Negli ultimi anni ho riscoperto la bicicletta. Per intenderci, niente faticacce da pazzi su per strade montane con pendenze da infarto o centinaia di chilometri sulla statale a velocità sostenuta, semplicemente qualche giro sulle piste ciclabili che sono sorte nelle mie zone suppergiù nell’ultimo decennio. Ed erano anni che non andavo veramente in bici, diciamo da quando presi la patente dell’auto; da bambino e poi da ragazzino ho girato pressoché sempre in bicicletta: per necessità fino ai quattordici anni, molto spesso dai quattordici in avanti dato che la miscela per il motorino costava! In quegli ultimi anni pre-patente, quando dovevo percorrere un tragitto medio-lungo, portavo con me un walkman a cassette e ascoltavo soprattutto Anthrax e S.O.D. perché mi davano la giusta carica per pedalare! Nel 2006 avevo comprato all’Eurospin una mountain-bike componibile (e composta dopo abbondanti cristi e madonne!) per la modica cifra di euro 49,00 e avevo cominciato blandamente a percorrere la neonata ciclabile che si diparte dalla zona nord di Colico e dirige verso la Valtellina. Le prime volte solo qualche chilometro, poi una sera d’estate ero arrivato alle porte di Morbegno (una trentina abbondante di km. fra andata e ritorno). Dopodiché per alcuni anni la bici è rimasta in garage per lo più a prendere polvere, fatte salve le volte che la usavo per andare verso destinazioni interne al paese e distanti solo poche centinaia di metri. Questo fino all’estate del 2011, quando, una domenica pomeriggio in cui non sapevo cosa fare, avevo gonfiato le gomme, dato un’oliata agli ingranaggi e inforcato la bici percorrendo un discreto pezzo della suddetta ciclabile. E lì avevo scoperto che adesso l’attività ciclistica, che qualche anno prima era stata solo un modo di tenersi in vaga forma, adesso mi rilassava, mi faceva staccare la mente per un po’ dalle rogne quotidiane. E allora ho ripreso con una certa continuità (evito soltanto i mesi freddi, cioè da novembre a marzo), esplorando via via strade diverse, altre ciclabili, facendo il giro delle frazioni del mio paese, ecc. e arrivando anche a caricare in macchina la bici per andare a percorrere ciclabili e stradine delle vallate laterali del lago. Il bello della bicicletta è che, andando questa più lentamente di un’auto, tu “ciclista” hai il tempo di osservare cose che generalmente non riesci a vedere quando sei in macchina, o puoi comunque ammirare posti, paesaggi, montagne, corsi d’acqua, ecc. da un’angolazione differente. Pedali tranquillamente e intanto guardi quella cima, quella spaccatura nelle rocce, quel pianoro, e ti scende l’occhio sul pelo dell’acqua di quel torrentello, ai suoi sassi rotondi e alle sue piccole pozze dove si nascondono le trote fario. E poi, diciamolo, io vivo in una zona che è una delle più belle del mondo a livello paesaggistico (non a caso arrivano turisti da tutto il mondo a visitarla e, piccolo vanto lacustre, è a Las Vegas che c’è l’Hotel Bellagio, dal nome ispirato al paese del centro lago, a Bellagio non c’è l’Hotel Las Vegas!), ma la vedo/vivo tutti i giorni e per me è la normalità, non ci faccio neanche più caso: I’m not a tourist…I live here, come il titolo di un 7” degli inglesi Active Minds che in copertina aveva una splendida fotografia delle scogliere delle loro parti (il North Yorkshire). Certo, a volte l’idilio delle suddette situazioni bucoliche sfuma in siparietti decisamente più ruspanti, tipo quando una mattina della scorsa estate sto pedalando di ritorno dalla baia del Laghetto di Piona (rientranza del Lago di Como che prende questo nome) e sto per incrociare un vecchietto intento alla passeggiata quotidiana proprio davanti ad un recinto dove si trovano un paio di mucche e una pecora; la pecora emette un forte belato, il vecchietto la guarda passando e apostrofa l’ovino