Concerti, spettacoli, trasferte e gite fuori porta a cui il vostro redattore è stato presente, dal 2002 al 2012.

Su un numero di “Stewey’s Star”, fanzine pescarese dei primissimi anni duemila (grafica strepitosa e ottimi contenuti, peccato solo fosse scritta con caratteri meno che minuscoli e che ogni tanto venisse usato un italiano troppo forbito per gli ignorantacci come il sottoscritto!), ricordo che venivano sbeffeggiati i resoconti dei concerti che affollavano le fanze all’epoca (e suppongo anche adesso) usando una specie di racconto preconfezionato in cui l’io narrante, i vari personaggi di contorno e i gruppi che suonano, hanno a disposizione quattro/cinque opzioni cadauno per lo svolgimento della serata: tu lettore barri quelle che più preferisci ed ecco fatto il report del concerto. Oddio, in un certo senso Giordano (il redattore della ‘zine in questione) aveva ragione, ho letto pacchi di reports riconducibili allo schema succitato, e pure io ne ho scritti e ne scrivo di simili, ed è vero, alla fine si assomigliano tutti. Lo sbeffeggiamento si concludeva chiedendosi cosa potesse fregarne ai lettori delle gesta degli amici dello scrivente. Ebbene, personalmente qui mi permetto di dissentire. In anni e anni di lettura di fanze e di reportages vari, gente che non conosco né ho mai visto come i vari Soda, Musso, Marzio e tutta la banda del torinese immortalata sulle “aBbestia!” del Pomini, i ragazzi di un’Alessandria di fine anni ottanta/primi novanta presenti sulle pagine degli scritti del Valentini, i vari amici del Basetta di “Oriental Beat” (qualcuno lo conosco di persona, ma altri no, come il Porna, un tipo brianzolo/milanese peraltro parecchio presente sulle fanze di quell’area), gli hardcorers romani della prima ora di cui narravano Petralia & Moscarelli, ecc. sono come dei personaggi di un libro a cui in un certo modo mi sono affezionato. Io quando scrivo una recensione di un concerto, in un certo senso sto scrivendo delle pagine del libro della mia vita e quindi, per forza di cose, nei reports (non solo di concerti) che seguono incontrerete parecchi nomi (alcuni già noti ai lettori di questa fanza, altri no), non so se vi ci affezionerete o se non ve ne fregherà nulla, ma tant’è… Oltre a questo, a me piace anche essere nozionistico (esagerando a volte!), spesso indico e specifico che il tal suonava con questi o faceva quello ecc. perché per anni leggevo nomi a me sconosciuti e mi chiedevo e chi cazzo è/sono? Cosa fa/fanno? E mica c’era l’internet per cercare! E allora tento di far orientare un po’ i miei lettori, beninteso quelli/e con un minimo di infarinatura riguardo ai temi trattati.

 

