. In effetti, sarà che in questa zona della città (città non enorme, ma estesa e che fa comunque quasi centoventimila abitanti) dove si trova l’albergo non c’ero mai stato, sarà che quando ci appropinquiamo al centro molte cose sono cambiate da allora (globalizzazione la parola chiave: gli stessi negozi che trovi a Milano, a Vienna, a Bruxelles, ad Oslo…), in effetti non riesco a raccapezzarmici molto. Finalmente trovo un vecchio cinema sovrastato da un enorme orologio, sotto il quale arrivava il bus che mi portava in centro due decenni prima. Ora il cinema è chiuso e l’orologio pende malmesso e fermo, segnando le ore di anni e anni prima.
La prima sera usciamo a visitare qualche pub/locale, ma i miei due soci sono stanchi per la giornata iniziata prestissimo e alle undici rientrano in albergo. Io no, sono in vacanza, ho momentaneamente accantonato tutte le rogne che ho in ballo, è venerdì sera, nei locali si fa festa (il popolo irlandese è un popolo festaiolo, un po’ come qui da noi i valsassinesi, per intenderci!) e dopo vent’anni the boy (insomma, mica più tanto boy) is back in town! Mi giro un paio di posti, in uno c’è una cover band di classici del rock che quando attacca proprio “The boys are back in town” degli eroi nazionali Thin Lizzy fa venir giù il locale con gente che balla sui tavoli e ovunque sia possibile. Anche nelle due sere a venire l’ultimo a tornare sarà sempre il sottoscritto, anche quando i miei compagni di viaggio tirano le due. Al sabato o meglio alla domenica mattina alle quattro vengo coinvolto da alcuni ragazzi sui vent’anni in un ballo stradale sulle note di un reel irlandese suonato da una banda di strada. Danzo come un cretino, tanto chi mi conosce qui? Mi sto divertendo a testa sgombra, l’Italia e tutte le sue menate sono lontane anni luce, non solo duemila chilometri, una ragazzina carinissima sui diciotto mi dà un bacio su una guancia, non tento nemmeno di baciarla a mia volta, le sorrido soltanto. La domenica sera io e Silvio finiamo nella festa della locale squadra di hurling (un terrificante sport, esclusivamente irlandese, che è un misto fra hockey, calcio e rugby!) in un posto strapieno simile al vecchio Prego di Milano e con un’unica uscita di sicurezza! Un girone dantesco di gente ubriachissima, ma mai molesta, anzi, il clima è quello di una vera festa in cui tutti si divertono, compresi me e il mio socio che balliamo come idioti sulle note di classici (suppongo) del folk locale, conoscendo via via ragazzi, ragazze e anche famiglie intere (tipo quella con la zia che voleva assolutamente farmi combinare con una nipote molto carina, la quale però purtroppo rifiutò la trattativa ;-)!). Durante le giornate non perdiamo un secondo, ci facciamo tutti i giri organizzati che troviamo, visitiamo qualsiasi cosa di cui leggiamo, non vogliamo buttar via nemmeno un attimo e cerchiamo di vedere tutto quello che riusciamo. Per quello alla sera i miei compari sono stremati, io invece ho dalla mia la forza data dal ritornare sulle strade dei miei diciassette anni che come per magia mi restituisce l’entusiasmo e l’energia di quel tempo. Scopro di essere abbastanza richiesto dalle teenagers per fare delle foto assieme (ma solo per quello! E fra l’altro in un paio di casi anche da dei teenagers), sospettiamo che probabilmente assomiglio a qualche celebrità idiota della tv irlandese…
Luglio 1990: ci sono dei momenti nella vita di una persona che restano impressi nella memoria per sempre, coi suoi odori e i suoi sapori. Sono quei momenti in cui per un attimo ci si sente veramente e totalmente felici e si assapora tutto quanto ci circonda al 100%. In parole povere, ci si sente completamente vivi. C’è questo momento nel tardo pomeriggio di un giorno di luglio, abbiamo giocato la prima partita di una specie di torneo scolastico internazionale, molto alla buona, di calcio a undici (noi come Italia, poi Francia, Spagna e una selezione locale extra-scuola che fa da Irlanda. Lo vinceremo noi “azzurri”). Abbiamo appena battuto gli irlandesi per 2-1, io ho segnato il gol della vittoria a un minuto dalla fine appoggiando il pallone nella porta vuota da un metro (dopo aver fatto schifo per tutta la partita, va detto), stiamo tornando alle rispettive abitazioni a piedi e ci fermiamo in un emporio a prendere qualcosa da bere. Facciamo girare qualche bottiglia di