con un sonoro “ma va a dà via ‘l cü”, continuando poi a camminare con passo malfermo… Comunque adesso siamo nel 2012 e, parafrasando una grande band locale, con la primavera “è tornata la voglia di stare su una bici”. E a proposito di bici, ne ho pure una nuova, stavolta leggermente più professionale e pagata la discreta somma di 250,00 euro. E li vale tutti, non sapevo nemmeno ci potessero essere tutti quei rapporti su una bicicletta, abituato com’ero ai due soli del mio vecchio “destriero”. Faccio qualche giretto sulle solite ciclabili, spingendomi sempre più in là come chilometri percorsi, finchè un giorno decido di tentare la Colico-Chiavenna-Colico (circa sessanta chilometri fra andata e ritorno). Un tragitto che avevo già effettuato in bicicletta nella lontanissima estate dell’87 addirittura con una Graziella (!), io e altri ragazzini (un gruppetto di sette/otto persone a comporre una variopinta carovana di biciclette improbabili) rigorosamente su strada in mezzo ad auto e camion, vista la totale assenza di piste ciclabili all’epoca. Quasi venticinque anni dopo è giunto per me il momento di rifarlo, stavolta con un mezzo decisamente più adatto (andassi ora con una Graziella penso che schiatterei d’infarto dopo neanche un chilometro!) e percorrendo, dove possibile, quelle ciclabili che cinque lustri prima non erano nemmeno un’idea. Decido per una domenica di maggio, mi sveglio alle otto, scendo in piazza a fare quattro passi e a leggere ‘Gazzetta dello Sport’ e ‘Provincia di Lecco’ mentre sorseggio un caffè e mangio una brioche. Faccio ancora due passi per sciogliere le gambe, poi rientro e mi vesto per la trasferta. Come diceva Paolo Villaggio, abbigliamento di Filini: maglia verdastra Wigan Casino – keep the faith (una volta l’avevo messa per giocare a calcetto e il commento di uno dei miei compagni, nato e cresciuto a Roma, fu ‘ma che è ‘sto Wigan Casino? me sa tanto de ‘n posto de frosci”…per la cronaca trattasi di un locale di Wigan, città inglese epicentro della scena cosiddetta northern soul degli anni settanta, genere di cui, lo ammetto, avrò ascoltato sì e no cinque canzoni in vita mia, ma mi piaceva la maglia che presi in uno scambio con Robertò), converse basse, calzettoni abbassati alla Mariolino Corso / Nicola Berti, pantaloncini da ciclista aderentissimi pietosamente coperti da bermuda al ginocchio per evitare l’effetto-trans/trav, felpa con cappuccio e zip (senza win, ha ha!), e cappellino con visiera al contrario come un componente degli Stupids nell’85! Mi do una fugace occhiata nello specchio dell’anticamera, sembro decisamente un idiota… Prendo il mio storico walkman che posseggo da più di quindici anni ormai (dato che il lettore cd quando si va in bici tende a saltare troppo; dovrei comprarmi un ipod, lo so) e lo zainetto della Kerakoll (omaggio del Bassman), ci ficco dentro un paio di bottiglie di Energade (il cugino sfigato del Gatorade), due pacchetti di crackers, una mezza tavoletta di cioccolato e qualche cassetta per la colonna sonora. Sì, gruppi che instillino energia, quindi soprattutto di marca hardcore straight edge …quelle bands che mettevano il suddetto gatorade sull’ampli in luogo della birra, avevano tatuaggi beceri, indossavano bermuda e portavano i capelli cortissimi…’azzo, i requisiti li posseggo pure io allora! Parto in tarda mattinata, c’è il sole e purtroppo c’è anche un discreto vento, ma tant’è, ormai mi sono avviato ed è una settimana che mi sto preparando psicologicamente all’itinerario, per cui piazzo “Set it off” dei Madball nel walkman ed esco dal cancello cercando di non spianarmi subito contro qualche attempata signora intenta a guardare i costosi abiti di uno dei negozi che ho sotto casa. Attraverso la piazza a ritmo blando e, giunto nella zona del parco giochi, invece di proseguire diritto per