HANOI ROCKS – Milano, Transilvania, 22 Novembre 2002
Gli Hanoi Rocks sono una mia passione da sempre, o meglio dall’autunno ’87, quando “HM!” (la rivista quindicinale dell’epoca, dedicata ad heavy metal e dintorni) ne tracciò una breve retrospettiva (si erano sciolti un paio d’anni prima) che intrigò non poco la mia contorta ed eccitabile mente adolescenziale (soprattutto la parte in cui si parlava di “…donne che aprono con una certa facilità le gambe, storie di amori adolescenziali sporchi e proibiti…”); musicalmente però dovetti aspettare esattamente un anno, quando al DiscoTris (negozio di dischi colichese -!!-, che in quanto tale prevedibilmente avrebbe chiuso da lì a un paio di lustri dopo un paio di cambi di gestione; all’epoca il negozio era in mano al Walter, ora assicuratore e che mantiene il sottoscritto come cliente nonostante il passaggio dai vinili alle assicurazioni di auto e camion!), mentre spulciavo fra le offerte, mi saltò fuori una copia di “Bangkok shocks Saigon shakes Hanoi Rocks” (primo lp del gruppo datato ‘81) che, incuriosito, acquistai per sole settemila lire (un altro acquistone che feci lì fu “Land speed record” degli Hüsker Dü, preso qualche mese prima a ottomila lire, non credo sia la primissima stampa, ma sicuramente è la seconda). Il disco mi piacque subito; sebbene mi nutrissi principalmente già da un bel po’ di Thrash ed Hardcore, non avevo mai smesso di ascoltare forme musicali meno estreme, quindi anche la mistura a presa rapida di Glam, Punk e Rock’n’Roll dei cinque finlandesi (in realtà, almeno su questo album, tre finnici, uno zingaro comunque di nazionalità suomi e un mezzo svedese/mezzo turco, con la band all’epoca di stanza a Stoccolma) potè trovare terreno fertile sul piatto del mio stereo e in quella memorabile stagione 88/89 (memorabile per il tredicesimo scudetto nerazzurro, quello dei record col Trap alla guida) “Bangkok shocks…” fece scendere innumerevoli volte la puntina sui solchi! Questo disco però rimase per anni l’unico lavoro degli Hanoi Rocks in mio possesso, vuoi perché non mi imbattevo in loro dischi, vuoi per la pigrizia di doverli cercare, vuoi perché i miei interessi primari erano rivolti verso Hardcore e Metal estremo, fatto sta che riuscii ad aggiungerne un paio alla mia collezione solo a fine ’97, quando l’allora collega di fanza Marco, da poco trasferito in Finlandia, mi portò come regalo natalizio i vinili di “Back to mystery city” (’83) e “Two steps from the move” (’84). Negli anni susseguenti ho poi completato la nutrita discografia dei nostri con altri vinili, cd originali, cassette duplicate e cd masterizzati dal Bassman (grandissimo Hanoi fan). Dicevamo, Hanoi Rocks scioltisi nell’85, quando da anni si erano accasati a Londra e dopo la morte del batterista inglese Razzle in un incidente d’auto in quel di Los Angeles causato da Vince Neil dei Motley Crüe, nonostante qualche tentativo di rimettere in piedi la band con Terry “Tory Crimes” Chimes alla batteria (che, fra gli altri, nel ’77 suonò sullo storico “The Clash” della band omonima e a fine anni ottanta in una delle mille incarnazioni dei Black Sabbath post-Ozzy). Nel 2001 però, dopo una quindicina di anni di progetti solisti, gruppi comprendenti almeno due ex-membri, collaborazioni varie, ecc.ecc., Michael Monroe (al secolo Matti Fagerholm) e lo zingaro Andy McCoy (al secolo Antti Hulkko) portano in tour gli Hanoi Revisited, cioè loro due più tre session-men, a rifare i classici della storia del gruppo. Da lì a poco gli Hanoi Revisited si trasformano nei redivivi Hanoi Rocks (purtroppo con soli 2/5 della formazione originale, gli altri sono ancora dei session-men, stavolta integrati nella line-up ufficiale), vanno in tour europeo e a fine 2002 (poco dopo il concerto che sto per recensirvi) arriva un album nuovo. Saputo di un paio di date italiane (paese dove credo non avessero mai suonato prima), io e il Bassman non possiamo certo mancare! Reclutiamo Alex (che chi legge “Nessuno Schema” da sempre dovrebbe ormai conoscere perfettamente, comunque diciamo che, fra le altre cose, è uno dei chitarristi dei Gradinata Nord) e BongoBongio (non ancora all’epoca, non più ora, ma per qualche anno cantante dei ‘toydollsiani’ punk-rockers valtellinesi Wombat Kombat –nota 2013) e arriviamo sul posto alle 20.30 dove ci sono già un centinaio di persone di varia estrazione metal/punk; niente ragazzini però e già questo mi/ci mette di buon umore! Spiccano alcuni glamsters modello anni ottanta, con tutto l’armamentario rossetto/capello cotonato/trucco/spandex/ecc. Entriamo, dopo un’estorsione di 18,00 euro (altro che i 10,00 paventati dal Basetta –sì, il redattore capo di “Oriental beat” fanzine, nome peraltro mutuato proprio da un album degli Hanoi Rocks) e una coda alla biglietteria in cui dietro di noi c’è uno spettacolare omosessuale incallito che racconta ad un amico le proprie evoluzioni sessuali col suo nuovo tipo! Dentro il posto non è malvagio, pensavo decisamente peggio, e presto si riempie di gente (intanto incontro il succitato Basetta, accompagnato da un buon numero di elementi fra amici e cugini) e inizio a vedere glamsters a iosa e un discreto numero di troione vestite da zoccole (scusate l’uscita poco politically correct e molto maschilista, ma è quella che rende meglio l’idea!): mi sembra di essere al Troubadour o al Cathouse a Los Angeles nell’86 (non che ci sia mai stato, diciamo come mi sono sempre immaginato fossero quei due clubs ai tempi d’oro)! Musica diffusa rigorosamente Glam e Hard Rock commerciale: Warrant, Faster Pussycat, Skid Row e Kiss (gravissima la mancanza di brani dei Motley Crüe! Ignorati anche gli Hanoi Rocks), e poi svariati pezzi a noi quattro totalmente ignoti… Alcune canzoni erano cantate a gran voce da metà audience, quindi erano evidentemente dei sicuri classici del genere… Un tipo vestito clamorosamente come Renato Zero le conosceva tutte! Presenti anche alcuni punkrockers brianzoli che fino a ieri erano solo Queers e Screeching Weasel, e adesso che hanno scoperto il Rock’n’Roll si atteggiano a vissutoni del genere…mah?! Ci sono anche tipi dal capello corto o rasato, rockers vari, ecc.ecc. un bel melting-pot dall’età media abbastanza alta, considerando i concerti che sono solito frequentare (col picco del Music People -o come si chiama adesso- dove vedi gente che secondo me non arriva neanche alla doppia cifra in fatto di età!). Parte il gruppo spalla, in realtà tale Jany James da Parma con la sua backing-band. Pollice verso per il look (a parte proprio Jany, cantante-sosia di Tyla dei Dogs d’Amour): chitarrista solista fighetto con camicia bianca alla Eddie Van Halen e capello corto e ben pettinato, chitarrista ritmico capellone, ma con maglietta University…qualcosa che sembrava più da gruppo hardcore melodico/pop-punk, bassista molto tamarro con maglietta senza maniche e capello legato alla Gene Simmons (ma senza il trucco del bassplayer dei Kiss), batterista decisamente fuori luogo dato che sembrava un death-metaller. Partono senza mai dire come si chiamano, mossa quantomeno sciocca: visto che hai il posto di spalla agli Hanoi Rocks e che tutti sono qua per loro e non certo per te, la logica suggerirebbe di far entrare nella testa dei presenti il nome del tuo gruppo a suon di ripetizioni, che alla fine magari una decina di persone riesci a catturarle. Subito fanno tre pezzi molto rock’n’rolleggianti, ma si capisce che senza quei suoni e quei volumi non farebbero poi ‘sta gran figura (gli Hanoi suoneranno a volumi molto più bassi!). Suonano bene, sono orecchiabili, ma non basta, viste le latenti orginalità e personalità e la scarsa presenza scenica (cantante a parte, ma se lo confronto con Michael Monroe che verrà dopo…); hanno pure l’idea di legare tre ballate (o quasi) di fila con effetto coglioni rotolanti (i miei e quelli di molti altri presenti)… Chiudono con la cover di “Sex party” dei Quireboys cantata a gran voce dal pubblico (eh bè, quello degli inglesotti resta sempre un gran bel pezzone!). Alla fin fine comunque una sufficienza stiracchiata tutto sommato se la meritano, dai. Finalmente Hanoi Rocks! Arrivano il session-tastierista (un orrido panzone barbuto con gilet di pelle, elemento piuttosto inutile visto che stava quasi fuori palco e le tastiere non si sentivano), il chitarrista nuovo (abbondantemente quarantenne, giacca leopardata e capello lungo nero con frangetta davanti, una specie di incrocio fra il tremendo mullet e l’hair-style da hairband degli 80’s: raccapricciante! Notiamo che prima del concerto era vicino a noi fuori dal locale a telefonare e pensavamo fosse uno dei roadies…), il bassista nuovo (dal look molto alla Nikki Sixx dei Crüe, anche lui sui quaranta e più), il batterista (bruttarello, capello lungo, altro bel tomo non troppo giovane e con un look leopardato a farlo sembrare quasi una sorta di Maurizia Paradiso del nordeuropa!) e, accompagnato da un roadie e da un addetto al palco, Andy McCoy! Lo sorreggono e noi pensiamo che il chitarrista-zingaro sia già talmente fuori da non poter suonare o quasi (pare che scenette come questa fossero all’ordine del giorno nei suoi periodi solisti e/o con vari gruppi estemporanei)! Invece lo fanno sedere e capiamo che ha una gamba rotta o giù di lì (noi eravamo in quarta/quinta fila davanti al palco, ma vedevamo chi suonava dalla cintola in su, causa soliti personaggi-cestisti che ci impallavano!), come spiegherà poi Monroe; McCoy sfoggia un cappellone stile il compianto bluesman Stevie Ray Vaughan, una camicia multicolore e occhiali scuri: tremendamente zingaro, rovinatissimo (anche se pensavo peggio!), sorriso perenne. Parte un intro e alla fine dello stesso entra Michelino Monroe: tutina aderente a pois, boa rosa fucsia e cappello (tipo feluca!). Truccatissimo. E cambierà almeno cinque abitini in stile durante il concerto! Visto dal vivo Michael fa una certa impressione, nel senso che, pur segnato da anni di lifestyle rock’n’roll e da eventi luttuosi (l’ancora recente morte della moglie), resta sempre bello, ma androgino, una via di mezzo fra un bell’uomo e un travesta, ma di quelli carini: brrrr, non è roba per me! ;-) (per dovere di cronaca va detto che Monroe e McCoy come età sono ancora relativamente giovani, nati entrambi nel ’62 hanno quindi quarant’anni)! Parte una serie di hits da paura! Ci sono quasi tutte: “Motorvatin”, “Highschool”, “Malibu beach nightmare”, “Tragedy”, “Oriental beat”, “Until I get you”, la cover dei Creedence Clearwater Revival “Up around the bend” (con tuffo di Micheletto nella folla), ecc.ecc. Un solo pezzo nuovo, il singolo in uscita “People like me” (“…radio and Mtv you need people like me…”, dal testo decisamente ironico ed auto-ironico). Presenza scenica impressionante, simpatici, tamarrissimi (acqua sulle pelli della batteria, per esempio, da sempre indice di elevata tamarraggine! E difatti lo faremo pure noi Gradinata in un concerto locale di qualche mese dopo); non suonano moltissimo e finiscono dopo tre bis. Post-concerto breve (per noi, con l’Alex che alle 6.00 del giorno dopo iniziava a lavorare), in strada becchiamo un roadie e il bassista, scambiamo quattro battute in un inglese (il nostro) maccheronico (anzi, pizzoccheronico!), chiediamo anche se hanno magliette, ma non ne dispongono, anzi proprio niente merchandise…e intanto noto il loro furgone (targa italiana comunque) che sta in piedi per miracolo! Ci concediamo una veloce pizza in una pizzeria vicino a dove abbiamo parcheggiato e ce ne torniamo in su con Bassman che, unto dal Rock’n’Roll, delira e sciorina perle di saggezza fino a casa!