aranciata, limonata, coca-cola, io prendo un sorso di limonata ed è questo l’attimo in cui mi sento davvero vivo e felice. ‘I can recall the warm youth of a summer day, the sweetest lemonade…” (Bad Religion). Ricordo l’odore del sudore di questo gruppetto di ragazzini, il sapore della limonata, risento i cori da stadio che qualcuno di noi sta cantando e il Mauro che sta prendendo ferocemente in giro il Cesare che risponde per le rime. E il sapere che davanti si hanno ancora più di due settimane di vacanza in questo paese fino a pochi giorni prima straniero, ma che adesso iniziamo a sentire anche un po’ nostro, che ci saranno ancora mille battute per cui ridere e tante ragazzine da mezza Europa a cui speri di strappare un bacetto. E ancora il cielo d’Irlanda con le sue nuvolette e di quel blu così intenso, e il verde dei prati dietro l’emporio, e i colori vivaci delle insegne dei negozi.
Agosto 2010: albergo a Dublino. Ci danno una stanza con un letto singolo (che mi accaparro io dato che è vicino alla toilette ed è risaputo che di notte mi alzo varie volte per andare in bagno) e uno matrimoniale di dimensioni ridotte, ma composto da due parti separate che ci adoperiamo quindi per dividere ed evitare quindi involontari abbracci notturni fra i miei due soci. Le operazioni di carpenteria/arredamento che seguono, eseguite con attrezzi di fortuna come posate adattate alla bisogna, sono un momento di ilarità scomposta che dura almeno dieci minuti con nessuno di noi tre che riesce a smettere di ridere come un idiota. Ci penso per qualche secondo, mentre ho le lacrime agli occhi per via di tutte quelle battute una dietro l’altra. E’ nuovamente uno di quegli attimi in cui sì è completamente felici e ci si sente vivi al 100%. Una cosa fugace, derivata da un’altra decisamente stupida, eppure è un momento che ricorderò per sempre, ancora una volta.
Il lunedì partiamo per Dublino, a me l’idea della capitale non entusiasma molto, preferirei vedere altre città più di provincia, ma i miei soci non ci sono mai stati (io ci andai per poche ore nel ’90) e a malincuore accetto due giorni nella città del compianto Phil Lynott. Da Cork partiamo in autobus, quattro ore di strada per dieci euro e la possibilità di vedere l’Irlanda interna e le sue brughiere. La sosta da un benzinaio con annesso emporio mi catapulta indietro di vent’anni, qui vedo ancora quelle marche tipicamente irish/britanniche che non vedevo da allora, come le macchine per il caffè Fracino! Dublino è bella, lo ammetto, però ci sono troppi italiani in giro (in un negozio di souvenirs, dove entro a prendere un regalo per il mio socio Mauro -nella fattispecie le mutande del leprecauno…-, sembra di essere a Roma. Qui quasi quasi mi compro un costume da vescovo a soli quindici euro, poi rientro in me) e il senso di globalizzazione è opprimente. Della due giorni dublinese salvo solo la gita costiera con la visione di alcune foche mostruose (credo fossero leoni marini), la visita agli stabilimenti Guinness che mi ha interessato dal punto di vista tecnico (macchinari, fabbriche stesse, ecc.) e i venti minuti in un pub tipicamente d’oltremanica con segatura per il vomito pronta all’uso, due avventori in stato di dormiveglia alcoolico al bancone e la tv sintonizzata sul monday night della Championship (la serie B inglese). Mercoledì mattina partiamo per Galway, la tappa che più mi interessava perché nel ’90 dovevamo andarci, ma all’ultimo la gita era saltata. E poi “…and the boys from the NYPD Choir were singing ‘Galway Bay’…” come cantavano i Pogues e io ‘sta baia di Galway volevo vederla almeno una volta nella vita, e che cazzo! I Pogues, che grande band! Li scoprii proprio qui in Irlanda nel 1990, il mio compagno di classe Luca mi aveva incaricato di comprargli un paio di cassette di questo gruppo di cui aveva letto su ‘Rockerilla’ e di cui aveva sentito un pezzo alla radio. Io a metà vacanza scovai due nastri, uno del primo album “Red roses for me” e uno del terzo “If I should fall from grace with God”. Una sera nella camera che mi ospitava (e che da un paio di giorni condividevo con un francese quattordicenne) misi sul walkman ‘Red roses’ e ne fui fulminato! Da allora uno dei miei gruppi preferiti! (e no, non sono irlandesi, nonostante si rifacciano all’irish-folk, la band è inglese e solo per metà composta da inglesi di origine irlandese).
