MORBEGNO ESTREMA
I prime movers death, black e grind della cittadina del Bitto
La cittadina di Morbegno nei primissimi anni novanta fu sicuramente l’epicentro della scena musicale della zona. Sia noi dell’Alto Lario, sia i ragazzi dei paesi della Bassa Valtellina, facevamo tutti riferimento ai fermenti che iniziavano a prendere forma di bands nelle cantine, nei garages e nelle camere da letto di quella piccola città tagliata in due dalla linea ferroviaria Milano-Tirano. A bands già attive da qualche anno (Carrions N.N., Sessorale, Presence) se ne aggiunsero in breve tempo parecchie altre, dedite a generi anche decisamente diversi fra loro, ma tutte facenti parte di un’unica scena (niente da mitizzare, come ho già detto, è una semplice constatazione della realtà dei fatti). Geriebene Haselnüsse, Eclipsphobia, Karsavina, Skunk, P.V.C., Overdones, For Sale, Mosquitos, Snaps, Freedom Of Expression, ecc. ecc. Tutti gruppi spazianti dal punk-rock al pop-rock, dalla dark/wave all’hardcore/metal. Nessuna comunque poteva essere considerata una band di musica estrema. Beh, nessuna tranne una:
I wanna drink some pus
Siamo nel 1989 e il primo mattone thrash/death a Morbegno e zone limitrofe venne posato dai Fonderia, band nata da un’idea dell’Alex (l’attuale chitarrista dei Gradinata Nord) a cui si affiancarono il Corrado all’altra chitarra, il Fara al basso e il Bonello (attualmente sugli scudi con quel progetto di musica da cucina…) alla batteria (composta in realtà dai soli rullante e charleston, più il pedale a battere su uno scatolone cartonato e due bonghi, souvenir di qualche vacanza caraibica di un non meglio precisato parente dell’Alex, come tom). Il vocalist era il Mirtillo, all’epoca il fornitore-principe di metal estremo in queste lande, che poi ritroveremo anni dopo brevemente come cantante nei Simia (rock italiano spruzzato di hard). Per il Corrado e il Fara i Fonderia furono invece l’unica esperienza nel mondo della musica. Il gruppo provava nella camera da letto dell’Alex e compose un paio di pezzi, “Tormento” e “Parametrica con discussione” (dal titolo geniale un po’ sullo stile di quelli degli austriaci Disharmonic Orchestra, band di cui naturalmente a quel tempo i componenti del gruppo morbegnese ignoravano l’esistenza). Si vocifera che dei Fonderia abbia circolato un rehearsal-tape strumentale, ma non sono mai riuscito a trovarlo/sentirlo in più di vent’anni! Il gruppo si scioglie pacificamente nel ’91, il Bonello va a suonare col futuro professor Botka nella pop-rock band Geriebene Haselnüsse, mentre gli altri attaccano strumenti e microfono al chiodo, per sempre o per un po’ come avete già avuto modo di leggere più sopra. Nel settembre di quell’anno l’Alex inizia l’università e si ritrova nello stesso corso con un certo Giorgio (che suonava la chitarra acustica da anni), morbegnese pure lui, ed è in questa occasione che i due, pur conoscendosi da sempre, chiacchierando sul treno scoprono di avere in comune gli stessi gusti musicali. Da lì alla formazione di una band il passo è breve, anzi brevissimo. Il Giorgio aveva un fratello che aveva comprato da poco un atroce basso marca Tamaki, mentre l’Alex aveva un amico d’infanzia che aveva appena ritirato la vecchia batteria del Bonello e che si apprestava a cimentarsi con detto strumento. La line-up era quindi già fatta: Giorgio a voce e chitarra, Alex all’altra chitarra, Gianluca al basso e Zafo alla batteria. Una delle prime mosse della neonata band, oltre ad aver assunto il nome di Mamma Pus (italianizzando la Mama Pus di un racconto dello scrittore horror inglese Clive Barker), fu quella della photo-session al cimitero di Morbegno, fra lapidi e crisantemi, in piena tradizione death metal! E furono in effetti la prima Death Metal band della provincia di SO, almeno secondo le mie conoscenze; più o meno nello stesso periodo muoveva i primi passi una band di Sondrio di cui non ricordo il nome (e da cui qualche anno dopo nasceranno i Succumb), capitanata dal futuro rinomato tatuatore Salvio (a voce e basso). Anni in cui chi adesso dice “suoniamo death metal alla In Flames” era al di là da venire (anzi erano al di là da venire gli stessi In Flames, i quali per inciso hanno a che fare col death metal reale quanto il sottoscritto con la fisica quantistica…di loro mi piacciono i primi due dischi, quelli con gli influssi di folk nordico, poi li ritengo una palla unica) ed erano al di là da venire anche tutti quei fissati della sola tecnica applicata al death metal, quelli che non sanno che questo genere dev’essere fatto di carne, anima e sangue, non di batterie triggerate, di chitarre sincronizzate e di sentore di plastica… Il loro primo batterista, lo Zafo, era dotato di tecnica zero (detto da me che di tecnica forse ne ho 0,01 e solo grazie ad una maggiore esperienza nel corso degli anni), ma la batteria la prendeva letteralmente a legnate, specie la cassa che, grazie alla gamba destra da calciatore e nella fattispecie da terzino che aveva fatto chilometri su e giù per la fascia, aveva un volume di suono probabilmente maggiore di quello di Pete Sandoval (Morbid Angel), e non sto scherzando! Il RomeGianluca, che suonava il basso pennando da sotto in su, completava una sezione ritmica inusuale, ma decisamente efficace, anche se molti puristi della tecnica staranno trattenendo a stento sorrisetti ed espressioni di rifiuto! Dopo aver composto una manciata di pezzi, nel marzo ’92 i Mamma Pus decisero di registrare un demo e il fonico prescelto (che anzi, si offrì personalmente una sera alla birreria K2) fu lo Zorro, chitarrista dei Carrions N.N., il quale ospitò il gruppo nella sala prove in mezzo alle campagne di Cosio (sala prove che le carogne non note dividevano con gli Skunk, il gruppo in cui suonavo io all’epoca). Il sottoscritto si aggregò come pseudo-produttore e assistente del fonico. La sera fu quella dell’8 marzo, festa della donna, categoria ovviamente assente quella domenica in quel locale spazioso ed umido che vide attori delle registrazioni i soli quattro ragazzi del gruppo, il fonico e il suo assistente, io come già detto, che come lo Zorro mi ero fatto avanti personalmente perché già allora (li avevo visti provare un paio di volte) a me i Mamma Pus piacevano un sacco. Molto di più, ad esempio, degli osannati Karsavina (i quali anche tuttora sono ricordati come una grande band del passato, mentre i ‘Pus non sa quasi più nessuno che siano esistiti). Purtroppo il pezzo per cui ogni tanto qualche anima li ricorda è la joke-song “Dalla padella alla brace” (primissima composizione del gruppo), il cui testo a me piaceva particolarmente perché c’era il verso “ti piace far l’amore con la figlia del dottore” (mutuato dalla nota filastrocca) che mi ricordava, un po’ piacevolmente e un po’ con un velo di tristezza, una cosa che mi era capitata qualche tempo prima di conoscere i ragazzi del gruppo. Il demo (che poi in realtà non fu tale, ma rimase una specie di nastro di prova -il classico rehearsal tape- distribuito gratuitamente solo agli amici ed utilizzato come promo in alcune rarissime occasioni), nella sua naïveté e pur coi suoi ovvi errori d’esecuzione, la strumentazione di livello infimo e la produzione decisamente scarna, a tutt’oggi rimane una piccola perla di quell’embrionale scena, oltre ad avere l’onore di essere stata la prima registrazione death metal della zona. La cassetta, contenuta in una copertina con disegno di una vecchia megera (preso, se non ricordo male, da un’agenda tipo Smemoranda!) a