 

PRETTY BOY FLOYD – Milano, Transilvania, 14 Febbraio 2003
Dico subito che prima del concerto in questione dei Pretty Boy Floyd conoscevo solo l’esordio “Leather boyz with eletric toyz” (dell’89), che avevo su una vecchia cassetta duplicata, ma dico anche che quel disco è davvero, per usare un termine tecnico e da addetti ai lavori, una figata! Quindi la trasferta mediolanense per questo ritorno sulle scene della band ci può e ci deve stare! Partiamo alle 19.00, l’autista è il Bassman, i passeggeri io, il solito Bongo-Bongio e il Ronco (amico dei miei due compagni di viaggio), poi in stazione a Lecco recuperiamo la Lia (al tempo morosa del suddetto Bassman) di ritorno da Pavia (lo so, c’è una rima che sta pure male…) e in sostituzione dell’Alex, che ha declinato l’invito dato che gli toccava la chiusura all’Iperal (il mega centro commerciale dove lavorava all’epoca dei fatti). Per le 20.30 siamo al Transilvania e subito noto che c’è pochissima gente, la metà o meno di quella che c’era agli Hanoi Rocks. Noi ci mettiamo in coda e, mentre aspettiamo che aprano i portoni, ecco la scena che mi rimborsa già ampiamente dei soldi che ancora devo spendere per entrare: arriva una compagnia mista di un sette o otto glamsters in fondo alla quale c’è una ragazzotta grassoccia dai capelli a caschetto e con dei tacchi a spillo altissimi; appena superato il cancello Miss Bonza perde l’equilibrio, scivolando malamente e violentemente a terra! Si rialza, fa due passi e ri-inciampa nuovamente, si rialza e cade ancora, il tutto in dieci metri di strada massimo! Io, Bongio, Ronco e Lia siamo in delirio, ma un serio Bassman se ne esce con un “I signori non commentano”; io (che, adattando la Loredana nazionale, “non sono un signore”) invece commento eccome per almeno cinque minuti fino a che si entra. Mi aspettavo 18,00 euro come agli Hanoi Rocks, invece sono “solo” 13,00, meglio così. Sul palco c’è già un gruppo, pare siano tali Smelly Bogz (così mi disse via mail il Basetta giorni fa. Basetta per la cronaca assente), pare toscani e pare guidati (fonte sempre Basetta) da un ex chitarrista dei (mi tocco!) DeathSS (quelli più recenti, non quelli storici ovviamente); la band visivamente è tremenda: l’ex DeathSS capellone e vestito interamente in pelle, sboronissimo e anche bravo in effetti; il cantante ha un aspetto da manovale bergamasco: jeans, torso nudo, occhiali scuri, capelli corti e cappello (nostalgicamente mi ha ricordato Mr. P, voce del mio primissimo gruppo, i Marones); bassista con capello e maglietta da gruppo (molto)pop-(poco)punk (tipo Good Charlotte per intenderci), ma con pantaloni di pelle (un abbinamento tipo minestra e gelato di fragole); batterista davvero brutto, un massiccio capellone ricciolone che dopo aver suonato girava per il locale in gonna (ed era femmineo tanto quanto Bud Spencer)… Musicalmente fanno una specie di Hard Rock glameggiante, con inattesa cover (versione così così comunque) di “Dead, jail or rock’n’roll” di Michael Monroe versione solista. Sono ascoltabili, ma vediamo solo gli ultimi quattro o cinque pezzi e aggiungerei fortunatamente! In attesa dei Pretty Boy Floyd (nome peraltro grandioso, era il soprannome di un famoso rapinatore di banche statunitense degli anni venti/trenta) giro un po’ il locale: è mezzo pieno, ma quindi anche mezzo vuoto… e, come rileva abbastanza acutamente il Bassman, anche i glamsters non sono così imbellettati come agli Hanoi e, sempre rispetto a quel concerto di tre mesi prima, c’è aria di serata non indimenticabile… Rimangono degni di nota una tipa con berretto da sbirro alla batterista dei Poison (però Papo, tu che sei “macchinista ferroviere” -citazione Gucciniana ad hoc!-, perché non mi porti quello da ferroviere/capostazione, rosso con fascia oro?! Che al prossimo concerto dei Gradinata lo metto), un sosia di Vince Neil (di adesso però: in pratica Serse Cosmi con parrucca bionda e bandana…), due o tre figone, parecchie cesse gothic/glam, metallari assortiti, rockers dal southern u.s. allo scandinavo dei 90’s… In tutto questo presepe vivente non ho visto una faccia conosciuta comunque. Fra l’altro oggi è anche il famigerato giorno di San Valentino e mi ritrovo nel cellulare ben (considerati i miei standards…) quattro sms di auguri da parte di altrettante tipe, chiaramente appartenenti alla categoria delle “non più toccabili” o direttamente a quella delle “non toccabili” proprio (almeno da me)! Mi sento un po’ come Paolo Villaggio/Fantozzi quando il professor Birkenmaier dell’Università di Jena gli mette le “polpette di Bafaria” sotto il naso e poi, dopo aver sentenziato “peccato tu non puole manciare” gliele fa sparire. mangiandosele lui. Ma adesso finalmente, introdotti da un figuro che sale sul palco a berciare il classico “from Los Angeles, California ecc.ecc.ecc. Pretty Boy Floooooyyyd!!!”, i quattro guadagnano lo stage: credo che dai tempi del succitato primo album di fine 80’s sia rimasto solo il cantante, Steve “Sex” Summers (certo che ha ragione il buon Guccini, già citato poche righe più su, “gli americani ci fregano con la lingua”…Stefano “Sesso” Estati, magari da Sant’Angelo Lodigiano, ma fatemi il piacere! E lo stesso si potrebbe dire per Nerino Senzalegge, versione tricolore di Blackie Lawless degli W.a.s.p.). “Sesso” si presenta con berrettona da grunger (quei “berrettoni che assomigliano a goldoni” per citare un pezzo di una grandissima ska-core band morbegnese di metà anni novanta), maglia nera, jeans e labbra tinte di nero: secondo Bassman un look alla Kid Rock, secondo me un look da idiota (due opinioni comunque decisamente convergenti!). Purtroppo suonano a una sola chitarra perchè l’altro chitarrista è in tour con gli altri redivivi Faster Pussycat; dico purtroppo perchè stando al sito web Metal Sludge (sito ammerigano fichissimo, a metà fra la notizia e la presa per il culo della scena metal/hard rock più commerciale) il tipo faceva lo “stunt-cock” (quelli inquadrati solo dalla vita in giù, suppongo per aggiungere minutaggio alle scene) nel cinema porno e quindi era già un mio idolo! Il bassista è talmente truccato da donna che denota una sorprendente somiglianza con l’Annalisa di Morbegno (quella la cui famiglia gestiva l’Arci locale, per intenderci con lettori e lettrici della zona, e anche eventualmente con l’interessata), gran bella ragazza lei, ma così imbellettato il tipo era quasi più bello dell’Anna! Risulterà essere abbastanza idiota pure lui, nonostante nelle movenze da palcoscenico risulti una via di mezzo fra Nikki Sixx e Dee Dee Ramone. Batterista abbastanza anonimo, idem il chitarrista (peraltro un sosia del Re del Glam dell’Alta Valle, Ugo “Pentacolar” Scarsi da Tirano, già Imperatore Nero sempre dell’Alta Valle). Iniziano a suonare e va detto che hanno parecchi pezzi davvero fighi, altrochè! Il loro marchio di fabbrica che combina dei cori super-trascinanti con delle partiture melodiche, ma sufficientemente dure, è davvero coinvolgente. Solo che mi sparano due ballads tritamaroni in rapida successione e alla fine fanno due brani in quasi mezzora condendo il tutto con gags e cazzate varie di cui ovviamente io ho capito il 5%… in detto calderone hanno buttato anche la cover di “Toast of the town” dei Motley Crüe (primo singolo dei Crüe datato 1980, il pezzo coverizzato c’è sul solito “Leather boyz…”), più accenni a classici del Rock come “Born to be wild”, “Blitzkrieg bop” (con dedica del bassista al defunto collega Dee Dee Ramone) e un altro famoso pezzo dei 70’s che non abbiamo riconosciuto; finalone col loro inno “Rock’n’Roll (is gonna set the night on fire)” cantato a pieni polmoni da tutto il pubblico. Insomma, alla fine concerto decente, Pretty Boy Floyd più che buoni, ma acustica così così e, tutto sommato, atmosfera decisamente triste (non hanno nemmeno acceso gli schermi ai lati del palco); visto poi l’arredamento mortuario del posto sembrava di essere a un concerto transilvano dei Bauhaus, che so a Timisoara o a Brasov, più che in un Troubadour trapiantato a Milano!