Luglio 1990: la vita notturna per noi ragazzini in vacanza di “studio” finisce presto, c’è una sorta di coprifuoco per cui bisogna essere di ritorno col bus delle undici, poco male perché se tutti vanno a casa a quell’ora in giro non rimane più nessuno di noi giovincelli. Niente compagni con cui fare casino. E niente ragazzine francesi o spagnole da importunare. Quelle locali della nostra età rientrano presto pure loro (e non dimentichiamoci che l’Irlanda è un paese cattolicissimo, qualcosa conta anche questo…), per cui tutti a casa senza rimpianti, solo che io non ho sonno a quell’ora…e allora accendo il walkman, mi sono portato parecchie cassette da casa, tanto Punk britannico per ovvi motivi (Clash. Sex Pistols, Buzzcocks, Sham69, Exploited, G.B.H., ecc.ecc.) e un bel po’ di Hardcore italiano per lenire la saudade (Negazione, Indigesti, Crash Box, Fall Out, Kina, ecc.ecc.) e spesso mi addormento così, o con Zazzo che mi urla nelle orecchie “acqua, sangue, freddo e asfalto, un altro film nella mia mente” o, più spesso, con Joe Strummer che mi dà la buonanotte cantando “I’m the white man in the Palais, just lookin’ for fun” o con Wattie che mi ricorda che un giorno Maggie (Thatcher) disse di fare una guerra.
Agosto 2010: la sera, quando rientriamo distrutti dai nostri giri turistici, prima di uscire a cena ci svacchiamo sui letti a guardare la tele (specie un canale in gaelico, quindi con le traduzioni in inglese in sovraimpressione che ce lo rendono più comprensibile dell’inglese solo udito) oppure, nel mio caso, ad ascoltare musica con un lettore cd (comprato da dei cinesi qualche giorno prima di partire). Mi sono portato gli stessi dischi di allora, ho solo escluso la parte Hardcore italiana (non ho nostalgia di questo paese stavolta). E ascoltare ancora il primo album dei Clash nella stessa città vent’anni dopo (a Cork) non ha davvero prezzo. Come cantava Balestrino coi Klasse Kriminale “spero mi capirete…so che non lo farete” ;-)
Solito bus, stavolta da Dublino a Galway, ancora circa quattro ore di viaggio, ancora una decina di euro il costo del biglietto, ancora l’Irlanda più rurale da gustare dai finestrini. Qui non abbiamo prenotato, per cui dobbiamo girare un po’ finchè non troviamo un bed&breakfast gestito da una signora sui sessanta ultra-cattolica (per non dire ultras! In casa c’erano santini, cristi e madonne ovunque, compresa un immagine di Padre Pio, bottigliette d’acqua santa e foto della donna col marito in giro per missioni nel terzo mondo, battesimi in Africa Nera e comunioni in Mato Grosso, e la presenza di varie copie del terrificante settimanale “Irish Catholic”, al cui confronto “L’ Osservatore Romano” sembra “Le Ore”!). Gli altri ospiti sono delle anziane signore in soggiorno marino e in un primo momento il nostro colorito ed eterogeneo trio (il Silvio sembra un pittore bohémien dell’ottocento, il Cotta un componente di una squadra di bocce con tanto di cappello da vecchio bettolaro e il sottoscritto un casual-hooligan di quelli molto sfigati…), oltre ad essere decisamente fuori posto, suscita qualche preoccupazione nella titolare, poi però, a camere assegnate, io scendo a fare quattro parole