simboleggiare la Mamma Pus, si apre con la succitata “Dalla padella alla brace” che, anche per la sua relativa brevità, funge quasi da intro per il resto dei pezzi che sono più in linea con quello che era lo stile scelto dal gruppo: sbrigativamente lo definirei un death metal dagli influssi punkcoreggianti, ma nei parecchi riffs e stacchi che si succedevano nei vari brani c’erano mille suggestioni di varia provenienza, certo rielaborate secondo una tecnica non particolarmente eccelsa, anzi, ma che forse proprio per questo avevano il sapore delle cose “vere”, non costruite a tavolino. I Mamma Pus erano il classico gruppo che suonava la musica che più gli piaceva suonare, pur partendo chiaramente da quella per cui i membri stravedevano, cioè il death metal che in quel periodo 1991/1992 era all’apice del successo mondiale. E a me quei pezzi piacevano e piacciono tuttora, si fanno seguire, coinvolgono e sono veramente originali, parola spesso usata a sproposito, ma che in questo caso ha senso eccome. Ricordandoci che siamo nel ’92 e che sono brani del ’91. Ma ricordandoci anche che il Giorgio usava uno stile vocale piuttosto vario, passando dal classico growl death metal all’urlato più tipicamente hardcore/thrash e usando pure la voce pulita in alcuni frangenti, per una versatilità che all’epoca era prerogativa di quasi nessuna band nel genere. I testi dei pezzi di questo demo non erano a base di satanismo, morte e distruzione, ma erano più sul reale/psicologico, spesso usando metafore di tempi passati per parlare di ingiustizie quotidiane (vedasi “L’albero del re”, pezzo in cui io e lo Zorro ci eravamo cimentati alle backing vocals); quei testi a metà fra tematiche da band hardcore e vocabolario da death metal in pratica. Il cantato era generalmente in italiano (i due pezzi già citati, più “Vivi soffri muori”, “Anime putrefatte” e “I wanna drink some pus”, a dispetto del titolo) e un po’ in inglese (“Lucky strike” e “Cimitero mentale”, a dispetto del titolo pure qui). Il singer era il Giorgio, ma in un pezzo canta il Gianluca e in un altro addirittura l’Alex. Ah, dimenticavo la cover di ‘Scum’ dei Napalm Death, qui ribattezzata “Scup” e con un delirante testo in italiano scritto dal Giorgio (i testi li vergavano lui e l’Alex, con qualche eccezione da parte del Gianluca). Era una domenica sera, come detto, ma alla fine delle sessions rimase il tempo per una jam in cui registrammo un pezzo improvvisato, fra death metal ed hardcore, in cui i Mamma Pus suonano e lo Zorro ed io ci dividiamo le parti vocali cantando frasi a caso prese dai vari fogli dei testi dei ‘Pus (ho ancora questo scempio, intendendo con ciò le mie vocals, da qualche parte!). Seppur non distribuita come demo vero e proprio, la cassetta ebbe una certa risonanza qui in zona e l’eco arrivò fino alle montagne del berbennese, in un paesino a mezza montagna dove all’epoca vivevano e suonavano i Wers, thrash metal montanaro ispirato dai loro mentori, gli S.N.P. che vivevano qualche chilometro più a valle. Una sera i quattro Wers si presentarono nella sala prove dei Mamma Pus (cioè la taverna di due membri della band, i fratelli Romegialli) e chiesero timidamente se potevano assistere alla session dato che anche loro suonavano metal. Accolti calorosamente e fatti accomodare, i Wers alla fine delle prove si metteranno agli strumenti e suoneranno un paio di pezzi per i Mamma Pus. E queste situazioni erano decisamente frequenti all’epoca tra i gruppi della zona, un intera band (o tre/quarti di essa) andava a vedere le prove di un’altra e poi prendeva in mano gli strumenti ancora caldi e si esibiva in due o tre pezzi propri da far sentire al gruppo che aveva appena terminato la propria session. Io stesso devo aver suonato pezzi degli Skunk in almeno quattro sale prove che non fossero la nostra… Appena uscito il demo, denominato semplicemente “Demo tape 8-03-1992”, il gruppo dovette subito far fronte all’obbligata defezione dello Zafo, partito per la naja. Gli altri tre decisero di trovare un rimpiazzo temporaneo per quell’anno che il batterista originario avrebbe passato sotto le armi e all’Alex venne in mente colui che fu il drummer dei suoi Fonderia, per cui già a fine marzo ’92 dietro le pelli dei Mamma Pus sedeva un Fabio “Bonello” Bonelli la cui band (i Geriebene) si stava per sciogliere, col nostro che iniziò a farsi crescere i capelli per uniformarsi al death metal-look dei ‘Pus, quantomeno quello del Giorgio e dell’Alex, dato che il Gianluca rimarrà sempre fedele al capello cortissimo. Col nuovo batterista, sicuramente più esperto e tecnico del precedente, la band compose un nuovo pezzo intitolato “Il dolore del nonsenso”, cantato in italiano e piuttosto particolare, una via di mezzo fra certo death metal e certo hardcore. Composto anche un intro decisamente in stile Sepultura, i nostri erano pronti per il debutto live. Debutto che sarebbe avvenuto a maggio in una kermesse in quel di Sondrio dove, nella cornice dell’auditorium Torelli, per una serie di sabati sarebbero salite sul palco due o tre bands per serata, spaziando dal rock al jazz, dal pop al cantautorato, dal funky al metal e al death metal, appunto. Serviva una cassetta da presentare agli organizzatori e i Mamma Pus pensarono di registrare qualche pezzo con la nuova formazione nella loro sala prove, convocando un fonico sondriese che qualche tempo prima aveva venduto quell’osceno basso al Gianluca. Rimane negli annali la scena in cui il tipo, atteggiandosi da espertone e dimentico del passato, dice al bassista “oh, ma che cazzo di basso hai? Che suono di merda! Ma dove l’hai preso?”. Il Gianluca, serissimo e con quel suo fare alla Celentano (a cui assomiglia parecchio), gli rispose “me l’hai venduto tu” (pausa) “per centottantamila lire”. Al che il fonico arrossì violentemente e comprese che era meglio stare prudentemente zitto! Per l’esordio live dei Mamma Pus c’eravamo tutti: praticamente l’intera scena musicale morbegnese dell’epoca, molti ragazzi dai paesini della provincia valtellinese, noi da Colico e qualcuno anche dall’Alta Valle (fra cui ovviamente Ugo Scarsi) e dal lago. Particolarità del Torelli è che il palco è posto in fondo ad una lunga gradinata stile arena, per cui il gruppo stava come in una fossa (ci suonerò con gli Eternit anni dopo ed è in effetti una sensazione strana). Io ero in zona medioalta, dietro di me la signora Elisa, madre dell’Alex! Dopo una jazz band sondriese fu la volta dei Mamma Pus, che fecero decisamente il loro, partendo dall’intro sepulturiano di cui sopra per passare ad un’esecuzione dei propri pezzi decisamente efficace e che lasciò il segno sulla folla. La band nella sua esistenza non fece moltissimi concerti (e io li vidi tutti), quello che seguì questo del Torelli fu uno in Alto Lario, nella discoteca Meeting di Domaso a fine giugno e assieme ai miei Skunk (fu il nostro primo concerto). Molto più degno di nota però l’assurdo concerto settembrino a Morbegno (promosso da Csi, Acli e oratorio in genere. Gli organizzatori chiesero i testi alla band per un’eventuale censura preventiva e i Mamma Pus, furbescamente, fecero avere loro delle versioni edulcorate!) che degenerò dopo pochi pezzi quando un futuro sindaco morbegnese iniziò a staccare l’amplificazione finchè il Giorgio incazzato non buttò la chitarra per terra e se ne andò mandando tutti affanculo, col gruppo che concluse il set in tre coll’Alex alla voce. Fra il pubblico quella sera c’era anche Elio (di Elio e Le Storie Tese), la cui compagna è di Morbegno.