andare a prendere la ciclabile al suo inizio, giro a destra a imboccare Viale Padania (nome retaggio di un decennio di giunta leghista negli anni novanta…); questa mossa la si deve al fatto che la prima parte della ciclabile è sterrata e tortuosa, mentre la strada che ho scelto è diritta ed asfaltata (e il mio cosiddetto osso sacro ringrazia), per cui meno pedalate e tempo guadagnato. Freddy Cricien e la sua banda di tamarroni italo-ispanici newyorkesi mi danno la cadenza giusta e, dopo aver imboccato la strada che conduce al Forte di Fuentes (questo invece è un forte militare retaggio della dominazione spagnola fra milleseicento e millesettecento, da cui anche il nome Pian di Spagna che indica quella pianura che si estende fra il lago di Como, quello di Mezzola e i fiumi Mera ed Adda. Se mai un giorno mi riciclerò come guida per turisti, secondo la mia fissa che qui visto il paesaggio che abbiamo dovremmo vivere di turismo, mi ci vedo già ad indicare detta pianura come “the Spain plain” in un atroce simil-inglese a gruppi di anglosassoni o americani!), giungo al termine dell’asfalto e prendo quel pezzettino sterrato e pieno di buche dal quale mi congiungo con la ciclabile (sempre sterrata, ma almeno senza buche) che costeggia il letto del fiume Adda. Incontro qualche ciclista della domenica come me, qualche ciclista-pro o comunque che sa il fatto suo (non come me), qualche famiglia a passeggio…non troppa gente però, il vento tiene lontana la folla. E’ il momento di attraversare il fiume passando sul ponte della statale; sì, perché la ciclabile qui continua in direzione Morbegno-Sondrio, ma sparisce in direzione Chiavenna! Ricompare solo qualche chilometro dopo, per cui adesso mi tocca prendere la statale. Spengo il walkman, non sarebbe il massimo farsi centrare da qualche auto mentre si stanno ascoltando i Madball…riverso sull’asfalto mentre dalle cuffie si sentono uscire versi decisamente appropriati tipo “…because I feed off your fire day after day, it’s you who I live for until I spit on your grave”, ecco preferirei schiattare in una maniera migliore! C’è in effetti un traffico mica da ridere, tant’è che quando arrivo all’incrocio per la West Coast del Lago (parlando come mangio, la strada che porta alla sponda ovest e di conseguenza a Como) decido di svoltare e di seguire la meno trafficata strada fino al Ponte del Passo (ponte sul fiume Mera) pedalando lungo il rettilineo dove c’è la nostra Area 51 (il Tele Spazio). Allungo leggermente l’itinerario, ma preferisco così: qui però il vento mi soffia contro di traverso e un paio di volte finisco in mezzo alla strada che se in quel momento fosse arrivata una macchina ero mio malgrado sulla prima pagina de “La Provincia di Lecco” (o di Como, o di tutte e due!) la mattina dopo! Arrivato al suddetto ponte, svolto a destra e pedalo verso Nuova Olonio e da lì per Casello Sette dove finalmente inizia la ciclabile vera e propria, questa asfaltata. E’ la prima volta che percorro questo pezzo di pista (di realizzazione abbastanza recente), l’ultima volta che ero andato a Chiavenna ero partito da Novate Mezzola, qualche chilometro più avanti rispetto a dove mi trovo adesso. Sono su un ponticello di legno, ne approfitto per appoggiarmi al parapetto e per bere un paio di sorsi del famigerato Energade. Decido anche di cambiare cassetta, adesso mi sono scaldato e pedalo abbastanza in scioltezza, per cui ci vuole un gruppo di quelli che ci dia dentro in velocità e quindi metto su una cassetta con l’lp e un paio di 7” dei Ten Yard Fight (hardcorers bostoniani della seconda metà degli anni novanta, tamarrissimi nella versione straight edge della cosa e con la fissa del football americano, come si può evincere anche dal nome). “…our…actions…will speak…louder…than…your…fucking words!” …’azzo, adesso mi sento obbligato