che hanno l’effetto di tranquillizzare la signora. Usciamo a fare un giro esplorativo nel pomeriggio di quel mercoledì: Galway è una specie di Rimini irlandese o per meglio dire la Blackpool dell’Eire. Sul lungomare mi sembra davvero di essere finito in un libro di John King, con le sale da bingo, le sale giochi, i pubs e i fish&chips, tutti in fila davanti ad un mare grigio e tempestoso (ed inquinato. E in cui alcuni pazzi fanno pure il bagno!), sotto un cielo altrettanto plumbeo e una pioggerellina che si alterna a pallide occhiate di sole. Mentalmente canticchio “Worse things happen at sea” dei Toy Dolls mentre alzo il bavero dell’harrington. In giro un bel po’ di gente, turisti di tutte le età. E’ un bel posto, sono contento di esserci finalmente venuto. Torniamo al b&b, le camere sono ricavate dalle vecchie stanze dei sei figli (eh beh, è il cattolicesimo romano, come ben ci hanno spiegato i Monty Python!) della coppia, quella doppia in cui stiamo io e il Silvio (al Cotta è toccata la singola dopo sorteggione) doveva essere appartenuta a due ragazzine molto minute, viste le dimensioni minuscole del bagnetto in cui il mio compagno di stanza si muove a fatica sparando bestemmie da competizione fortunatamente non comprensibili dalla padrona di casa! Bagnetto in cui io ri-ammiro dopo vent’anni i cessi di marca Armitage Shanks (che nel frattempo hanno anche dato il nome ad una punk-band inglese dei primi anni novanta). Si dice che in Irlanda (e in Gran Bretagna) si mangi da far schifo, per certi versi è anche vero, ma per una settimana è una “dieta” che si può tranquillamente seguire: i miei compari sbranano regolarmente bisteccone accompagnate da patatine e birra, io opto sempre per piattoni di formaggi e verdure miste con maionese e salse di vario genere, innaffiate da acqua quasi sempre, ahimè, naturale. La prima sera ci giriamo tutto il centro di Galway, entriamo in tutti i locali possibili (compreso uno gay stile Blue Oyster da cui scappiamo al volo), conosciamo qualcuno di striscio scambiando qualche parola (la mia calamita per pazzi e disadattati purtroppo funziona sempre alla grande e un giovane ceco occhialuto ed ubriaco vuole assolutamente sedersi a chiacchierare con me; riesco a liberarmene solo facendo ricorso alla mia purtroppo smisurata esperienza in situazioni del genere), poi i miei due soci se ne vanno a dormire e io come al solito rimango in giro da solo. C’è un giro mica male di quelle ragazze tipicamente d’oltremanica: trucco da battone del Sunset Strip, top macchiati da coca-rum e cider, gonne aderenti che fasciano culetto e gambe e che obbligano le fanciulle a camminare in bilico su dei tacchi troppo alti col perenne rischio che si distruggano qualche caviglia. Alla fine ne conosco una, due, tre, quattro, ma senza però combinare alcunché, imputando il tutto alla mentalità cattolica imperante, tant’è che la mattina dopo, appena prima di colazione, mi lancio in una violentissima tirata anti-religiosa (in relazione alle tematiche del sesso occasionale) nella sala del thè (zeppa di immagini e statuette sacre), che anche i Crass si sarebbero fatti il segno della croce (altro che ‘Reality asylum’)!