 

GRADINATA NORD – Davos (Svizzera), Box, 5 aprile 2003
I Gradinata Nord sono uno dei due gruppi in cui suono al momento (l’altro è quello dei grinders Obbrobrio), faccio questa doverosa premessa. Ero indeciso se denominare la trasferta svizzera (prima volta fuori dai patri confini per i Gradinata Nord e a tutt’oggi -2013- ancora l’unica…) Swiss Assault oppure Switzerland Invasion… La prima era ispirata agli dei assoluti del Black Metal (che poi col Black come lo si intende oggidì poco avevano/hanno a che fare, sia musicalmente che soprattutto attitudinalmente, visto che in fondo, come argutamente fece notare qualcuno, erano solo un terzetto di trivialissimi “geordies” -inglesi del nord-est, sono di Newcastle), i Venom, che una quindicina di anni fa uscirono con una serie di dischi semi-live dedicati a diverse nazioni (e denominati appunto Canadian assault, French assault, Scandinavian assault, ecc.), ma la seconda aveva anch’essa un’ispirazione di spessore, cioè l’episodio di “Io tigro, tu tigri, egli tigra” in cui Enrico Montesano durante la naja entra in Svizzera col suo battaglione per comprare le sigarette, con gli elvetici che pensano ad un’invasione dell’esercito italiano! Alla fine, patriotticamente, decido per “Switzerland Invasion”, anche se “Swiss Assault” campeggerà in cima alle cinque scalette che stamperò per noi Gradinata. Partenza appena dopo mezzogiorno con tanto di contingente locale al seguito: macchina A condotta dal Bassman con la Lia, il Prof. Botka (che come i lettori più aficionados sapranno, risulta essere fratello dell’autista), Rasco (cantante dei fu-Caven) e Ghelfo (morbegnese rientrato da poco sul suolo patrio dopo qualche anno speso a San Francisco per lavoro); macchina B condotta dall’Alex con Alida (sua morosa all’epoca), Papo & signora (anche qui dell’epoca), io come doppio terzo incomodo! Macchina C condotta dal nostro webmaster (del sito www.gradinatanord.com, dominio che avevamo all’epoca dei fatti, ora è gradinata nord.eu) Tullio con la morosa dell’epoca (è proprio un’epoca di crisi delle coppie!), Bongo-Bongio e Fabio “Ciccio”, chitarrista dei RedBloodHands (già nei Maister Proper). Andata con deliri Papeschi su cene apocalittiche a base di maialetti da latte e “prelibatezze” simili (e conseguente inorridimento mio e dell’Alida, cioè i due vegetariani all’interno dell’auto), con colonna sonora di Dance & Pop anni ‘80 gentilmente offerta dal sottoscritto. Passata la dogana senza problemi (l’auto A, quella del Bassman, viene invece fermata per quasi un’ora e il Professor Botka perquisito -l’unico!-: voci di corridoio parlano anche di una mezzoretta trascorsa dal nostro in uno stanzino con un aitante doganiere dall’aspetto ariano che aveva preteso con un lampo sinistro negli occhi una perquisizione totale e profonda del professorino!), io mi bardo con bandana e occhiali scuri in pieno stile glamster della bergamasca anni 83/84… Tempo bellissimo, neve scintillante sul Passo dello Julier, ma arrivati a Davos si rannuvola parecchio (di notte nevicherà, poco, ma nevicherà); giriamo mezzora per trovare il posto, che ci avevano detto essere a cento metri dalla stazione dei treni, ci accorgeremo che di stazioni ce ne sono due e siamo in quella sbagliata… La cittadina è tipicamente elvetica/sciistica, l’evento della serata è la finale di Coppa di Svizzera di hockey su ghiaccio fra Davos e Lugano e le strade sono invase da gente vestita di gialloblu (colori del Davos, che poi comunque perderà l’incontro), visto che il match sta per iniziare (sono le sei e mezza di sera). Io e il Botka pensiamo quindi di iniziare il concerto parafrasando il dialogo dei Turbonegro che c’è prima di “I got erection”-versione tedesca: C. Botka? B. Yes Ciotti? C. What do you think about hockey Lugano? B. They’re pussies, nu-metal pussies!!! Purtroppo l’assoluto disinteresse dei presenti verso l’ hockey che constateremo poi, ci farà desistere dall’idea… Ah certo, dimenticavo, questa sera il Prof. Botka suonerà la seconda chitarra con noi, in sostituzione temporanea di Nasty Abrahm, impossibilitato alla trasferta per cause lavorative; Botka, che già un po’ i pezzi del disco li conosceva, fa una (lunga) prova con noi in settimana per impararne cinque nuovi, e si dichiara pronto per il palco! Troviamo il posto, due piani con scala di legno modello chalet (!), non è molto grande, ma pare molto ben tenuto. C’era pure un cane, ma di piccola taglia e pulito, non il classico e (tristemente immancabile, lo dico da amante dei cani) cane-abbestia, grosso e sporco! Trovo però strano che in questo piccolo centro ci abbiano suonato gli Shelter, ma pare sia così…boh, si vede che Ray Cappo non ha fatto tanti proseliti (hare-krishna intendo, eh eh) nella provincia svizzera… Il gruppo che suonerà con noi (dovevano essere il gruppo spalla, ma, dato che hanno una scaletta di un’ora e passa e noi di soli dieci pezzi=mezzora, causa Botka, li promuoviamo headliners, anche perché così non rischiamo di finire a suonare alle due di notte, come troppo spesso in passato!) sono tali Fleisch di Zurigo, quarantenni e oltre, attivi dall’88 con dischi usciti in passato su Far Out Records (storica etichetta svizzera in ambito hardcore europeo), tranquilli e simpatici. Musica tipico Punk tedesco, quadrato e ben suonato: pochi pezzi rendono parecchio, l’ora e mezza di concerto che han fatto mi ha irrimediabilmente martellato le balle! All’umanissimo orario delle 22.30 iniziamo noi; gente non tantissima, ma molto partecipe: fra l’altro, citando un po’ sboronamente il Pomini su una vecchia “abBestia!”, “la gente pogava già durante il nostro soundcheck”, che comunque è (inspiegabilmente, lo so!) la pura verità. Il Professor Botka, noto germanista, ci introduce in tedesco, suscitando risatine fra i presenti: quando poi gli chiederò cosa avesse detto di tanto divertente, il Prof. mi dice “nulla di divertente” e spiega che è tutta una questione di accento, come cioè se un gruppo tedesco venisse da noi a suonare e si presentasse dicendo una cosa tipo: “noi ziamo cruppo tetesco e feniamo da Cermania”. Lontano da casa (e quindi da chi poi ti può prendere per il culo in eterno) ci siamo lasciati andare a tutte le più becere pose rock’n’roll, col personale timore delle bacchette che scivolano dalle mani e finiscono in faccia al Botka (che mi suonava di fianco) quando mi arrischiavo a farle girare! Il Papo è perfettamente calato nella parte dell’entertainer e mi fa venire la pelle d’oca quando annuncia “Italia Ultrà” con un “and now it’s time for some fuckin’ rock’n’roll!”