Nell’autunno del 1992, dopo una revisione degli equilibri in seno alla band, arriva un inaspettato cambio di nome: l’originalissimo e d’impatto Mamma Pus diventa un banale ed incauto Negative Approach. Questa denominazione, mutuata da un pezzo dei Napalm Death, era però la stessa della storica hardcore band del Michigan dei primi anni ottanta, cosa che portò addirittura il buon Claudio Carimati, hardcorer colichese della prima ora che generalmente appendeva sulla vetrina del suo colorificio qualsiasi manifestino gli portassi, a rifiutare l’affissione visto il vilipendio verso il nome di uno dei suoi gruppi preferiti! Il cambio di denominazione portò anche ad una netta virata verso il death metal propriamente detto e vennero in breve tempo composti altri tre pezzi: “Death by thoughts”, che aveva un intro lunghissimo decisamente ispirato a quello di ‘Hell awaits’ degli Slayer, “Force search me” e “Black hands”. Death metal 100% o quasi, ma sempre personale e comunque decisamente trascinante! Il “nuovo” gruppo si presentò al pubblico attorno alla metà di novembre con uno spettacolare concerto al solito Meeting di Domaso: intro pre-registrato, band che parte con l’intro vero e proprio in mezzo a fumo ed effetti vari, presenza scenica come si deve, insomma, quella volta avevano veramente, usiamo questa frase fatta, spaccato il culo! Dopo di questo ricordo, sempre al Meeting, il live di Capodanno (di cui avete potuto leggere le mie disavventure nei Caffeine Diaries…) a cui seguirono un paio di mesi di prove serrate per la registrazione di quattro brani (i tre più nuovi e “Il dolore del nonsenso”, a conti fatti l’ultimo pezzo composto con la band ancora denominata Mamma Pus). Le incisioni si tennero nella sala prove dei Wers, una ex cascina in un paesino montano, un sabato pomeriggio di fine febbraio ’93. Il fonico stavolta fu il Giuse (berbennese, con un allora recente passato di cantante per i milanesi Free The Nation e la militanza al tempo come vocalist nella band sondriese dei Nastassia). La messa su nastro era più che altro una prova per vedere come suonavano quei pezzi in vista di registrazioni future, che purtroppo non avverranno mai ed è quindi un bene che questi brani siano stati comunque immortalati per sempre su una cassetta, invece di finire nell’oblio come tanti/troppi pezzi meritevoli, ma mai incisi, di centinaia di bands da tutto il mondo. Dopo queste registrazioni ci fu forse un ulteriore concerto a Domaso e infine quello al Motoraduno di Dazio, un live dei Mamma Pus oooops Negative Approach pomeridiano con la presentazione di un nuovo pezzo (che sarà l’ultimissimo scritto dalla band) che ricordo di aver definito, atteggiandomi a critico musicale che la sa lunga (ehm!), come Slayer meet Paradise Lost meet Tiamat meet Obituary. E poi arrivò l’estate che portò allo scioglimento della band, anche per via di qualche rapporto interno non esattamente idilliaco. L’Alex stava già suonando con me negli Skunk da qualche mese, il Bonello (che era rimasto nel gruppo nonostante il rientro dello Zafo da naja alcuni mesi prima) non vedeva l’ora di levare le tende e di dar vita al progetto folk-punk che aveva in mente da tempo (i Caven) e i due fratelli Romegialli erano dell’idea di prendersi una pausa di riflessione. Il Giorgio e il Gianluca torneranno poi sulle scene nel ’94 con i Nuke, valida band di hardcore alla Biohazard di cui non è rimasta alcuna traccia ufficiale e che vedeva il primo alla consueta chitarra e il secondo come cantante. Negli anni a venire l’Alex e il Bonello si cimenteranno in svariate bands (unendo un’altra volta le forze nei Pubertas Morbegno, col Fabio per l’occasione al sax), il Gianluca fonderà i Gotcha! (rap-core a due voci, l’altra era il Papo futuro Gradinata Nord, con un mini-cd all’attivo) e il Giorgio tornerà al vecchio amore della chitarra acustica col trio, appunto acustico, Il Buono, Il Brutto & Il Cattivo, assieme al Rasco (ex cantante dei Caven) e al Bassman (Gradinata Nord). E la storia dei Mamma Pus può dirsi conclusa, fra il rimpianto di chi, come me, è sempre stato convinto che da quella band sarebbe potuto venir fuori almeno un gran bel disco e che invece l’ha vista finire nella polvere troppo presto… Questa storia finisce qui, ma la nostra continua.
Rise of the Warriors
Nel frattempo, sulle orme dei Mamma Pus, i Guerrieri (cioè la gang dei giovanissimi metal-kids morbegnesi) iniziavano a formare le proprie bands. I Marcia Funebre del Luca (cugino del Daddy dei Pubertas) furono i primi nel ‘92 e suonavano un death metal grezzissimo che mai si spinse più in là di qualche abbozzo di pezzi in sala prove, poi nel ‘93 nacquero gli Infekted guidati dal Ricky e fautori di un misto fra death e thrash portato anche sul palco per qualche concerto e infine nel ‘94 fu la volta degli Horrenda (che poi cambieranno nome in Cross Eyed), con sia Luca che Ricky in line-up, sempre death/thrash e anche loro usciti live in alcune occasioni. Di queste tre bands non rimangono testimonianze ufficiali, ma non escludo che i vari membri conservino tuttora qualche rehearsal o live tape. Esiste invece l’antecedente spartanissimo demo di Kaos (ovvero la one-man band del suddetto Luca Menesatti), intitolato “Che tu possa vomitare” (datato addirittura fine 1990 col nostro appena quattordicenne): diciamo che se gli Abruptum avessero avuto accesso ad una sola chitarra acustica il risultato non sarebbe poi stato tanto dissimile! Sei pezzi per quarantacinque minuti di simil-ambient delirante dai rumori casarecci, con abbozzi di riffs vari qua e là e cantati-parlati disturbati/disturbanti!
Adrenalin starts to flow, you’re thrashing all around…
Io sono sempre stato un grande fan di Thrash Metal prima (anni ottanta) e di Death e Black Metal poi (fine 80’s/primi 90’s), ma non avevo mai desiderato suonare quei generi. Fino a quel momento mi ero infatti cimentato solo col punk-rock e con l’hardcore/metal. Non so bene il perché, ma verso la fine del ’93 sentii improvvisamente ed irrimediabilmente il bisogno di suonare metallo estremo e misi in piedi un gruppetto estemporaneo coi fratelli Ronconi (Ricky -vedi sopra- e Piero, rispettivamente voce/basso e chitarra) che durò lo spazio di credo tre prove, in cui suonammo qualche pessima versione di “The sign of the evil existence” dei greci Rotting Christ e “The return of the darkness and evil” dei Bathory. Il power-trio ovviamente non ebbe mai un nome. Nel ’95 fu la volta di un quintetto-tributo alle sonorità estreme tedesche del decennio precendente: Pipa alla voce (esteticamente praticamente un sosia di Udo Dirkschneider degli Accept dei tempi d’oro, a livello vocale un’estensione strepitosa), il succitato Piero alla chitarra solista, Ace (si legge così come è scritto) alla ritmica, Ronchi al basso e io alla batteria. Durammo per circa una decina di prove, nelle quali riuscimmo a comporre e ad avere due pezzi finiti, di cui il primo in versione riveduta e corretta finirà sull’unico demo dei Fast Killing (formazione death/thrash di un paio di anni dopo con il duo Piero/Ace alle chitarre), mentre il secondo era praticamente un inedito dei Destruction periodo “Infernal overkill”, tanta era la somiglianza con lo stile della band di Schmier, grossa influenza del Piero, ottimo chitarrista, che era la marcia in più a livello musicale, mentre noialtri tre eravamo il contorno e picchiavamo sodo in quella maniera grezza tipica dei Sodom e dei primi Kreator. La voce del Pipa, infine, dava quel tocco di heavy metal classico al nostro black/thrash stile area mineraria della Ruhr metà anni ‘80: questa fu la prima band in cui osai cimentarmi con la doppia cassa (o meglio, il doppio pedale). Ah già, avevamo un nome? No, non credo, ricordo di aver proposto un atroce Black Nordic Sea (dopo aver visto in televisione un documentario sugli abissi del Mare del Nord….) che però non fu molto apprezzato dagli altri… Non ricordo come mai questa band si sciolse, probabilmente o perdemmo la sala prove (che era in una fabbrica) o non riuscivamo quasi mai a provare col cantante (che abitava relativamente lontano) o semplicemente non eravamo sufficientemente motivati.
Black Metal is the game I play….