Luglio 1990: ho conosciuto una ragazzina di quindici anni che abita quattro case dopo quella dove sto io, la incontro per caso una sera mentre mi sto recando a prendere il bus per andare in centro, è seduta su un muretto assieme ad un’amica (loro la sera non lasciano mai quel quartiere quasi fuori città). La sera dopo usciamo assieme e ci baciamo dopo duecento metri di strada. Lei si chiama Mary, sua madre è danese e i suoi gruppi preferiti sono i Guns’n’Roses e i Sex Pistols e anche i Four Of Us (una pop-band nordirlandese), ma solo perché han fatto un singolo chiamato appunto “Mary”. Per qualche sera andiamo in fondo ad un prato sterminato che si apre dietro il quartiere e ce ne stiamo lì per un paio d’ore sull’erba ascoltando ‘Flogging a dead horse’ dei Pistols o ‘Appetite for destruction’ con una sua radio portatile; un erba di un verde smeraldo, il cielo della sera e i suoi colori, una sera addirittura l’arcobaleno, mancavano solo la pentola d’oro e gli gnomi, ma chi mi dice che non c’erano davvero, là alla fine? ;-) Poi un giorno lei mi scarica di punto in bianco…“non ti preoccupare, capita ogni tanto” avrebbero cantato (su altri argomenti comunque) qualche anno dopo i piacentini Billy Boy e La Sua Banda.
Agosto 2010: ho conosciuto una ragazzina di diciott’anni seduta a fumare su una panchina, chiedendole un’informazione a proposito di un locale di cui ho letto su un depliant, lei mi risponde che il posto non ne vale la pena e intanto iniziamo a chiacchierare, mi dice che le fa piacere parlare con uno straniero (specie italiano) che non ci prova e io le dico che potrebbe essere mia figlia, se no quasi quasi, e la faccio sorridere. Lei mi parla di Trapattoni (attuale amatissimo c.t. della nazionale irlandese), mi chiede se lo conosco. A me?! Che vent’anni prima ero presenza fissa nella Nord di San Siro col Giuàn presenza fissa sulla panchina nerazzurra (cinque stagioni, un record per un allenatore interista…)? Ma per chi mi ha preso questa?? ;-) E chiacchieriamo un po’ di calcio, di Italia, di lavoro e scuola, le solite cose insomma, ma a me fa piacere conversare in inglese (si fa per dire, eh?) con una giovincella che fra l’altro assomiglia vagamente a Bjork. Va a finire che le dico che è meglio che la saluti, mi alzo dalla panchina dove ci siamo seduti e le passo una mano sulla testa come si farebbe a una sorellina minore o a una cuginetta e me ne vado augurandole ogni bene per il futuro. Sono un signore, un coglione o tutti e due?
Oggi è il nostro ultimo giorno intero in terra d’Irlanda e vogliamo chiudere alla grande visitando le scogliere di Moher. Lo spettacolo è impressionante: queste nere scogliere lunghe otto chilometri a picco sull’oceano Atlantico (altezza massima circa 215 metri) in un trionfo di verde (l’erba dei prati), blu (l’oceano), nero/grigio (le rocce) ed azzurro (il cielo). Resto a bocca aperta e non è facile che io mi stupisca per qualcosa. E mi stupisco anche per le inesistenti misure di sicurezza sull’orlo del baratro: una sola staccionata in legno altra un metro e qualche cartello che indica il pericolo (un terzetto di ragazzini già palesemente ubriachi a un certo punto rischia davvero di finire di sotto). Io invece me ne sto lì a guardare l’orizzonte, verso gli States, e ripenso a quegli irlandesi che a metà dell’ottocento lasciarono la propria terra natia per emigrare nel nuovo mondo (un po’ come migliaia di italiani, difatti in Irlanda dicono che l’America l’hanno fatta loro e noi), chissà come si sentiva quella gente (e gli emigranti in genere)? Thousands are sailing, ancora i Pogues. Una foto che ritrae una porzione di scogliere, mare e cielo, fra le mille scattate dai miei due