. Non che suoniamo proprio bene, ma come dice Lemmy (profani/e che leggete, non fatemi dire chi è, cercatevi il nome su internet e ammettete la vostra ignoranza ;-) !), l’immagine e l’attitudine vengono prima della tecnica! O no? Comunque, pubblico abbastanza giovane, coi ragazzini (tutti punkettini o hardcorettini, niente skins) che tentavano di cantare i ritornelli pur senza saperli! Il Botka suona benone per aver provato solo una volta e condisce l’ottima prestazione con mosse pelviche che mi dice di aver copiato da Euroboy dei Turbonegro: io non posso esimermi dal soprannominarlo quindi Eurobotka! Negli ultimi tre/quattro pezzi mi sento a pieno titolo membro onorario dei Motley Crüe o dei Poison, viste quattro ragazzine (parecchio fighe! Lo so, non ci crederete, beh non ci credevo neppure io!) che ballavano davanti al palco, dopo essersi fatte largo oltre gli esagitati locali (questo mi riporta alla mente uno dei primissimi concerti dei Gradinata, credo fosse il secondo, a Chiavenna ad un’assemblea scolastica con concerto nella piazza antistante lo stadio del calcio. Noi eravamo ancora nella formazione a sei coi due cantanti Diego e Lanzo e avevamo una scaletta composta all’80% da covers di classici Oi! ed Oi!-Core: ultimo pezzo “Tempi nuovi” dei Nabat e incredibilmente vedo un gruppetto di ragazzine sui sedici che ballano convinte sulle note del classico dei bolognesi; a fine concerto io e il Diego decidiamo di andare a vedere se han voglia di fare quattro chiacchiere -e non solo quello! -n.d.Renato Pozzetto-, nel classico duo cantante figo e batterista a rimorchio che ne raccoglierebbe le briciole lasciate: già, raccoglierebbe, visto che siamo bellamente ignorati dalle sedicenni e ci tocca ripiegare mestamente su un vicino bar coi nostri compagni di gruppo…). Nel post-concerto (speravo in vendite migliori però, alla fine i locali si comprano solo quattro cd e una maglietta…), decido di regalare qualche spilletta (delle mille che megalomaniacamente il Bassman ha preteso facessimo stampare) alle ragazze presenti (e anche a qualche bel ragazzino, devo ammettere! …No, scherzo – n.d. Piga – ….sì lettore/lettrice, questa nota è un inner-joke comprensibile solo a pochi), mi fermo a chiacchierare con una che parla un po’ di italiano (le altre solo tedesco…lingua che per me vale il dialetto delle Isole Salomone), una diciottenne molto carina (che a me dà non più di ventidue anni…e me ne sono vantato per ore con l’Alida che ha due anni più del sottoscritto e inizia a sentire il peso dell’età) nonostante una vaga somiglianza con Mick Jagger e Steven Tyler per labbra e taglio di capelli! Al momento però di tentare una mossa alla Vince Neil lascio perdere (avevo mal di schiena, ero stanchissimo e il mio sesto senso mi suggeriva che avevo le stesse possibilità che ha il Genoa di vincere lo scudetto della stella entro i prossimi dieci anni!). Intanto suonano i Fleisch e poi, dopo quattro balle con loro (il mio inglese, dopo mesi di non pratica, è a livello di quello di Filini quando chiede all’inglese che lui e Fantozzi hanno travolto con la Bianchina “what time is it?” per sapere se si è fatto male, con ovvia risposta “fuck off” dell’englishman…), giunge l’ora di andare a dormire; i ragazzi del posto ci dotano di materassi in gran quantità, io ne stendo uno fra il muro, Tullio e donna (verso mattina avrò un traumatico risveglio momentaneo e mi troverò faccia a faccia col barbuto webmaster, la cui folta barba già stava solleticandomi il mento!) e il Botka, e metà del nostro contingente va a nanna (saranno circa le due di notte); l’altra metà (Rasco, Ghelfo, Bongo e Ciccio su tutti) gioca a calcetto e fa bordello coi locali per almeno un’altra ora (così mi diranno, io crollo sul materasso stile Filini in treno, vedi “Fantozzi contro tutti”). Purtroppo i malefici ragazzi del posto faranno andare lo stereo fino alle 6.00 del mattino obbligandoci a risvegli improvvisi quando c’era il cambio cd ( che erano due o tre a giro continuo) col conseguente cambio di volumi/frequenze! Il classico “Bro hymn” e la cover di “Hotel California” versione ska/reggae, entrambe dei Pennywise, saranno, assieme ad un pezzo dei System of a Down, i tormentoni del ritorno che ci rimbomberanno in testa fino a casa!). Eleggo il Botka re indiscusso della nottata quando si alza in mutande bianche, canottierina color crema, calzette marroni al ginocchio, mocassini e immancabili occhiali da vista (sembrava un pornoattore crucco anni settanta) e inizia a ballare da solo, esasperato dalla musica! Io mi sveglio per primo alle 8.00 e il maledetto dente del giudizio sceglie proprio quel giorno per l’inizio dell’offensiva di primavera (chi coglie la citazione? Vediamo quanto siete davvero punk-hardcorers ;-) !)… bestemmie di fuoco inevitabili, poi mi alzo e me ne vado a fare un giro fuori (dove imperversa un vento stile tundra…), compro la Gazzetta in stazione (Adrianone stende il Milan a Parma e, merda, la Juve vince un derby col Toro stile wrestling) e ritorno al centro dove trovo svegli ormai tutti. Visto che il rimborso ce l’han già dato la sera prima (il pattuito, e bravi gli svizzeri! Nonostante sia spesso d’accordo con le opinioni del buon Elio Corno sul Telelombardia, inizio a ricredermi su di loro, eh eh!), decidiamo di andare a casa; salutiamo gli unici rimasti (cioè i Fleisch e un paio di punkettini disfatti), ci fermiamo al buffet della stazione dei treni per un’abbondante colazione e poi salpiamo le ancore in direzione casa; dopo un’ora di viaggio io sono in preda a visioni mistiche e miraggi, causa male al dente in peggioramento costante, a questo punto smetto la corazza dell’ “uomo che non deve chiedere mai” e confesso il dolore agli altri: prontamente la Claudia tira fuori un analgesico in polvere e l’Alex me lo somministra senz’acqua stile camera delle torture! …dopo neanche dieci minuti non mi fa più male, rifletto sullo svolgimento delle cose e capisco di essere decisamente un po’ coglione! Come rinato, mi godo la colonna sonora Turbonegro / Hanoi Rocks e un Papo spettacolarmente delirante (in senso positivo però!). Prima della dogana è imperdibile la sosta al cosiddetto “Fungo” (trattasi di spiazzo con negozietto e distributore di benzina adiacente, il quale è riparato da un enorme obbrobrio -no relations with Morbegno grinders, come avrebbe scritto Paolo Piccini su un vecchio “HM!”- in cemento simile appunto ad un gigantesco fungo!) ad acquistare i classici dolciumi tipicamente svizzeri (chiaramente coi soldi del materiale venduto). Arriviamo alla dogana di Villa di Chiavenna, il doganiere chiede il classico “Niente da dichiarare?”, risposta “Sì, siamo una grandissima band. Qualche altra domanda?”. Alle 15.00 siamo a casa; io crollo sul letto e dormo fino alle 19.30. Ma sì, è stato un bel weekend …poi alla sera ci pensa l’Inter a rovinarmelo (3-3 con la Roma dopo essere stati in vantaggio 3-1…) !