In effetti io stesso non ero soddisfattissimo di esternare le mie pulsioni metalliche più oscure con del semplice thrash sporcato di nero, io volevo fare Black fuckin’ Metal! Ma non quello col trucco da pinguini, i testi sulle foreste e magari le tastiere (roba che a me comunque piaceva e piace da morire sia chiaro!), no, io volevo rifarmi a quello di metà/fine 80’s (i Mayhem norvegesi prima del boom del Norse black metal, i brasiliani Sarcofago, il mio amatissimo duo Hellhammer/Celtic Frost, gli italiani Necrodeath del demo e del primo album, gli immancabili Bathory, i primissimi Sodom, ecc.ecc.) e mischiarlo con l’Hardcore più veloce e scuro (specie quello di marca britannica: Extreme Noise Terror, Doom, Hellbastard, Ripcord, ecc.), per arrivare così a suonare Hardcore Nero (prendendo a prestito e traducendo la definizione Black-Core che si era data a fine 80’s la one-man band tiranese Sagatrakavashen). Avevo bisogno di almeno un paio di elementi e, siamo verso la fine del ’96, li trovo nel Sapo (all’epoca bassista dei punk-rockers Poxvirus, ma grandissimo fan del metallo estremo) e in un giovanissimo Lorenzo a.k.a. Renza (all’epoca quindicenne e senza esperienze musicali degne di nota, ma già pronto a fronteggiare un power-trio dedicandosi a voce e chitarra). Iniziammo a provare un paio di covers hardcore/crust, per vedere come ci incastravamo: “Raping the earth” degli Extreme Noise Terror e “Domestic prison” dei Disrupt. E ci incastravamo benone, o meglio ci divertivamo parecchio, soprattutto io che finalmente potevo suonare veloce (contrariamente al gruppo principale in cui suonavo all’epoca, gli Eternit, in cui gli stacchi veloci, e mai comunque velocissimi, si contavano sulle dita di una mano monca e duravano quanto un battito di ciglia) con un bel tu-pa / tu-pa ignorantissimo. Nel frattempo definimmo la linea del gruppo: un misto fra vecchio black metal e hardcore come già detto, testi volutamente di cattivo gusto a base di satanismo da fumetto, sesso deviato e abusi sessuali, look…beh quello l’avremmo deciso quando avremmo suonato live. Il nome: ce ne voleva uno che allo stesso tempo fosse volgare, d’impatto, autoironico e che non passasse comunque inosservato. E optammo per Deflorator, che fu una mia idea a cui diedi forma inglesizzando una parola italiana (l’inglese ‘deflowerer’ non ci piaceva troppo!). Restavano da trovare gli pseudonimi per noi tre, come la tradizione black metal richiedeva, noi tre che come detto ci divertivamo un mondo (e se la cosa era giustificabile per un quindicenne ed un diciannovenne, forse lo era un pochettino meno per un ventiquattrenne come il sottoscritto!) e addirittura provavamo due volte la settimana. Alla fine il Lorenzo divenne abbastanza prevedibilmente Lord Deflorator, il Sapo (futuro dottore, specialista in anestesia e rianimazione presso una nota clinica di Bellinzona) prese il nomignolo di Anal Butcher (parafrasando Necrobutcher, bassista dei Mayhem) e io quello di Vaginal Tormentor (stendendo un velo pietoso sulla prima, la seconda parola era un tributo alla band ungherese di Attila Csihar e al gruppo pre-Kreator, due esempi di proto-black metal degli 80’s fra l’altro). Ovviamente anche i rispettivi strumenti andavano indicati come la tradizione comanda, per cui Lord Deflorator era dedito al lustful garglesfucking nonché alla death saw (questa come Euronymous dei Mayhem sul demo “Deathcrush”), Anal Butcher era il vibrocleaver e io, Vaginal Tormentor appunto, l’hellish fleshbeater… (ricordo che inizialmente volevo denominarmi The Exumer perché nell’inverno di fine ’96 avevo esumato mediante escavatore almeno un sessantina di bare, per liberare spazio, divise fra tre cimiteri delle frazioni colichesi, quindi il nomignolo avrebbe avuto un certo fondamento, oltre a ricordare il nome della thrash band tedesca degli anni ottanta, gli Exumer di Francoforte). Iniziammo quindi a comporre i nostri primi pezzi. Il primissimo in assoluto fu “The morbid ragù of Satan” (con un testo ultra-delirante scritto traducendo alcuni brani da un libro sul Sabba e partendo poi definitivamente per la tangente immaginando atti di cannibalismo e di feticismo sessuale nei boschi…Ah sì, questo fu uno dei testi che scrivemmo tutti e tre assieme): inizio con riff di basso ultra-distorto sullo stile di quello dei primissimi VoiVod (il cosiddetto blower bass che qui noi ribattezzammo il blower-job bass!), poi chitarra e rullate sui tom prima e crescendo in doppia cassa poi fino allo stop e alla partenza di un riffone inconfondibilmente hardcore che si trascinava dietro basso e batteria con un tupa/tupa velocissimo, ritornello che andava addirittura in blast-beat (quel tempo che qualcuno chiama grind e qualcun altro a batticarne, per intenderci), poi ancora strofa e ritornello e finale come l’inizio. Il secondo pezzo fu “The pedifile”. Il main-riff lo composi io sul basso ed è il classico riffaccio stoppato di migliaia di pezzi di quel death/thrash più grezzo possibile, si partiva con quello e i classici stop con piatti/cassa per poi assestarsi su un tupa/tupa non velocissimo che nel bridge diventava un tempo simil-hardcore (per intenderci tu-pa, tu-tu-pa, tu-pa, rullatina di doppia cassa-pa), il ritornello era sul giro thrashone e poi c’era un rallentamento mortifero con sotto la doppia cassa in cui Lord Deflorator con voce grave narrava le atrocità finali compiute dal protagonista del pezzo. Il quale era un politico locale che era stato accusato di aver violentato più volte la figlia sin da piccola, figlia che noi conoscevamo e potevamo quindi perdere l’occasione di scriverci un testo? Lasciando buongusto, decenza e moralità in un cassetto chiuso a tripla mandata. Testo che scrissi per intero io e di cui ricordo solo il ritornello: “he’s the pedifile, the fuckin’ pedifile, he rapes the children ‘til they die” …ecco, il foglio con queste bellissime liriche venne trovato dalla madre del Lorenzo nella camera del figlio, il quale alla richiesta di spiegazioni rispose semplicemente che era opera mia: da quel giorno la signora mi ha sempre guardato con occhi diversi, lo so… ;-). Terzo pezzo: “Raining sperm (from her mouth)” (liberamente ispirato dal verso ‘raining blood from a lacerated sky’ degli Slayer). Il pezzo era quello più tipicamente hardcore del lotto, praticamente un riff alla Raw Power col ritornello in blast-beat e uno stacco con una chitarra distorta in levare che ricordava vagamente un pezzo ska con sotto la solita doppia cassa. Il testo, scritto a sei mani, era a proposito di una tipa che per un po’ aveva girato nella mia compagnia dell’epoca: decisamente al di là di ogni tentazione (alta 1,50 per 90 kg.), era un personaggio stupefacente per come raccontasse dettagliatamente a chiunque volesse starla a sentire le perversioni a cui si abbandonava col suo ex sardo, fra cui era immancabile il racconto dell’assemblaggio di un finto pene in cera dalle dimensioni ciclopiche (stile cero votivo, ho sempre immaginato) e dell’uso dello stesso con tutte le varianti del caso. Beh, il testo in pratica era già scritto, no? ;-) Il quarto pezzo è il nostro classico! “The count who scorn the cunt”. Questo inglese che non è mica tanto tale va inteso ai fini della traduzione dall’italiano de “Il conte che disdegna la figa”. Il testo (altro a sei mani) infatti era a proposito di un gay locale (che esiste realmente), da noi immaginato come conte proprietario di un castello in Costiera dei Cech. E come la contessa ungherese Elizabeth Bathory (tanto cara all’immaginario black metal) si immergeva in una vasca piena del sangue di giovani ragazze vergini per ottenere la vita eterna, il nostro conte faceva lo stesso nello sperma di giovani ragazzi vergini i quali poi, stroncati dalla fatica, morivano esausti mentre il nobile sarebbe vissuto eternamente. E’ il nostro unico pezzo che musicalmente vale davvero qualcosa. Apertura con riff roccioso alla Celtic Frost e prima strofa a tempo