soci, fa bella mostra di sé incorniciata ed ingrandita nel mio soggiorno. Rientriamo e vedo che nella saletta ci sono due anziane signore intente a sorseggiare del thè, decido di presentarmi e di sedermi con loro. Mi faccio subito amica la più giovane delle due (ottantacinquenne, e temo che abbia pure barato sull’età!), che mi introduce all’altra (credo vicina alla tripla cifra), e passo quasi mezzora conversando amabilmente con le signore, infilando ogni tanto qualche espressione Montypythoniana tipo “yes, I suppose so’ o “I’m awfully sorry but…” e sorseggiando a mia volta del thè bollente, per quello che considero l’highlight della mia irish-vacanza targata 2010! La sera ci concediamo una super-cena da signori, visto che è la nostra ultima notte irlandese, entriamo in un paio di locali, poi complici il vento atlantico e una pioggia abbastanza sostenuta, i miei soci decidono che ne hanno avuto abbastanza e mi lasciano ancora una volta da solo. Penso che è la mia ultima notte qui, l’ultima notte in cui rivivere i miei diciassette anni ormai andati per sempre e mi sento come una versione maschile e sfigata di Cenerentola (anzi, Cinderella come quella grande glam/hard rock band americana degli 80’s!): so che non dalla mezzanotte, ma dalla sera dopo, quando sarò nuovamente sul suolo patrio, tornerò alla mia realtà italica e alle mille rogne che mi devo smazzare, per cui decido che me ne starò in giro fin quando ne avrò la forza, frega niente se non dormirò nemmeno un minuto, lo farò sull’autobus per Cork (da cui abbiamo l’aereo nel pomeriggio del giorno dopo).
Luglio 1990: è tarda sera, le ventidue circa, sto baciando una ragazzina francese sotto l’insegna della Ulster Bank di Cork e mentre lei tiene gli occhi chiusi, io coi miei aperti intravedo il muro della banca alle sue spalle e penso alla parola ‘Ulster’, a quante volte ricorre nei titoli delle bands che ascolto: “Ulster boy” degli Sham69, “Alternative Ulster” degli Stiff Little Fingers, addirittura “Ulster 77” dei toscani Juggernaut (il cui lp avevo comprato solo un paio di mesi prima).
Agosto 2010: è notte fonda, le due del mattino penso, sto baciando una ragazza irlandese sotto l’insegna della Ulster Bank di Galway, lei tiene gli occhi aperti, due occhi di quell’azzurro particolare che trovi solo in Eire, io coi miei guardo dritto nei suoi, non vedo né il muro né penso alla parola ‘Ulster’, quello a cui penso sono cose che è meglio non scrivere, và. E’ comunque una sensazione straniante vedere come a volte il passato ritorni in maniere come questa…
Alla fine rientro che è ormai mattina, dormo un paio d’ore vestito e alle otto e mezza ci alziamo tutti e tre per il breakfast dato che ci tocca il discretamente lungo viaggio di ritorno. Purtroppo le mie due amiche della tea-room stanno ancora dormendo e non posso salutarle come si deve, ma ci congediamo calorosamente dalla catto-ultrà che ci dice che siamo stati degli ospiti assolutamente “lovely” (oltre che paganti senza fare storie, e questo lo aggiungo io). Pullman da Galway a Cork strapieno quasi come una corriera messicana trapiantata in terra d’Irlanda (mancavano solo i polli) e che fa mille fermate peggio di un locale della tratta ferroviaria Colico-Milano. Il torpedone ci scarica a Cork e abbiamo il tempo per un po’ di shopping prima di recarci in aereoporto. Compro un regalo per mia mamma, uno per mia cugina e spedisco due cartoline ad altrettante amiche. Decido poi di festeggiare l’avvenimento della sera precedente comprando per me una maglia stile rugby (sport che non ho mai né seguito né compreso a fondo, peraltro) a maniche lunghe e strisce bianche e verdi, elegante a suo modo anche se enorme dato che io, che