a pedalare un po’ più veloce! ;-) Arrivo a Verceia, qui la ciclabile è in realtà un mix con una strada comunale, questo pezzo col fondo in porfido su cui sto passando adesso l’abbiamo fatto noi nell’estate del 2004, ricordo che faceva un caldo infame e che la breva dal lago arrivava solo attorno alle quattro del pomeriggio… ritorno sull’asfalto e in breve tempo Verceia me la lascio alle spalle, arrivo a Campo Mezzola e passo dal parcheggio/area camper: pure questo l’abbiam fatto noi, era l’autunno del 2008 e c’era un clima stupendamente temperato che si lavorava quasi con lo stesso piacere che si avrebbe nell’andare alla festa di mezza estate organizzata da ‘Hustler’ (non spiego, che tanto sapete tutti cos’è!). Mi dirigo verso Novate Mezzola: passo sul mega ponte di legno, arrivo nel parcheggio del Lido di Novate, ci sono un po’ di famigliole intente a fare un picnic sui tavoli in legno del parchetto antistante, io tiro diritto sbagliando clamorosamente strada e finisco nel parcheggio dell’ex Area Falck (ex acciaieria dismessa da anni e mai bonificata del tutto). Dopo aver maledetto abbondantemente la Madonna del Ghisallo (patrona dei ciclisti) ed aver espresso pesantissimi commenti sui costumi sessuali di Santa Caterina di Alessandria (che dei ciclisti sarebbe la protettrice), esaurita la sfuriata blasfema, ripercorro circa duecento metri al contrario e prendo la strada giusta, quella che corre lungo la riva del lago e poi lungo quella del canale che congiunge il Lago di Mezzola col Pozzo di Riva, un laghetto di medie dimensioni posto a nord del lago più grande. Qui il paesaggio mi emoziona quasi, erano secoli che non mettevo piede in questa zona…adesso ci metto le ruote, ma vabbè avrete capito! ;-) Un verde rigoglioso ovunque, anatre nel canale, uccelli di ogni specie e anche un tipo (azzardo di provenienza tedesca od olandese) dal look fra il fricchettone e l’impiegato che fotografa piante e fiori. Noi abbiamo davvero degli itinerari bellissimi, viverci qui non è come andare in vacanza e l’ho già scritto, però altro che quelli di ‘Itinerari in mountain-bike’ o come si chiama quel programma di Doc-u Tv con ciclabili venete od emiliane decisamente monotone a livello di paesaggio circostante! Arrivo nello spiazzo della macelleria equina di Novate (negozi che il mio socio Tazio, grande amante dei cavalli, farebbe saltare con la dinamite!), cioè il posto da cui ero partito l’ultima volta che ero stato a Chiavenna in bici, e tiro il fiato approfittandone anche per bere un altro po’ di liquido arancione. Adesso la strada inizia a farsi dura, ci vuole in disco di quelli con l’effetto-demolitore, come lo chiamo io; mi spiego, deriva da una mia deviazione professionale, cioè quando si demolisce del calcestruzzo piuttosto resistente con un martello pneumatico o un demolitore elettrico e il suddetto calcestruzzo inizia lentamente a cedere per poi cominciare a rompersi…insomma, quei classici dischi Hardcore coi pezzi che iniziano cadenzati e poi parte il riffone di chitarra e tutti gli strumenti entrano a manetta fino al coro da cantare col dito puntato. E quindi cassettona coi due storici albums degli Youth Of Today: “Break down the walls” e “We’re not in this alone!”. Passo quindi velocemente per la frazione (di Samolaco) Giumello, fra villette e stalle, finchè raggiungo la zona delle cave di sabbia. Qui la ciclabile è in realtà una strada sulla quale possono passare sia auto che, soprattutto, i grossi autocarri delle suddette cave. Una volta, mentre pedalavo su questa strada alle sei di sera di un martedì di fine settembre, un camion grande come una nave da crociera mi chiese strada suonando un terrificante clacson a volumi stile Manowar in concerto che quasi mi fece ribaltare nel prato antistante. Ma oggi è domenica, le cave sono chiuse, i camion non possono