medio, poi stacchetto indefinibile e ritorno sul riffone; ritornello con giro nettamente alla Hellhammer, ripetizione del tutto e stacco acustico effettato alla Dissection su cui Renza con voce suadente racconta quello che succede nei bagni del castello, con crescendo finale in doppia cassa e le urla del conte che ha ottenuto la vita eterna; finale con ritorno sul riff frostiano dell’inizio. Il quinto pezzo era il cosiddetto “inno”. Ci vuole un pezzo omonimo, ci dicemmo, e in pochi minuti scrivemmo (sempre a sei mani) il testo di “Deflorator”, che si apriva con gli immortali versi “I’m the deflorator, the satanic penetrator, my sperm is cold, my lust is so old” (notare la chicca dello sperma gelido tipico dei demoni). Il brano era piuttosto corto, praticamente un riff hardcore che poi sfociava nel solito blast-beat e in un brevissimo stacco che a me dava sempre l’idea di un qualcosa di death metal floridiano! E’ interessante notare come fino a qui (e siamo nella primavera del ’97) lo stile del gruppo sia praticamente un hardcore molto scuro con parecchie influenze di quel black metal dei primordi e solo qualcosina che rimandi direttamente a quello con cui si intende più canonicamente il black (sia nel ’97 che oggi). Le cose cambiano col sesto pezzo, “Pure fucking analgeddon”, il cui titolo (ottenuto parafrasando “Pure fucking armageddon” dei Mayhem) venne coniato dal sottoscritto. Parecchi anni dopo vedrò su internet la copertina di un film porno americano (almeno, mi pare fosse statunitense) il cui titolo era esattamente questo… Posto che è un gioco di parole abbastanza semplice e quindi non è che ci possa arrivare solo io, però la prossima volta che invento un titolo lo registro a mio nome, e che cazzo, magari qualche royalty riesco ad ottenerla ;-). Comunque, tornando al pezzo, il testo qui non c’è mai stato, nessuno (io in primis) si prese mai la briga di scriverlo, ma la suonammo lo stesso anche live con Lord D. che vocalizzava fonemi (tanto si sa che in questi generi va bene anche fare così, sono molti i gruppi che in pratica non hanno testi, ma solo titoli, specialmente death, black e grind bands minori). Musicalmente il pezzo si basava su un riff principale molto black-thrash col solito ritornello in blast-beat, ma di ispirazione più black stavolta e meno ultracore e poi c’era il finale di nettissima ispirazione Mayhem con la partenza di sola chitarra col classico riffone a tre note tenute ognuna lunghissima per poi finalmente far entrare la sezione ritmica con un blast-beat che si protraeva fino alla fine del brano. E fino qui i pezzi che avremmo proposto in concerto. Questi più le covers: “The freezing moon” dei Mayhem, “Lussuriosa” dei tiranesi Sagatrakavashen (tributo all’unica black band della valle venuta prima di noi e di cui ci facemmo mandare il testo via lettera da Ugo Scarsi!) e quella dei Disrupt tenuta per motivi affettivi (essendo stato il primo pezzo mai provato assieme). Tentativi in sala prove di coverizzare altri brani come “The horny and the horned” degli Impaled Nazarene, “Impotence” dei Bulldozer e “Sex, drinks & Metal” dei Sarcofago (noterete i titoli decisamente in linea con le tematiche dei Deflorator), non andarono mai al di là di qualche abbozzo dei pezzi in questione, mentre la mia idea di rifare in versione black metal “6669” dei Coven (un’ironica band power-thrash metal di Seattle della seconda metà degli anni ottanta), il cui testo sembrava essere stato scritto apposta per noi Deflorator (parlava, in maniera volutamente esagerata, di fare un (66)69 col cadavere di una vergine cristiana diventata schiava di Satana…) non raggiunse nemmeno la soglia del tentativo. Con l’inizio dell’estate ampliammo i ranghi inserendo una seconda chitarra. Il prescelto, che a dire il vero si propose da solo e che io non avrei nemmeno voluto (vedevo i Deflorator un power-trio, come i Venom o i Sodom e i Destruction dei tempi d’oro), ma gli altri due sì, fu il solito Alex (per cui adesso avevamo anche un nome storico del death metal locale in formazione, eh eh). Alex rimase con noi lo spazio di un paio di mesi (non ebbe neanche l’onore di uno pseudonimo), riuscendo però a suonare nell’unica apparizione live della storia dei Deflorator. In quegli anni nelle montagne valchiavennasche i ragazzi del Circolo La Valle di Chiavenna organizzavano verso la fine di agosto un “free-festival” in una località boschiva in culo ai lupi, dal nome di Corteterza in Val Bodengo. Io e Alex ci avevamo suonato l’anno prima con gli Eternit ed eravamo stati invitati come tali anche in questo 1997, l’occasione di proporre anche i Deflorator era troppo ghiotta e non ce la lasciammo scappare: figurarsi, un live in un bosco di montagna, quale esordio migliore per una black band? E così iniziammo i preparativi, volevamo qualcosa che rimanesse nella mente dei presenti anche dopo che fosse passato del tempo dal concerto, per cui era giunto il momento di scegliere il look. Io odiavo tutti quei gruppi black metal (specie italiani) che stavano uscendo in quel periodo, col look impeccabile in pelle nera che vedevi lontano cento chilometri che erano abitini di scena comprati cinque minuti prima, tutti lindi e puliti. Per i Deflorator volevo quel look “sporco” delle prime black metal bands, quelle coi giubbotti di pelle rovinati, le giacche di jeans stinte e piene di toppe, le magliette dei gruppi preferiti indossate fino allo sbrindellamento, i jeans sporchi di fango, insomma quella versione un po’ “crust” del black metal. E poi niente face-painting bianco e nero (cosa siamo? La Juve?? …in quegli anni di Triade e doping, poi), ma i soli occhi cerchiati di nero, come i primi Celtic Frost! Il trucco lo comprai io in un supermercato e ricordo che alla cassa sentii il bisogno di giustificarmi con la vecchia cassiera dicendo ‘beh, non è per me, chiaramente’ e lei mi sorrise sarcasticamente come a dire ‘sì, certo, come no!’… Preparammo anche un manifestino (quello da cui è tratto il logo della band), che recava, fra i vari deliri, la dicitura Hardcore Nero (puro male non musica), come definizione del gruppo. Su quel palco salimmo con le seguenti magliette: Bathory (io), Mayhem (Sapo), Kreator (Alex), neutramente nera (Renza). Truccati dalla Barbara di Morbegno, fra i capelli cortissimi dei tre davanti e la croce rovesciata sulla fronte dell’Alex, sembravamo una versione anoressica dei canadesi Blasphemy! Lord Deflorator poi sfoggiava una cartucciera, ma non quella classica dei gruppi metal coi proiettili delle mitragliatrici militari, no, una cartucciera da caccia di mio padre riempita di bossoli di normale cartucce da caccia a piuma! La sera prima avevo inchiodato assieme due assi in legno da cantiere per ottenere una croce rovesciata: il nostro concerto iniziò con un incappucciato Ciccio (futuro chitarrista dei RedBloodHands) che reggeva la croce, mentre il Malge e il Tommo (all’epoca batterista dei Poxvirus), altrettanto incappucciati, reggevano un lenzuolo a nascondere la band. Purtroppo l’intro che volevamo far mettere (quello del demo dei Profanatum di Lecco, composizione classica, nel senso di musica classica, del loro leader Ghiulz) incontrò qualche problema con l’impianto e dovemmo accontentarci di partire in quarta con “The morbid ragù of Satan”, mentre i tre figuranti prendevano la croce e la piazzavano (ovviamente rovesciata) al centro del falò che stava bruciando nel prato antistante il palco, mandandola presto in fiamme: black meeeeetaaaaaaal !!!! ;-) La gente guardava fra l’allibito e il curioso: non era il solito concerto a cui si era abituati in Valchiavenna, dove, secondo la teoria per la quale in certe lande il tempo scorre più lentamente rispetto al resto del mondo, musicalmente/concertisticamente era come se si fosse ancora nel 1968! Noi sciorinavamo un pezzo dopo l’altro senza pause e senza annunciare né presentare nulla; la scaletta era quella dell’ordine di composizione dei pezzi (vedi quindi sopra), con le covers alla fine. Solo prima di “The freezing moon” Lord Deflorator declamò la classica frasetta di Dead: ‘when it’s dark and when it’s cold the freezing moon can obsess yoooouuuuu’. Non suonammo benissimo (ricordo invece che facemmo un’ultima prova la mattina nella sala prove degli Eternit ed eravamo stati devastanti), ma riscuotemmo un certo successo, con gente mai vista prima che veniva a conoscerci, soprattutto stupita, più che altro. Del post-concerto ho il ricordo del rientro in cui eravamo io, il Sapo e le due sorelle Quaini. Ci fermammo a bere qualcosa allo Yellow & Green di San Cassiano e io notai che ci stavano guardando tutti…non capivo il perchè, finchè una delle due ragazze mi sussurrò ‘guarda che non vi siete struccati bene e sembra che abbiate il fondotinta, per quello vi stanno guardando!’