 

L.A. GUNS + ENUFF Z’NUFF + BASTET – Bresso (Mi), Indian Saloon, 19 aprile 2003
Prologo: Carissimi lettori e lettrici, devo ammettere di aver iniziato a sentire il peso degli anni che avanzano: il giovedì sera precedente a questo concerto ho timidamente ripreso a giocare a calcetto dopo circa quattro mesi di stop forzato (causa mal di schiena sempre piuttosto presente da Natale in poi), venerdì ero contento perchè avevo giocato bene e soprattutto non avevo ‘sti gran dolori alle gambe come temevo; purtroppo era la premessa per una cosa alla Fantozzi tipo “Ragioniere, ha visto che il diavolo non è poi così brutto come lo si dipinge!” (da “Fantozzi contro tutti”), visto che nel pomeriggio di questo sabato, facendo il semplice atto di saltare su un marciapiede di venti centimetri, ho sentito come una frustata in zona inguinale e mi sono dovuto sedere per almeno cinque minuti con la gamba destra immobile! Strappo totale e dolori decisamente atroci ad ogni movimento brusco della gamba! Fra l’altro questo è il mio primo infortunio muscolare in assoluto e non è certo una bella cosa….

E ora qualcosa di completamente diverso :

Pur zoppicante e sfidando una pioggia torrenziale ho condotto la banda (Bassman, il Bell -cugino del suddetto- e la Lia) con la mia fida Punto fino a questo Indian’s Saloon (c’ero stato una volta tre anni prima a vedere Napalm Death + Nasum; sì i Nasum, svedesi, la band di quel povero cristo poi travolto dallo tsunami mentre era in vacanza, quelli lì…); ingresso 15,00 euro (e vabbè, comunque preventivati), posto quasi pieno e, naturalmente in “pieno” stile Los Angeles 1985, 90% maschi, 10% donne (di cui l’8% cessi)… Dei tre gruppi mi interessavano soprattutto i Bastet (glamsters padovani), di cui ho alcuni pezzi piuttosto fighi in mp3, ma matematicamente, un po’ perchè arriviamo tardi noi, un po’ perchè c’è coda all’entrata e un po’ perchè appena dentro io devo fare pipì (ormai mi dichiaro cronicamente incontinente!) e un cretino sta nel cesso mezzora a vomitare creando una megafila (nella quale conosco un simpaticissimo personaggio, sosia peraltro di Hellhammer, batterista dei Mayhem), insomma, vedo solo tre pezzi: comunque sono dei grandi, pagliacci ma con parecchia ironia, bravi e molto showmen (specie il batterista che faceva girare continuamente le bacchette e sciorinava tutto il campionario “tamarr-metal degli 80’s”!). Se avessi una sorella probabilmente andrebbe a letto con qualcuno dei Bastet! Intanto becco il Basetta (lì a lavorare e in attesa che tornino gli L.A. Guns dalla cena), HM Dario e altri di quel giro di rockers brianzoli di cui non ricordo i nomi. Secondi sono gli Enuff Z’nuff da Chicago: il nome lo sento da più di dieci anni, non li ho mai ascoltati, ma dalle foto (vecchie: dettaglio importantissimo) li ho sempre reputati un gruppo fra il Glam e l’Hard americano…invece escono tre derelitti davvero brutti: chitarrista/cantante alto 1.20, occhiali scuri, capelli (o parrucca?) mediamente corti, pellicciotto: sembrava Del Piero frocio (cioè sembrava Del Piero, direbbe qualcuno, eh eh)… Bassista brutto e gonfio con look alla John Lennon e batterista almeno decente, anche se dal look nettamente Little Italy (credo che sia questo il loro drummer poi morto di cancro qualche anno dopo… -nota 2013); avrebbero anche un cantante solista, ma è assente causa problemi di passaporto e/o droga, a quanto pare. Sono assolutamente pallosissimi: un’ora di Rock americano (da sigla di “Friends”, come sentenzia Bassman) tritamaroni, piatto e visivamente osceno (vedi sopra); molto bravi e preparati (ci mancherebbe!), ma terribili; ho un grande rispetto di me stesso per NON aver comprato anni fa un loro cd in offerta a 1.900 lire! Fanno una cover di David Bowie, riconosciuta dal Bassman, chiaramente non da me. Intanto dentro fa caldissimo e nessuno sa com’è finita Juve-Roma…disperato mando sms a destra e a manca finchè qualcuno mi risponde che han vinto i gobbi: bella merda! Durante gli Enuff arrivano gli L.A. Guns passando fra la folla, quasi nessuno li caga tranne una tipa, neanche lontanamente carina fra l’altro, che urla “mi ha toccato, mi ha toccato!”… Dopo una quindicina di minuti salgono sul palco: il cantante è l’originale (tornato nel gruppo qualche anno fa dopo esserne uscito per un po’), quello inglese che veniva dai Girl e che quindi avrà come minimo cinquant’anni; rassomiglia vagamente a Ozzy, quello di adesso (il Bassman invece sostiene assomigli più al sottoscritto…speriamo scherzasse!). Pare che il batterista sia Steve Riley, l’altro superstite degli L.A. Guns anni ’80, mentre alle chitarre ci sono Brent Muscat (in prestito dai Faster Pussycat) e Keri Kelli (tipico esempio di “chitarrista-marchettaro”, avendo suonato con quasi tutta la Los Angeles “hair metal”, vedi Slash’s Snakepit, Pretty Boy Floyd, addirittura Ratt e Warrant nelle loro più recenti reincarnazioni-truffa, ecc.ecc. Fra l’altro, nota di colore per gli hardcorers che stan leggendo, il tipo dovrebbe essere sia straight edge che vegetariano!). Paradossale l’uscita dal gruppo di Tracii Guns (membro fondatore nonché ex Guns’n’Roses dei primordi), comunque sia, tant’è: ci toccano questi! Io di loro ho solo i primi due lp’s (che mi piacicchiano, ma non è che mi facciano impazzire), tuttavia fanno parecchi pezzi da quei dischi, quindi riesco a seguire abbastanza il concerto; hanno (specie il cantante, Phil Lewis, ora mi sovviene il nome!) grande mestiere e va detto che i riflettori erano puntati sul singer e lasciavano in ombra gli altri…giusto così dopotutto; anche se Keri Kelli suona alla grande e dà spettacolo al tempo stesso. Verso la fine vado verso le retrovie (eravamo in decima fila suppergiù) perchè il caldo è davvero insopportabile e in più devo anche andare di nuovo al bagno (l’incontinenza è ormai una certezza!); incontro il Basetta e mi fermo a chiacchierare finchè inizio a stare quasi male dal caldo: mi congedo, becco l’uscita, esco zoppicando (vi ricordo lo strappo all’inguine) e mi lascio cadere seduto contro il muro a prendere aria, fra sguardi dei presenti a metà fra il disprezzo e la compassione per la mia presunta ubriachezza e/o tossicità! Dieci minuti (intanto noto che il concerto si sente meglio fuori che dentro) e mi riprendo, piscio direttamente all’aperto (ora non piove più) e rientro proprio mentre il concerto finisce, ovviamente! Attendo davanti alla biglietteria gli altri intrattenendomi ancora con Dario e Basetta (che mi omaggia di una spettacolare cassetta con pezzi dei Pretty Boy Floyd post-primo album, più strepitosi singoli di Quireboys e Wildhearts) e poi dirigiamo verso casa…tutto considerato, 5,00 euro (quelli per gli Enuff) buttati nel cesso, gli altri 10,00, ma sì ci stanno!

 

FASTER PUSSYCAT – Bresso (Mi), Indian Saloon, 23 maggio 2003
Qui ho fatto la pazzia: Faster Pussycat da solo! Visto che all’Alex toccava la solita chiusura all’Iperal e che il Bassman (che doveva venire) lavorava fin dopo le 20.00 e la mattina dopo (un sabato) avrebbe lavorato ancora, ho sentito il Basetta, ho preso puntello con lui e il cugino e, nonostante zoppicassi ancora (sono tornato a giocare a calcio la sera prima e mi sono semi ri-strappato nello stesso punto dopo neanche venti minuti…), sono partito in solitaria (comunque Bresso è a soli cinquanta minuti circa da qui, senza trovare traffico beninteso!). La serata è in realtà un mini-festival con quattro gruppi, eppure non è che si faccia vedere troppa gente… Aprono tali Cathouse da Bergamo: glam classicissimo con covers di Poison e della mitica “Animal (fuck like a beast)” dei W.a.s.p.! Conciati come ballerine turche, suono pessimo, pezzi carini ma roba strasentita… Seguono tali Plan Nine, svedesi e fautori di quella specie di Rock(dicono anche ‘n’Roll) scandinavo ultra-inflazionato che va di moda adesso; bruttarelli per essere svedesi, batterista assolutamente orrendo (non so se umano), presenza scenica zero, pezzi monotoni (sembravano canzoncine pop-punk appena appena un po’ sporche, una cosa che noterò anche qualche mese dopo ad un concerto degli italici Thee STP, anche se mi dicono che questi ultimi dopo il 2003 si sono hardrockizzati parecchio); set lunghetto… Poi i Bang Tango da Los Angeles, storici sopravvissuti degli 80’s. Sia loro che i Faster Pussycat suoneranno meno del previsto causa arrivo sul posto in ritardo per guasto del furgone dell’Indian’s che era andato a prelevarli in hotel… Fra l’altro voci di corridoio sussurrano che Taime Down (voce dei Faster) abbia preteso un giro a puttane (e questo ai tempi d’oro mi risulta -da “The dirt”, la bio dei Motley Crue- si scopasse Miss Ottobre di Playboy 1989, che tristezza). Coi Bang Tango temevo il loro stile “Red Hot Chili Peppers alle prese coi pezzi degli Skid Row” (Basetta copyright!) e invece sciorinano soltanto brani Hard Rock diretti ed accattivanti; presenza scenica grandiosa, mestiere totale e suono spettacolare. E pare fosse una formazione messa su in fretta e furia col solo cantante di quella originale: chapeaux! Cover micidiale di “Whole lotta Rosie” degli Ac/Dc (altro che la versione di noi Gradinata Nord). Infine Faster Pussycat, peccato per l’ora tarda perchè il pubblico era stanchetto e non poteva rendere giustizia al gruppo, peraltro probabilmente anche abbastanza devastato di per sé… Taime Down versione recente vagamente marylinmansoniana: cappello nazista con aquila, occhiali neri, capello nero tinto, sigaretta perennemente in mano, cerone e labbra nere. L’altro sopravvissuto dei tempi d’oro (visto recentemente come session negli L.A. Guns) è Brent Muscat, poi ci sono tre sconosciuti comunque non troppo giovani (purtroppo lo “stunt-cock” che avevano preso in prestito dai Pretty Boy Floyd non è già più della partita). Apertura col classicissimo “Cathouse” (ah, lo dicevo io che mi suonava familiare il nome dei bergamaschi di cui sopra!), poi “Where there’s a whip there’s a way” dal secondo album, “Don’t change that song”, la ballatona “House of pain”, un pezzo di quelli più nuovi troppo “moderno” anche se non malvagio, la mitica “Bathroom wall” e…stop, causa orario sforato. Il pubblico rumoreggia e allora ancora un pezzo, l’altro classico “Babylon” con tutti i Bang Tango sul palco; Taime chiude il concerto salutando prima con le corna rockettare classiche e poi con un clamoroso saluto nazista (fra l’altro in vendita c’erano pure t-shirts da donna con la scritta Faster Pussycat con le due s nei caratteri del logo delle SS…se c’era la misura da uomo quasi quasi me la prendevo! Sai ai concerti dei Gradinata quante botte mi sarei buscato?!). Al ritorno sono talmente insonnolito che rischio di addormentarmi e di schiantarmi almeno quattro volte….