circolare e di auto non se ne vedono. Passo sotto il primo ponte sul Mera che incontrerò lungo il tragitto e prendo a discreta velocità la salita che mi riporta sull’argine del suddetto fiume. Argine sul quale arrivo annebbiato dalla fatica, tanto che durante il pezzo ‘A time we’ll remember’, mi sembra che Ray Cappo si stia rivolgendo a me cantandomi: “Claudioooo, this is a time we’ll remember!!!” (copyright Pecorari, lui sa perché!), “E ‘sti cazzi, Raimondo!” gli rispondo mentalmente “di sicuro non me la scordo questa giornata, specie quando ripenserò al ritorno, visto che adesso a neanche metà strada di andata mi sento a pezzi!”. Riparto, qui ci sarebbe una specie di sentiero lungo l’argine sterrato e malmesso (lo feci una volta e alla fine avevo un deretano a pezzi come penso neanche dopo essere stato violentato da un’intera squadra di rugby), oppure si può scendere sulla strada asfaltata, aperta anche al traffico su quattro ruote. Opto per la seconda ipotesi e percorro questo paio di chilometri o giù di lì incontrando solo una macchina con un paio di ragazzi a bordo. “Slow doooown!” mi urla nelle orecchie Ray, “Ok socio, qui ti seguo volentieri” ribatto sempre mentalmente, e diminuisco le pedalate, guardandomi in giro e osservando le varie fattorie ed abitazioni campagnole di quest’area. Oggi non c’è in giro nessuno, ma più di una volta passando di qui (in orari serali o tardo-pomeridiani) ho intravisto personaggi dall’aspetto inquietante che non avrebbero sfigurato nel cast dei mutanti di films tipo “The hills have eyes” (titolo italiano, Le colline hanno gli occhi). E rimanendo in tema valligiano non posso non citare tre ben più graditi elementi, conosciuti tempo addietro su una strada montana della stessa Valchiavenna: fratelli, età fra i 50 e i 60, aspetto da chicanos con baffo, ma valchiavennaschi da generazioni (probabilmente di lontanissime origini ispaniche ai tempi della dominazione spagnola). Sembravano usciti dalla crew dei Suicidal Tendencies e dalla ghenga di Venice Beach al seguito dei vari Excel, No Mercy e Beowülf nei primi anni ottanta. A riprova di ciò, uno di loro sfoggiava una bandana tenuta a fascia larga quasi stile Mike Muir, e vi giuro che non me la sto inventando! Giungo al secondo ponte, quello di San Pietro, attraverso la Trivulzia (strada provinciale) e ritorno sulla ciclabile che nel tratto da qui al ponte di Gordona sale impercettibilmente, cosa che alla lunga però si fa sentire, “ma la bici non dà pene perché funziona bene”, parafrasando Elio, e l’unico motivo di rallentamento me lo danno alcune famigliole a passeggio coi soliti bambini che zigazagano (zigo-zago-oi!-oi!-oi! – citazione per gli skins e gli oi! fans) imprevedibilmente in mezzo alla strada. Mi ritrovo ancora la Trivulzia ad intersecare il percorso, scendo quindi dal mio horse of steel e lo spingo lungo il ponte succitato attraversando il Mera fino a riprendere la ciclabile che adesso costeggia la sponda opposta del fiume. Faccio qualche centinaio di metri sull’asfalto, poi il fondo diventa sterrato e presto si tramuta in un sentiero preceduto da un passaggio obbligato su un muraglione che attraversa un torrente di cui ignoro il nome. In questo passaggio scendo nuovamente dalla bici onde evitare rovinose e rischiose cadute di circa tre metri sui sassi che punteggiano il corso d’acqua sottostante! Risalgo in sella alla bersagliera e per fortuna non mi cade il sellino come invece succedeva a Fantozzi, anche se il tragitto sul fondo sconnesso è oltremodo lungo e disseminato di radici, sassi che affiorano appena dal terreno e bozzi vari, tanto che alla fine avrò il didietro come Lino Banfi dopo il trattamento arabo in “Com’è dura l’avventura” con Paolo Villaggio! Quando mi imbatto in un torrente che taglia la strada noto con preoccupazione che dall’ultima