. Segue precipitosa fuga nei bagni del locale e veloce struccamento! L’ultimo pezzo dei Deflorator (autunno ’97) fu un brano decisamente epico a cominciare dal titolo, lunghissimo in pieno stile Bal-Sagoth (band inglese nota per i titoli interminabili): “…And the sulphur fog shall arise from the Tiranehan Lowlands, when the obscure king urges on his demonic troops for the endless battle against the infidel forces of Ckahrrthah”. Il testo, anche questo scritto a sei mani, trattava dell’ipotetica lotta fra le altrettanto ipotetiche armate dell’Imperatore Nero dell’Alta Valle (praticamente Ugo Scarsi, baluardo del black metal old school) e quelle di un tipo del sondriese (che si atteggiava a sotuttoio del death/black metal, quando in realtà probabilmente se gli dicevi anche solo ‘Sarcofago’ ti avrebbe guardato come se avessi parlato in aramaico). La storia finisce con il falso che commette suicidio tagliandosi la gola davanti al trono dell’imperatore, riconoscendo così la superiorità della vecchia scuola (fra l’altro quel tipo sono anni che non lo vedo in giro né ne sento più parlare, il Black Emperor è ancora fra noi attivo più che mai). Per una volta avevamo un testo che non parlava di sesso deviato! Musicalmente il pezzo si apriva con un epicissimo intro alla Satyricon di “The shadowthrone” con rullate di tom a corredo, per poi esplodere in un riff stavolta decisamente black metal norvegese, fra i suddetti Satyricon e gli Emperor di “In the nightside eclipse” (e qui sì, se mai l’avessimo registrata, le tastiere ci sarebbero andate di diritto) con poche variazioni sul tema durante il brano, tolto lo stacco in cui l’imperatore chiama a raccolta le truppe, che era giocato su di un ipnotico tempo medio. La mia idea era quella di incidere un Ep a 12” in vinile e avremmo dovuto registrarlo con un fonico/produttore d’eccezione, il Max degli Shadow’s Distress di Chiavenna (band dark/wave, credo anche fossero il primo gruppo di un certo livello e che si muovesse all’interno di certi giri, ad uscire dalla sonnolenta cittadina ai confini con la Svizzera. Fecero un paio di demo a metà anni novanta davvero mica male), che suonava anche il basso nei Pape Satan di Verceia e che suonerà coi Carillon Del Dolore (storico gruppo dark/post-punk/wave di Roma già attivo negli 80’s) negli anni duemila (ricordo che una notte vidi il Max a sorpresa in televisione sulla Rai in un programma in cui mostravano uno spezzone live dei Carillon). Purtroppo gli altri due persero progressivamente interesse nei Deflorator, anche perché tutti e tre suonavamo contemporaneamente in almeno altre due bands (ad esempio io e Renza stesso avevamo formato da poco i grinders Obbrobrio, vedi fra qualche riga) e il gruppo lentamente, ma inesorabilmente, si avviò verso la propria fine senza lasciare nulla ai posteri (escluse due rehearsal-tapes strumentali che non vi raccomando), se non il ricordo di quell’unico concerto boschivo, per chi c’era.
What’s that fuckin’ noise????
Gli Obbrobrio (li ho citati qualche riga fa) nacquero nel gennaio del 1998, l’idea fu da subito quella di un gruppo che avrebbe provato una volta ogni tanto e che in ogni occasione avrebbe registrato tutto quello che sarebbe stato improvvisato sul momento. Inizialmente l’indirizzo “musicale” doveva essere una via di mezzo fra l’hardcore dei Wretched e il noisecore degli Anal Cunt e la cosa si nota nella primissima prova dove, accanto a qualche scheggia di hardcore velocissimo e sconnesso (alla Wretched appunto) trovano spazio pezzi brevissimi e caotici di pochi secondi ispirati alla geniale band del Massachusetts dell’ora defunto Seth Putnam. La prima line-up comprendeva il solito Renza a voce e basso (ovviamente distorto), Rocco (di cui leggerete qualche scritto su questo numero) alla chitarra e il sottoscritto alla batteria (in doppia cassa o meglio doppio pedale). Il nome della band venne ideato dal duo Renza/Rocco (mi accorgo che, fra tutte le bands in cui ho suonato, ho creato le denominazioni dei soli Marones e Deflorator, non proprio due nomi spettacolari…). Testi naturalmente neanche a parlarne, Renza vocalizzava fonemi in stile grind/hardcore estremo, i titoli li avremmo ideati dopo. Per dare un’idea dell’amatorialità del tutto ricordo che a fine prova decidemmo di registrare un pezzo grind-rock’n’roll, cioè in pratica un classicissimo giro r’n’r a chitarra distortissima con sotto la doppia cassa e le voci fra il gutturale e l’isterico. Sì, le voci, perché a noi si unì un terzetto (Tommo, Malge e Teo) di amici presenti in sala prove (che era quella del primissimo Lokalino, quella nel seminterrato vicino al liceo artistico). Ricordo che durante l’esecuzione di questo lunghissimo (per i nostri standards, sarà durato 4 minuti) pezzo entrò in sala Reggy degli S.N.P. assieme ad un paio di ragazzi e tutti e tre strabuzzarono gli occhi davanti a quel macello, vero e proprio insulto a tecnica e decenza musicale. Shock the thrashers, ha ha! Chi vide quella tragica esibizione quel giorno non avrebbe certo mai pensato che uno dei tre vocalist, il più esagitato, il Tommo, qualche anno dopo sarebbe stato seduto allo stesso tavolo di Kofi Annan in quel di Ginevra! La seconda prova la effettuammo parecchi metri sottoterra, era il giugno di quell’anno, nella cantina della famiglia del Tommo stesso adibita a sala prove per vari gruppi fra cui i Poxvirus del proprietario. Per quell’occasione avremmo composto e registrato due pezzi ultracore per i quali avevo scritto i testi qualche giorno prima: “Prete bastardo” e “Macho muori!”, la prima ispirata da un prete che con scuse pretestuose aveva cacciato me ed alcuni ragazzi da un campo di calcetto oratoriale, la seconda ispirata dalla deleteria moda del machismo metal-hardcore che stava affermandosi fra troppi gruppi del periodo. Superfluo dire che la prima era un discreto concentrato di blasfemia e violenza verbale varia con accuse di supposta pedofilia e di razzismo ideologico nei confronti del prevosto di provincia in questione. Composti, provati e registrati in un paio d’ore, purtroppo di questi due pezzi non c’è più traccia, in questa versione almeno: la cassetta andò dispersa (forse perché non rimase in mano mia, vero miei due compagni di gruppo?) e fu un peccato perché il suono da oltretomba della cantina aveva dato una certa potenza quasi deathmetallara ai due brani. Ah, certo, registravamo sempre con un walkman a cassette o uno di quei ‘ghetto-blaster’ con le due piastre per i nastri. La terza prova la facemmo a settembre, stavolta nella sala prove di Novate Mezzola dove provavano i Pape Satan del Diego e dove un anno e mezzo dopo avrebbero mosso i primi passi i miei Gradinata Nord. In quell’occasione registrammo una dozzina di pezzi, fra cui due nuove versioni dei due dispersi, stavolta virando decisamente su sentieri Grindcore old school e non rinunciando a qualche variazione sul tema, tipo brani blueseggianti o ska con la voce gutturale, come uno dei gruppi che più ci ispirava, gli jugoslavi (croati) Patareni. Immancabili un paio di pezzi di uno o due secondi cad., ovviamente. La sala prove