non sono certo un grissino, ci ballo dentro! Primo aereo da Cork per Amsterdam dove abbiamo lo scalo. In Olanda prendiamo l’aereo per Milano al volo correndo come dei disperati lungo l’enorme aeroporto, mentre i nostri bagagli invece non ce la faranno e ci verranno recapitati a casa qualche giorno dopo… Sull’aereo per la Malpensa siamo pochissimi passeggeri (eh beh, quanti sono i coglionazzi che tornano a casa di venerdì sera??): oltre a noi infatti ci sono solo tre ragazzini milanesi e due famiglie giapponesi. C’è un clima di scazzo festoso, le hostess si fermano a scherzare con noi e ogni tanto arriva anche il pilota (‘vadi a vedere chi sta pilotando l’aereo’ dice il Silvio al Cotta, come Pippo Santonastaso a Paolo Villaggio nell’episodio di ‘Pappa e ciccia’), somigliante vagamente a Wesley Sneijder e con due occhi come se si fosse appena fumato un chilo di ganja! Arriviamo in Italia, scopriamo dell’assenza dei bagagli quando i nostri nomi vengono chiamati con un altoparlante, lasciamo i recapiti e andiamo a recuperare la macchina, ci dividiamo le ultime spese e nelle ore piccolissime di un sabato mattina (la una circa) rientro in casa mia stanco e a mio modo felice, conscio però che stavolta i miei diciassette anni se ne sono andati per sempre e non avrò più una terza possibilità…
2011 – LAZING ON A SUMMER AFTERNOON
A me piace prendere il sole. Nonostante un lavoro che in estate mi tiene spesso sotto la stecca del suddetto per gran parte della giornata, nei weekends dei mesi tardo-primaverili ed estivi mi piace starmene sdraiato su una spiaggia lacustre (quando “è California fra le Alpi”, come canta una nota rock-band morbegnese) semplicemente a sentire il calore dell’astro infuocato sulla pelle. Altro che Black Metal norvegese, freddo, ghiaccio, foreste impenetrabili ecc., Black Metal brasileiro, cazzo! La spiaggia di Ipanema, io e il prof. Wagner Antichrist a disquisire di elevati argomenti in mezzo alla classica parata di culetti al vento (sì, perché Wagner, ex Sarcofago nonché Sepultura, ora è professore universitario a Belo Horizonte, non ricordo più di cosa, economia mi pare, sicuramente non di inglese dato che ricordo una sua vecchia intervista ad Headbanger’s Ball che io al confronto parlo l’albionico idioma come un lord inglese letterato!). Cellulare spento o quantomeno in modalità silenziosa, walkman o lettore cd con cuffie nelle orecchie, il selviettone e la borsa sotto la testa per qualche ora di totale relax in splendida solitudine. Certo, a meno che non arrivi il classico rompicoglioni (anche in coppia o pure in branco) che ti conosce e viene a spezzare l’incantesimo di quel momento catartico. E allora negli anni ho smesso di andare a prendere il sole troppo vicino a casa e ho trovato una spiaggetta minore (la cui posizione non rivelerò, seguendo il diktat dei cercatori di funghi!) frequentata per la quasi totalità da nonne e nipotini (con saltuarie eccezioni di bagnanti occasionali). Quindi solitamente c’è questa scena abbastanza surreale: nonne (con qualche raro nonno, che spesso muoiono prima delle consorti o che se ancora in vita preferiscono la locale bocciofila o il circolo Acli) con panini “homemade” formato extralarge da sfamare una legione, bimbi che giocano con palloni da spiaggia, sedie di paglia e ombrelloni da circo e in mezzo il sottoscritto in ciabatte e costume da bagno, occhiali da sole stile Abaddon dei Venom, tatuaggi hardcore-metal sul tamarro andante e musica a palla nelle orecchie: generalmente, vista la situazione, beach-punk (i miei favoriti sono chiaramente i californiani Descendents, Circle Jerks e Adolescents, e sui miei proto-ipod vanno molto pure gli australiani