volta che c’ero passato il livello dell’acqua si è alzato paurosamente (ha piovuto parecchio nell’ultimo mese) e sarà dura arrivare di là senza bagnarsi i piedi. Alzo lo sguardo e vedo tre vecchiacce sedute su una panchina appena al di là del guado. Loro guardano me (senza salutare) e io capisco al volo: le tre megere vogliono vedere come e se ce la faccio ad attraversare. Il momento è cruciale. Temporeggio prendendo lo zainetto e bevendo un sorso di energade, mentre con la coda dell’occhio studio il torrente cercando di non farmi vedere dalle vecchie. Valuto la profondità sui trenta centimetri/trentacinque massimo e penso che se passo abbastanza velocemente e tenendo i piedi sopra il livello dell’acqua dovrei farcela. C’è solo l’incognita dell’eventuale ed invisibile sasso sommerso che mi farebbe perdere l’equilibrio con due opzioni di caduta: la prima dalla parte delle vecchie che si risolverebbe con una figura di merda, una lavata totale e qualche livido, la seconda giù dalla vicinissima cascata (il punto più basso, cioè quello dove passerò, è proprio sull’orlo della suddetta cascata) che si risolverebbe con una figura di merda, una lavata totale, qualche livido, qualche osso rotto e magari anche la testa spaccata per salutare anzitempo questo mondo crudele (risparmiandomi almeno in vita l’umiliazione da parte delle tre befane). Sono pronto. Alzo la testa e guardo le vecchie con aria di sfida, loro di rimando sembrano tre sfingi che mi fissano. Mi sembra che da qualche parte nel bosco si stia alzando una musica da film western nel momento del duello fra pistoleri. Parto deciso e…ce la faccio! Neanche una goccia d’acqua sulle scarpe. Mi giro verso le tre sfingi trattenendo un gesto dell’ombrello stile Moratti in un derby di qualche anno fa. Loro mi guardano ancora, ma adesso con aria assente, e capisco che le ho fregate. Esaltato dalla sfida vinta con le tre megere, quasi non sento neanche più dolore all’osso sacro e in più ritorno sull’asfalto che non mi abbandonerà più fino a Chiavenna. Che bello che è il mondo! ;-) Sul walkman intanto ho sostituito gli Youth Of Today con una cassettona totale (il 7” e i due albums) degli Insted, hardcorers straight-edge californiani di fine anni ottanta pure loro. Nella zona del paesino di Mese inizia una salita non ripida, ma costante e decisamente lunga. La vedo in lontananza e sbuffo pensando che sarà dura farla tutta in un colpo senza accusare fatica. Ma nelle orecchie ho il pezzo “I will try” e il ritornello ‘You say: I won’t, I say that I will try! You say: I can’t, I say I will try!’ sembra fatto apposta per me (lo chiamavano positive-core mica per niente!). Certo, rispondo mentalmente a quei quattro ragazzini di ormai venticinque anni fa, ci proverò! E quando arrivo al ponte in legno di Mese ci sono riuscito e mi siedo su una panchina a godermi un meritato riposo di qualche minuto intaccando abbondantemente le mie scorte di energade. Riparto ed entro subito a Chiavenna Sud, la strada è ancora in salita, ma ormai la meta è vicinissima e mi sembra di surfare su di un’onda non di pedalare, perchè le gambe vanno da sole e nemmeno sento più la fatica (fa impressione pensare al fatto che queste cose alla fine siano solo una questione di testa, eh?). E arrivo dove volevo arrivare, sulla strada statale che taglia in due Chiavenna. Mi fermo soddisfatto e penso che in questo stato di grazia quasi quasi potrei proseguire fino al confine svizzero, ma la risposta me la dà saggiamente il titolo del pezzo degli Insted che sta girando nel walkman in quel momento: “Maybe tomorrow”. Eh già, perché adesso devo anche tornare a casa ed è meglio che non ripensi a quanta strada devo ripercorrere al contrario. Mi faccio forza e vado: adesso fortunatamente c’è un bel po’ di discesa e anche nel prosieguo ci sono svariate parti sempre