 

HANOI ROCKS – Helsinki, Tavastia, 27 dicembre 2003
Premetto di essere una persona abbastanza restia a viaggi, spostamenti e vacanze varie intesi come movimenti di coppia (specie durante il periodo natalizio); stavolta però una serie di fattori riescono a farmi smuovere dalla mia adorata Colico: innanzitutto il mio unico cantiere in corso che è ubicato nella piazza centrale di un paese (dove non è certo il caso di lavorare nei trafficatissimi giorni fra Natale ed Epifania) e che giocoforza mi “costringe” a fare una dozzina di giorni di ferie, poi il fatto che io e la Tea siamo assieme solo da pochi mesi e che quindi il viaggetto ci può anche stare (sebbene quando si parla di vacanze di coppia, viste certe esperienze passate, a me viene sempre da citare alle interessate i Paolino Paperino Band: “vi comprate un bell’atlante, un bel documentario, non rompete più i maroni”, strofa in realtà a proposito dei fans del circo, ma adattabilissimo lo stesso!) e, detto che la meta finlandese è terra a me già nota (ricordo che la mia ex metà, nel senso di ex metà di questa ‘zine, Marco, dal 1997 abita lassù e che qualche volta sono stato a trovarlo), soprattutto c’è la possibilità, negli otto giorni di trasferta, di buttar dentro un concerto degli Hanoi Rocks (uno di quei due/tre gruppi che mettono d’accordo me e la suddetta Tea). Insomma, senza quasi rendermene conto mi ritrovo ad Helsinki, teoricamente in mezzo ad un freddo tremendo, in realtà sotto la pioggia e col termometro che segna +4° (quando nelle Nordlands italiche appena lasciate segnava -5°!). Presi i biglietti (per la “modica” somma di euro 22,00 a testa. Alla faccia, imbellettata, di Michael Monroe!) il 26, la sera del 27 decidiamo di concederci una veloce cenetta al takeaway indiano (o thailandese che fosse, comunque roba asiatica) prima di andare al concerto; mangiamo lì e una volta usciti si scatena un vento siberiano misto a pioggia che manda subito in subbuglio il mio stomaco, il quale mi darà problemi per tutto il resto della serata, mentre mi si scatena pure un fastidioso mal di testa, probabilmente anch’esso di origine alimentare…A questo punto entrano in scena le compresse Burana, che avevo conosciuto già un paio d’anni or sono e di cui mi sono rifornito il giorno prima (erano gli anni in cui riuscivo ad avere mal di testa anche cinque giorni su sette a volte e naturalmente non pensavo certo di andare a farmi visitare): ne inghiotto un paio nel mio classico stile senz’acqua e improvvisamente mi vengono in mente i Carmina Burana, soprattutto quando Ozzy Osbourne li usava come intro concerto nel doppio-Lp “Tribute” (per la cronaca, tributo al suo defunto chitarrista Randy Rhoads, morto in un incidente aereo) e mentre l’emicrania inizia a svanire nei minuti successivi, mi viene da pensare a quanto fenomenale fosse l’inizio di quel disco live quando i grandiosi Carmina Burana sfumano e il buon vecchio madman Ozzy annuncia la mitica “I don’t know” e Randy parte con quel riff immortale. Come scrisse molto appropriatamente Alessandro Massara su un vecchio “HM!”: “descrivere le sensazioni che ricaviamo all’ascolto è come cercare di descrivere cosa si prova durante l’orgasmo”. Arriviamo davanti al Tavastia che, da quanto scritto sui manifesti all’entrata, pare sia sold out, sia questa sera che la sera prima (gli Hanoi facevano la doppia data). Il posto è carino: bar e sala concerti sono separati, cosa molto gradita perchè il gruppo spalla (ignoro il nome, aspettate che cerco in rete… ah ecco, Hidria Spacefolk, il cui batterista ho poi scoperto essere un ex Festerday, death metal band finlandese dei primissimi anni novanta, da cui poi nasceranno gli intellettualoidi del black metal And Oceans… Tutto questo lo dico per chi come me è amante delle curiosità metalliche, ovvio!) si presenta composto da cinque fricchettoni con tanto di tastiere e fautori di un prog-rock tritapalle e pure strumentale… Quindi possiamo starcene al bar mentre di là per un’ora impazza la noia (e comunque volendo si può seguire il concerto su un paio di megaschermi). Causa stomaco sempre più in subbuglio vado al bagno e sulla via del ritorno incappo in una lieve disavventura: urto un tavolino e rovescio inavvertitamente un bicchiere d’acqua sulle gambe di una donna (fra i quaranta e i cinquant’anni, a naso) ivi seduta; il problema è che la signora è accompagnata da un paio di nerboruti bikers che dapprima mi guardano male e subito dopo uno di loro mi fa cenno di avvicinarmi: vedendomi massacrato nel cesso mentre uno mi tiene e l’altro mi mena, scambiandosi poi le parti, ho un barlume di lucidità e, ignorando i motociclisti, mi rivolgo alla donna (sperando che comprenda il mio agghiacciante inglese) scusandomi in tutte le salse! Per mia fortuna lei capisce, mi dice che non ci sono problemi e con un cenno blocca i due bestioni: traggo un grosso sospiro di sollievo e torno al mio tavolo. Dopo un po’ è il momento degli Hanoi Rocks e tutta la gente si assiepa nella sala concerti. Purtoppo però passa un’ora abbondante causa qualche problema tecnico (io ero in zona mixer e il mixerista era in collegamento diretto col backstage, ogni tanto girandosi verso la folla a lamentarsi, suppongo perchè non gli spiegavano il motivo del ritardo o forse anche per i motivi del ritardo stesso, boh?), attesa quantomeno mitigata da un “jukebox” mica da ridere: Ac/Dc, Stooges, Motorhead, Guns’n’Roses, Clash, e in generale roba vecchia con la sola eccezione (non casuale) del pezzo dei Backyard Babies in cui Michael Monroe è ospite all’armonica. Finalmente, ad orari tipo concerto hardcore al primo Leonca, la musica scema e sul palco salgono via via le quattro comparse che sono il resto degli Hanoi Rocks odierni (secondo chitarrista, peraltro all’ultima apparizione con gli Hanoi, bassista, batterista e l’esterno, il tastierista biker-panzone che se ne sta ai lati del palco) e, dopo qualche secondo, Andy McCoy vestito da Andy McCoy, cioè da zingaro col cappellone, e assieme attaccano “Tragedy” (uno dei pezzi loro che preferisco)! Pochi secondi prima dell’attacco vocale, con un balzo felino da una cassa, sbuca dal backstage Micheal Monroe vestito da Babbo Natale, cioè sembrava un viado vestito da Santa Claus, e attacca a cantare, lanciando qualcosa sul pubblico, credo biglietti augurali o qualcosa del genere, ma eravamo troppo indietro per prenderli o anche solo identificarli! Pochi attimi e tutto è dimenticato: mal di testa, di stomaco, bikers bellicosi, ritardi, sonno, stanchezza. In più, grandiosità, Michael canta facendosi aria