valchiavennasca, perfettamente isolata e ricavata nel piano terra di una vecchia stalla dai muri in sasso, ci diede, grazie anche all’ottima strumentazione presente (ampli e batteria), un suono davvero pieno e potente, sporco ovviamente e un po’ rimbombante, ma andava benissimo così! Un “best of” (…) dei pezzi di prima e terza prova andò a costituire il nostro lato della cassetta-split divisa coi Castr-Azione (terzetto morbegnese di ultracore wretchediano composto dagli stessi Rocco e Renza, rispettivamente a chitarra e batteria/voce, più il RomeFabio a voce e basso), uscita a fine ’98 per la Odio Alpino, l’etichettina gestita dal solito duo R & R. Tre pezzi (preceduti dall’ “Intro 666”, cioè qualche secondo dell’agghiacciante cover di “El diablo” dei Litfiba eseguita dagli Hot Diamonds, un duo piano-bar marito e moglie che provava al Lokalino. Una versione che se l’avesse sentita Piero Pelù avrebbe impalato lui e lei seduta stante) andarono su “Crash mandolino a.k.a. Il baco del millennio”, compilation su cassetta messa in piedi a fine ’99 da Marco di Zas! Autoproduzioni (e di Oulx, prov. di Torino). Per tutto il 1999 gli Obbrobrio non provarono, ma aggiunsero un quarto elemento alla formazione, cioè il Daddy 2.0 (quello degli Unabomber) al basso, mentre Renza avrebbe imbracciato anche la chitarra in modo di ingrossare il suono con le due “asce”: esperimento durato lo spazio di una prova (dopodichè Renza rimarrà dedito alla sola voce), quella di inizio gennaio 2000, sempre nella sala di Novate, che vide la composizione e registrazione di un altro buon numero di pezzi, fra cui un rallentatissimo doom-core nero come la pece. Alla fine della session ci fu spazio per un’ improvvisazione ultracore con intermezzi funky e l’ospite Diego (presente in saletta) alla voce; il pezzo, ribattezzato “Morbegno funkytown” (dalla hit funky/disco anni settanta di tali Lipps Inc., ‘Funkytown’ appunto, evergreen delle discoteche locali), apparirà poi su una compilation in cd-r di cui ho perso la copia (e quindi non ricordo né che titolo avesse, né in che paese fosse stata assemblata). Devo ricordare che, come da tradizione grind underground, sulla quasi totalità delle varie compilations in cui siamo apparsi giravano più o meno sempre gli stessi pezzi ai quali davamo di volta in volta un titolo differente (tanto i testi non c’erano). A luglio 2000 quinta prova degli Obbrobrio, ancora a Novate. Nella consueta dozzina di pezzi improvvisati e registrati quel sabato pomeriggio (prima di andare a fare il bagno al Lido della stessa Novate) ne abbiamo uno dall’intermezzo rappato, un altro molto metallico che sembra uscito da “Deathcrush” dei Mayhem, un altro ancora che ricorda i gruppi hardcore straight edge di marca ’88 (inteso come l’anno)…il tutto ovviamente con la voce grindeggiante di Renza e i suoni in tema. Devo far notare che tutti i nostri pezzi avevano una durata al massimo di 40 secondi, con qualche rara eccezione che arrivava al minuto scarso (jam-sessions escluse). Nel frattempo avevamo preso accordi col buon Borys Catelani (toscano di madre polacca, parafrasando il titolo di quel film di Nuti) per far uscire un 7”-split con la sua one-man band Disarm e avevamo deciso di registrare dodici pezzi scelti fra quelli composti fino al gennaio del 2000 (vennero esclusi quindi quelli estivi, che però finirono su varie compilations più avanti). Li avremmo dotati di titoli e testi e li avremmo incisi in maniera semi-professionale avvalendoci dei servigi del Buzzo e del suo studio-mobile. I testi li scrissi quasi tutti io, mentre un paio li vergò il Rocco. Le tematiche erano quelle abbastanza classiche di hardcore e grind, citerò titoli quali “Cago su Morbegno”, la già nota “Prete bastardo”, “Ultracore Ayran” (l’ayran è una terrificante bevanda turca a base di yogurt, acqua e sale, che io e il Renza avevamo scoperto in Germania) e il pezzo in finlandese dal lunghissimo titolo in linguaggio suomi appunto (era un mio testo volutamente pieno di luoghi comuni crust-hardcore-grind e l’avevo spedito al Marco affinchè me lo traducesse nell’incomprensibile idioma della terra dei mille laghi). Decidemmo anche di includere la cover di “Dio cane”, la ‘hit’ dei Castr-Azione (vedi sopra) e un tredicesimo pezzo-bonus preso direttamente dalla terza session ’98 (“Free Grind”, trenta secondi in cui ognuno suonava quel cazzo che gli pareva. Non risulta alla fine troppo dissimile dagli altri pezzi…). La session si svolse un sabato pomeriggio del gennaio 2001, sempre nella sala di Novate. Presenti noi quattro Obbrobrio più il Buzzo e il suo aiutante, il Prof. Botka (che suonerà il basso come ospite nello ska-grind ‘Dietro alle mode’). Il metodo di registrazione prevedeva che il gruppo prima ascoltasse il pezzo da incidere nella versione originale che stava su una vecchia cassetta e poi lo risuonasse al volo a memoria. Magari non veniva fuori identico alla prima versione, ma chissenefregava, andava benissimo lo stesso! I pezzi avevano tutti un testo, anche se Renza in alcuni li “cantava” davvero, mentre in altri vocalizzava e basta senza pronunciare parole con un senso compiuto. Registrammo anche qualche bonus, fra cui un medley di classici dei Nabat in versione semi-grind e una brevissima versione di ‘Everybody get up’, la hit della boy-band Five, vocalizzata grind, of course! In sede di mixaggio il Buzzo si divertì ad infilarci effetti elettronici qua e là, oltre a suonare delle tastiere indiscutibilmente black metal (quello sinfonico intendo) su un paio di pezzi. Per la copertina non abbiamo un’idea che sia una, abbiamo il titolo del nostro lato, cioè “Odore putrido di resti umani” (la traduzione paro-paro di “Putrid stench of human remains” dei death-metallers olandesi Gorefest, peraltro), abbiamo il logo disegnato dal Renza, ma cosa cavolo ci mettiamo su ‘sta cazzo di copertina?? Alla fine, una domenica pomeriggio, dopo almeno un’ora di idee provate e subito scartate, forse per esasperazione, al Renza viene in mente di piazzare il logo Obbrobrio al posto di quello dei Metallica sulla copertina del grandissimo “Master of puppets” in una foto trovata in rete (per i profani/e, trattasi di una copertina col disegno di un cimitero di guerra con le sue infinite croci bianche e in cielo le mani di un burattinaio che reggono dei fili collegati alle croci stesse). Ci guardiamo io, lui e il Rocco: è perfetto, cazzo! Anche il nostro titolo è abbastanza in tema. Allora ci viene in mente di prendere il vinile di quell’album dallo scaffale del Renza e di vedere com’è la foto della band. E quindi, nel foglio interno del nostro 7”-split, ecco noi quattro a scimmiottare i Metallica, col Daddy 2.0 accessoriato con un fiasco di vino al posto della bottiglia di birra tenuta in mano da Kirk Hammett, io e il Rocco che mostriamo i pugni all’obiettivo come Lars Ulrich e James Hetfield, e infine il Lorenzo che fa il ditone come il compianto Cliff Burton. All’inizio del disco decidiamo di mettere l’intro acustico di ‘Battery’ (primo pezzo di “Master of puppets”), accreditandolo come courtesy of Kirk Hammett: a tutt’oggi i Metallica non ci hanno ancora fatto causa per questa palese violazione di copyright ;-). Nel foglio, oltre alla foto, inseriamo anche testi, spiegazioni degli stessi e note varie. Il disco venne stampato a Roma da Satulli, stamperia borderline che ha prodotto tonnellate di vinile hardcore e dintorni italiano (la ditta chiuse dopo la morte del già anziano sig. Satulli, la cui pressa vinilica non si sa che fine abbia fatto e nei circoli musicali più underground girano mille leggende a riguardo!). Uscì per una serie di etichette italiche (ben otto, la classica coproduzione di massa) fra cui ovviamente la nostra La Fiera Dell’Odio e la Tetanus di Borys. Ci fu una prima tiratura di mille copie con la copertina in bianco e nero e poi una seconda (sempre in mille esemplari) con la copertina color seppia (coprodotta stavolta da dodici etichette, quasi