in discesa, quindi sono un po’ avvantaggiato rispetto all’andata. Arrivo praticamente senza quasi pedalare fino al ponte di Mese e decido che è ora di pranzo. Mi fermo all’inizio del ponte, spostandomi sull’argine. Mi rimetto la felpa, tiro su il cappuccio dato che c’è sempre un po’ di vento, appoggio la bici ad un masso e mi siedo su un sasso a mangiare lentamente i miei crackers ammirando le montagne chiavennasche che mi circondano. Mi mangio anche il cioccolato, ci bevo sopra il solito energade (dalle tante volte che l’ho scritto potrei anche chiedere alla ditta produttrice qualche euro per la pubblicità!) e riparto verso sud. Inizia a farmi un po’ male il ginocchio destro (mia croce dai sedici anni in poi), ma ricaccio indietro il dolore spingendo per un po’ col piede sinistro sul pedale, facendo quindi riposare quello più sollecitato. Ritrovo il guado, le vecchiacce se ne sono andate e io passo in scioltezza bagnandomi un po’ le scarpe stavolta, ma chissenefrega, non mi ha visto nessuno. Ripasso sul muraglione e alla fine, quando sto per risalire in sella, incontro una bambina sui sette anni a piedi e mi sposto per farla passare. Lei mi guarda e mi dice ‘Ciao!”, e io ‘Ciao’. La bimba guarda lo zainetto, guarda me, aggrotta le sopracciglia riflettendo probabilmente sul mio abbigliamento da pirla, e mi chiede ‘Vieni da lontano?’. ‘Beh, vengo da Chiavenna, ma adesso devo tornare a Colico’ rispondo. ‘Io sono di Gordona, tu sei di Colico?’ chiede la bambina. ‘Sì’ dico io. ‘Però!’ commenta ammirata la piccola. ‘Beh, ciao e buona passeggiata!’ taglio corto io, che mi viene in mente che sono qui in mezzo a un bosco a dialogare con una bambinetta, vuoi mai che mi veda qualche cretino e mi prenda qualche accusa di pedofilia! Riparto e adesso però ho un altro problema: sto iniziando ad accusare la fatica e sto pensando troppo a quanta strada devo ripercorrere, cosa che fiacca le mie energie, per cui mi concentro sulle pedalate (alternando le spinte fra piede destro e piede sinistro) e sulla musica che esce dalle cuffie. Seguo le parole quando le capisco e/o conosco il testo, seguo le parti di batteria, le linee di basso, i giri di chitarra. Adesso il walkman diffonde le note di uno degli albums più belli dell’hardcore di marca straight edge, “Start today” dei newyorkesi Gorilla Biscuits. Loro avevano dei bei testi, distanti dagli slogans delle bands del loro giro, e quando Anthony Civarelli in arte Civ canta “Not getting any younger, getting older. It’s scary. Swept out from under your feet, your youth’s gone and you wonder why…because times are flying by” non posso fare altro che dargli a malincuore ragione, e se lo diceva lui che all’epoca di quel disco (1989) aveva vent’anni o giù di lì, figurarsi io che sto per compiere i quaranta! Ripasso nella zona de “Le colline hanno gli occhi” e davanti ad un casello della ferrovia abbandonato ci sono tre ragazzine sui sedici anni intente a passarsi una canna; appena mi vedono si affrettano a nasconderla, ma io le guardo e faccio un gesto come a dire ‘fate pure’, nonostante ora nel walkman si sia passati all’lp “Bringin’ it down” dei Judge (altra band neworkese, altro disco dell’89) dove il buon Michelone Ferraro in arte Mike Judge canta di prendere a martellate fumatori, alcolisti e tossici! Ripercorro tutta la zona cave e quando raggiungo la macelleria equina sono ormai nello stato di Fantozzi durante la Coppa Cobram: contrariamente a Villaggio, non avendo io a disposizione ’a bomba, l’unica cosa che posso fare è cambiare cassetta e mettere sul walkman il mitologico “Don’t forget the struggle, don’t forget the streets” (’87) degli skin-corers newyorkesi Warzone, capitanati dal compianto (infezione polmonare, pur essendo straight-edge…) Raymond Barbieri detto Raybeez. E subito la title-track (chi mi copiò la cassetta