Hard-Ons), ma a volte anche Oi! e R.a.c. specie italiano, che, visto il volume decisamente alto, mi fa sempre temere che le nonnine sentano e capiscano i testi dei vari Civico 88, Dente Di Lupo, Corona Ferrea, ecc.! Su quella spiaggia però, a dire il vero, negli anni ho ascoltato di tutto, cito in ordine sparso Litfiba, Running Wild, Francesco Guccini, Billy Boy e La Sua Banda, Warlock, De Sfroos, lo split Rebelde/Veleno Sociale (“bello il cd dei Rebelde, specie l’altro gruppo!”, Prof. Botka, estate ’01), Statuto, Enzo Jannacci, Tear Me Down, Elio e Le Storie Tese, Gamma Ray, Hanoi Rocks, la mitologica compilation “DJ Botka vs. DJ Ciotti” (un miscuglio di pezzi pop-trash e techno-hardcore-dance compilata un lato per uno io e il Professore e colonna sonora di una trasferta tedesca dell’estate 2000) e addirittura i Nerkias [ensemble ascolano di pop demenziale, di cui dall’estate ’89 ad oggi ho avuto una cassetta senza titoli accreditata a degli improbabili Nerchiaminchia ed intitolata “!”…nell’agosto del 2012, cioè pochissimo tempo fa, l’ho appunto ascoltata in spiaggia e ho deciso di fare una ricerca su internet per scoprire finalmente chi fosse questo misterioso gruppo scoprendo appunto che sono i Nerkias, ancora attivi oggidì, e che la cassetta in mio possesso si intitola “Hasta la minchia!” (in effetti il punto esclamativo c’è…) di cui adesso ho finalmente anche i titoli dei pezzi!]. Ricordo un pomeriggio agostano in cui stavo ascoltando “Cielo duro” degli Squallor (ebbene sì) in quello stato in cui gli occhi si chiudono e la mente scivola in quello stato fra il dormiveglia e la concentrazione sulla musica, quando mi rendo conto di essere attorniato da delle presenze. Apro gli occhi e vedo attorno a me facce aliene. In un primo istante mi sento come l’agente Scully di ‘X-files’ stesa sul lettino con gli alieni pronti a fare esperimenti su di lei, poi mi riprendo e metto a fuoco: oche! Grosse oche bianche con esemplari giovani al seguito. In un istante passo da ‘X-files’ a ‘I ragazzi del coro’ (film assolutamente da culto, per cui non sto a descrivere la scena delle oche: chi ha visto sa!), rabbrividisco all’idea e mi metto a sedere scacciando così i simpatici quanto inquietanti pennuti! In anni di frequentazione questa è stata comunque la situazione più movimentata, capirete perché il posto non lo rivelerei nemmeno sotto tortura! ;-)
2012 – SUMMER DYING FAST
L’estate 2012 non ha portato granchè di cui raccontarvi, se non un discreto cumulo di rogne su cui sinceramente preferisco soprassedere. Nelle mie due settimane di ferie non sono andato da nessuna parte e di quest’ultima estate (casini di cui sopra esclusi) mi resterà solo il ricordo di parecchi chilometri macinati in bici e di parecchie ore sulla solita spiaggia, tutto qua. Fra l’altro detta spiaggia ha iniziato a soffrire di intrusioni esterne quali un maledetto fricchettone molesto sulla trentina sempre in cerca di moneta (che mai ha osato avvicinarsi al sottoscritto però…buon per lui), un gruppetto di ragazzine milanesi (che stimo fra i sedici e i diciott’anni massimo) che hanno il potere di calamitare il mio sguardo sui loro giovanissimi corpicini e sulle loro grazie coperte a stento da dei micro-bikini (e la cosa non mi piace perché: a- non mi rilasso più b- trattandosi poi ovviamente di solo guardare e non toccare c- va a finire che le stesse mi prendono per un mezzo maniaco pipparolo d- e magari non si sbaglierebbero neanche di troppo!) e, solo un paio di volte fortunatamente, una famiglia di maghrebini capitanata da un padre terribilmente simile ad Adriano Pappalardo e che è solito richiamare i numerosi congiunti con voce da muezzin. Please kill me – part II.