tutte quelle della prima stampa più qualcuna nuova, fra cui una statunitense). Per la fiera del cattivo gusto (beh, dopo quella dell’odio…) il centrino del nostro lato del disco recava la foto di Dead dei Mayhem dopo il suicidio (la tristemente famosa foto scattata da Euronymous che aveva trovato il cadavere, infatti qui la foto la accreditiamo a lui, aggiungendo r.i.p. visto che pure Euro era poi passato a miglior vita…). Non mi dilungo sul lato Disarm, ma, come per tutte le cose in cui mette lo zampone Borys, trattasi di ottima musica, nella fattispecie Grind/Crust con batteria elettronica e testi intelligenti (sono usciti svariati altri dischi a firma Disarm nel tempo, guardatevi in giro!). La comunità Grindcore italiana (ed anche quella estera) accolse decisamente bene questo vinile, ci furono tantissime recensioni positive (va anche detto che nel giro grind la stragrande maggioranza dei fruitori è di bocca davvero buona!) e anche qualche richiesta di suonare dal vivo, cosa che avevamo però deciso non avremmo mai fatto (troppa fatica, avrebbe significato fare un sacco di prove per preparare un set con minimo una trentina dei nostri mini-brani, e poi ricordarceli tutti! Naaahhh!). Nel frattempo il Buzzo si dedicò al remix del nostro lato del 7” più un pezzo bonus (‘Macho muori!’, a voi già noto), una cosa un po’ sullo stile dei remix dei Fear Factory o, meglio, di quelli che i geniali sloveni Laibach fecero coi pezzi dei Morbid Angel. Vennero fuori una serie di brani in certi casi spettacolari: sullo scheletro degli originali il Buzzo aveva cucito una serie di effetti elettronici, tastiere, rumori vari, batterie elettroniche che si appaiavano alla mia, voci campionate, ecc.ecc.ecc. A queste nuove versioni io diedi dei nuovi titoli (in inglese). Menzionerò i miei due pezzi preferiti, “Turkish dance of the grinders” (cioè ‘Ultracore Ayran’ versione grind-dance con melodia orientaleggiante) e soprattutto la cover dei Castr-azione (diventata qui “Cursing your God by a possessed Britney Spears voice”) resa totalmente irriconoscibile e con una parte in cui Renza duetta con la voce campionata di Britney Spears, appunto! In quel periodo stavamo parlando con Jan Frederickx dei belgi Agathocles della possibilità di fare uno split fra noi e il suo progetto solista (grind-crust dai toni vagamente industrial) denominato Jan AG. Decidemmo quindi che il nostro lato sarebbe stato occupato dai remix più i pezzi registrati per il 7” (quelli finiti su vinile con in aggiunta la solita ‘Macho’), anche per guadagnare minutaggio e raggiungere così il tetto dei 29 pezzi presenti. L’idea era quella di uscire su tape, una sorta di album su cassetta stampato come si deve, con copertina patinata a colori e nastro professionale. Lo split l’avremmo fatto uscire su La Fiera Dell’Odio in 300 copie, duecento le avremmo distribuite noi e cento le avremmo spedite in Belgio a Jan (il quale, per i profani/e, è un nome di spicco del grindcore mondiale fin dalla fine degli anni ottanta e quindi avrebbe contribuito a diffondere il nome degli Obbrobrio anche fuori dai nostri consueti canali di distribuzione). La copertina (un po’ blasfema ma con classe!) mostrava una foto della stellina ceca del cinema hard Silvia Saint (s)vestita da suora e con due pistole in mano ed era un riferimento al Rocco e alla perquisizione che subì quando qualcuno ebbe la bella idea di fare il suo nome in relazione alla suora assassinata dalle tre ragazzine valchiavennasche (ovviamente il Rocco nulla c’entrava e manco conosceva le tre, però giocammo molto su questa storia inventando nomignoli tipo Barista Satanico o coniando la locuzione ‘nunslaughter death saw’ ad indicare la chitarra suonata dal nostro). Della stampa se ne occupò il mio vecchio amico Conco (batterista degli Atrox e di decine di altre bands), che per anni aveva lavorato nel campo della duplicazione dei supporti fonografici e quindi aveva i giusti agganci per farci avere un prodotto fatto bene e non troppo costoso. La cassetta uscì nell’aprile del 2002 e, visto il basso numero di copie stampate, andò esaurita in brevissimo tempo. Uscì come Obbrobrio featuring Joseph C (lo pseudonimo del Buzzo usato per uno dei suoi progetti elettronici e che sta per Joseph Curwen, personaggio di un racconto di H.P. Lovecraft), anche se nei credits compariva per la prima volta la line-up a sei, quella composta da: Lorenzo: blasphemic throat from the depths of Hades, Rocco: nunslaughter death saw, Joseph C: unholy synths & virtual main fx abominations, Marco: blower, bulldozer & deadly bassdose, Professor Botka: morbid fetishes, cockballs torture, lager exploitation, freaky bass lines, Claudio: hellhammers on wooden coffin. Noterete come noi quattro membri originali (o quasi) manteniamo i nostri nomi propri, al contrario dei due nuovi, e noterete soprattutto le descrizioni degli strumenti per le quali ci eravamo sbizzarriti nel più classico stile black/death. Idem dicasi per gran parte dei titoli che avevo dato ai remix (cito ‘The 69 candles of perversion’ o ‘A black rose for Don Fuhrer’s whore’), primo segnale dello spostamento degli Obbrobrio verso una sorta di bad taste-fun-satanic-black-grind che avrebbe dovuto contraddistinguere la futura direzione del gruppo, che stava inglobando lo spirito dei defunti Deflorator, filtrandolo però in un’ottica grindcore (che il black metal in quegli anni era ormai roba da trendies e posers ;-) !). Fra l’altro fu durante le lavorazioni sul nastro che il Buzzo (assieme al Professore) era entrato nel gruppo come membro fisso (dedito a tastiere ed effetti vari), prendendo successivamente il nomignolo di Emperor Buzzo (ispirato da King Buzzo dei Melvins, gli yankees avranno avuto anche il re, ma noi avevamo l’imperatore ;-) !). Nel 2003 uscì l’ultima testimonianza su disco degli Obbrobrio, un pezzo clamorosamente lungo (circa quattro minuti) che in realtà era stato composto ed inciso dal solo Buzzo campionando la voce e i vari strumenti (sempre dalle famose registrazioni per il 7”-split) e rimontando il tutto con l’aggiunta di nuove chitarre, nuove voci e un po’ di batteria elettronica, più i campionamenti presi dal trailer del primo film di Batman (quello degli anni ’60 interpretato da Adam West). Il brano si intitolava “Picchi poeta, merda concreta” ed era ‘dedicato’, cito Buzzo stesso: ”ad un professore dedito alla poesia contemporanea più sconclusionata, composta da frasi fatte e banalissimi accostamenti (non cuore/amore, ma poco ci mancava), nonché alla carne giovane di studentessa, con tanto di poesie dedicate alle giovini fanciulle con cui pare ci provasse neanche tanto velatamente…”. Uscì sul cd-compilation “The saw is the law” (grande titolo preso dall’altrettanto grande pezzo dei Sodom), realizzato da un ragazzo toscano di cui presto persi l’e-mail, per cui non so se questo cd sia mai uscito in maniera ufficiale o meno; a me è rimasto un master, idem all’altro gruppo locale presente (i RedBloodHands). Se, come credo, non è mai uscito ufficialmente, è stato un peccato visto che il cd raggruppava la crème del Grindcore italico (più qualche band Crust e Hardcore) dei primissimi anni del duemila (Comrades, Cripple Bastards, Grimness, Disarm, Shears, più Arturo, Disprezzo e Downright in ambito hc/crust). Fino al 2005 almeno uscirono alcune compilations in giro per il mondo recanti alcuni pezzi degli Obbrobrio; io sono parecchio affezionato a un cd a 3” uscito per un’etichettina americana dell’Illinois (la My Lai), proprio per l’inusuale formato (trattasi per la cronaca di un 4-way split con fra gli altri i discretamente famosi, nel giro, Fuck The Facts). La band degli Obbrobrio è ferma da dieci anni ormai, ma non è mai stata ufficialmente sciolta, anzi, prima o poi riusciremo a ritrovarci tutti e sei nello stesso momento in una saletta e a registrare un paio d’ore di bordello con cui ammorbare il mondo grindcore per almeno un altro paio di lustri! Garantito!