registrò prima il secondo lato dell’album e poi il primo…), vero e proprio inno all’hardcore statunitense (“from the East Coast to the West Coast, inside myself I can hear the screams, the style all over it may be different, but in our hearts it’s all the same…”), riesce a darmi la carica per farmi arrivare, singalongando mentalmente sui vari anthems di quel discone, fino a Campo Mezzola e da lì alla fine della ciclabile vera e propria in zona, diciamo così, Verceia Sud. Spengo il walkman. Adesso arriva la parte più difficile, quella in cui devo tornare su strada in mezzo alle macchine e, soprattutto, al vento che, già fastidioso lungo tutta la via del ritorno, qui, dove la vallata si apre verso il lago, diventa un discreto problema, specie per chi, come me, è in giro da ore e non ha né ‘sto grande allenamento nelle gambe, né ‘sto gran fisico a supporto… Saggiamente decido di infilarmi in mezzo a Nuova Olonio e di pedalare sul marciapiede lungo tutto il paesello riparandomi così parzialmente dal vento grazie allo scudo delle case, poi però ho da fare tutto il cosiddetto in zona “tiro di Nuova Olonio” (cioè il lungo rettilineo che da detto paese arriva fino al ponte sull’Adda): fra sbandate dovute alle numerose folate (con conseguenti bestemmie a sfondo mitologico, sui vari Eolo, Zefiro e dei del vento vari) e continue occhiate al discreto traffico che mi passa a pochi centimetri dalla spalla sinistra, arrivo finalmente al ponte e al suo corridoio ciclopedonale in cui mi infilo sentendomi in salvo! Mi fermo un attimo quasi a metà del fiume che scorre imponente sotto di me e resto una volta di più ammirato dalla bellezza e dalla forza della natura, anche quella di un fiume che conosco da quando sono nato e sul cui ponte passo plurime volte alla settimana in macchina o camion. Riparto, scendo sotto il ponte e riprendo la ciclabile sterrata che mi riporta verso casa, una meta che ormai sento finalmente vicina. Il vento è devastante, sembra addirittura più forte qui, il ginocchio torna a farmi male, ma stringo i denti e scendo a riprendere la strada asfaltata vicino al Forte di Fuentes. Quando passo sotto il cavalcavia di Colico e da lì a poco la strada diventa leggermente in discesa, lascio riposare il ginocchio che ormai chiedeva pietà e con solo qualche pedalata ogni tanto data col piede sinistro arrivo in piazza del lago che vuol dire casa. Frugo nelle tasche dei bermuda e trovo il telecomando del cancello, apro, entro in cortile, scendo dalla bici, la metto in garage e salgo le scale esterne dolorante un po’ dappertutto. Apro la porta di casa, raggiungo il letto e mi ci butto a pesce rimanendo nella stessa posizione come morto per almeno un’ora. Non so quanto tempo sono stato in giro, so solo che accendo su Telelombardia e c’è Qsvs che segue gli ultimi minuti di Manchester City-Queens Park Rangers, quelli in cui la squadra di Mancini rimonta e vince 3-2 conquistando la Premier 44 anni dopo l’ultima volta. E come il Mancio e i suoi ragazzi pure io, nel mio piccolo e considerati i miei parametri, ho centrato il mio traguardo e sono soddisfatto della mia domenica! E l’anno prossimo tenterò Colico-Sondrio, ho già la colonna sonora per l’entrata nel capoluogo valtellinese: ovviamente “Il calcio è una cosa seria” dei Gradinata Nord, col famoso (e gratuito) coro ‘Sondrio merda” ;-) !
Outro: chiaro, chi di voi è davvero un ciclista, non un biciclettaro della domenica come me, sta magari pensando che fare questo percorso è un cosa da niente e che non era il caso di scriverci un articolo. Avete anche ragione, ma penso abbiate capito che raccontare il percorso è anche un pretesto per condividere delle esperienze e divagare un po’ su questo o quello, che alla fine è lo scopo primario per cui faccio uscire questi fogli che state tenendo in mano. E che cazzo! ;-)