con un ventaglio (il mio sogno è vedere il Papo sul palco con lo stesso accessorio!). Il concerto va via che è un piacere, il gruppo è in forma, Michelino è strepitoso, idem McCoy (che stavolta, contrariamente a Milano dove era bloccato su una sedia, cammina e quindi può esibirsi in pose e mosse varie); e lo zingaro, che ebbe l’onore di sentir dire da Mick Jagger in un live degli Stones a Helsinki che Ron Wood è l’Andy McCoy inglese, sciorina anche un paio di solos Blues/RnR da paura durante altrettante improvvisazioni a metà di un paio di pezzi. La scaletta è più o meno equamente divisa fra i vari dischi: due pezzi e mezzo da “Bangkok shocks…” (“Tragedy”, “11th street kids” e l’inizio di “Cheyenne” sfociato però poi in “Until I get you” dal quarto lp), due da “Oriental beat” (“Motorvatin” e la title-track), altrettanti da “Self destruction blues” (“Taxi driver” e “Cafe avenue”) e da “Back to mystery city” (“Malibu beach nightmare” e appunto “Until I get you”), ben quattro da “Two steps from the move” (la cover di “Up around the bend” dei Creedence, “Underwater world”, “Highschool” e “I can’t get it”, durante la quale vado al cesso a vomitare definitivamente le pietanze asiatiche), quattro anche da “Twelve shots on the rocks”, l’album di ritorno del 2002 (“Obscured”, “People like me”, “A day late, a dollar short” e “Delirious”, cover degli scozzesi Heavy Metal Kids, che fra l’altro ha praticamente lo stesso inizio di ‘Flower punk rockers’ degli Eternit, creato da un Alex completamente ignaro dell’esistenza di questo pezzo di vent’anni prima!); a completare il set un brano penso nuovo e la cover di “I feel alright” degli Stooges che c’è su “All those wasted years”, il disco live dell’84. Tutto ciò sperando di non aver dimenticato niente! Clamorosa comunque l’assenza del mega-hit “Don’t you ever leave me” (proposto sia sul primo che sul quarto album). Dopo un primo bis il gruppo esce, ma dato che Monroe ha introdotto “11th street kids” dicendo che quel brano era stato scritto da Andy assieme a Nasty Suicide (al secolo Jan Stenfors, chitarrista storico della band, ora fuori dal giro e farmacista ad Helsinki!) e che Nasty quella sera è lì con loro (Micheal ha sempre parlato in inglese alla folla…mah!), si inizia quindi a capire che a breve assisteremo ad un piccolo evento: Monroe, McCoy e Nasty insieme sullo stesso palco per la prima volta dal lontano 1984, cosa che, da un giornale letto dagli asiatici (in realtà gestori e lavoranti erano tutti finlandesissimi), mi era parso di intuire, ma l’incomprensibile linguaggio suomi non mi aveva permesso di capire di più! Michael lo introduce con “Nasty fuckin’ Suicide!!” e il nostro si presenta come se avesse appena tolto il camice da farmacista: maglioncino, jeans normali, capello corto (certo che a ‘sto punto poteva tenersi anche gli occhiali, di cui fa sfoggio in una foto da dietro il bancone della farmacia che ha fatto il giro dei siti web dediti ad Hanoi et similia): i due pezzi suonati da questi Hanoi Rocks per 3/5 sono “Taxi driver” e la cover degli Stooges. Michael chiude da solo sul palco dicendo che la sera prima non avevano suonato bene perchè gli altri -ma non lui, chiaro- erano troppo ubriachi e rigonfi di pietanze natalizie, ma che questa sera era soddisfatto! Aggiunge che però non si possono fare dei concerti di merda come la sera prima e finalmente inizia a parlare in finlandese per almeno due/tre minuti (decisamente con un atteggiamento da checca isterica!), concludendo lo sproloquio con un calcio ad uno dei suoi boa di struzzo caduti sul pavimento, esclamando l’unica parola che ho capito: “paskaa!” (= merda! A questo proposito vi ricordo, cari hardcorers, il pezzo dei Terveet Kadet “Pissa ja paskaa”, che credo significhi “piscia e merda”…dei veri signori, eh eh!). Poi Michelino aizza la folla tre o quattro volte e se ne va con un’uscita da Wanda Osiris mentre il pubblico è in delirio (giocano in casa, non dimentichiamolo), anche se, constato con piacere da un lato e con una vaga tristezza dall’altro, l’età media è proprio altina…mi sa che noi due (31 e 28) siamo, se non i più giovani, almeno nella parte bassa della classifica! Sì, c’è stata un’altra data ieri, però dove sono i gggiovani? A stordirsi di Rasmus, H.I.M. e 69 Eyes? Temo di sì… Ci sono comunque tante coppie, alcune anche sui cinquanta e più! Poi bikers (appunto! Vedi sopra), rockers, fattoni & tossici vari di un’altra epoca; in un certo senso può essere la stessa gente che presenziava ai concerti finnici degli Hanoi Rocks nell’83, solo con vent’anni di più sul groppone! Degne di nota due troione sugli -anta, tragicamente orrende, sovrappeso e a fatica inguainate in completini di pelle alla Jessica Rizzo, che deduco fossero lì nella speranza di farsi Monroe, o anche uno dei nuovi Hanoi, o alla peggio uno del gruppo spalla, o in ultima battuta qualcuno raccattato al bancone! Compro una maglia degli Hanoi per il Bassman come regalo di Natale e ce ne andiamo, mentre vento e pioggia impazzano e le strade sono appannaggio di stormi di ragazzini (anche ragazzine, ma soprattutto maschi, fastidiosi e molesti) ubriachissimi… E voglio chiudere ricordando il capodanno trascorso lassù a guardare fuori dalla finestra della stanza gli spettacoli pirotecnici dei fuochi d’artificio -peraltro sparati con frequenza e foga quasi partenopee!-, col sottoscritto che ad ogni bagliore nel cielo nordico pensa compiaciuto A blaze in the northern sky, il titolo dell’imprescindibile secondo album dei norvegesi DarkThrone, solleticando così il mio lato di blackmetaller tredicenne che, trasposto in un paese nordico in una notte d’inverno, non capisce più nulla! ;-)

 

DEEP PURPLE + STATUS QUO, ecc. – Como, stadio Sinigaglia, 13 luglio 2004
Premessa: il reportage di questo concerto l’avevo scritto pochi giorni dopo su un foglio in un paio di sedute approfittando delle pause pranzo; detto foglio è andato perduto nel corso del tempo, quanto segue è un tentativo, a distanza di anni, di riscriverlo tenendo come base alcuni appunti che avevo buttato giù prima di scrivere l’articolo vero e proprio e che sono rimasti in mio possesso.

Il reportage: Scopro di questo concerto per caso: sto attendendo una pizza d’asporto nella mia pizzeria di fiducia, per una serata all’insegna del più becero svacco con una quattro formaggi divorata fantozzianamente in poltrona in mutande (ovviamente bianche e con classica “bolla d’accompagnamento”: non si sa mai, in caso di controlli domestici della Guardia di Finanza, ha ha ha!) davanti a quelli di QuiStudioAVoiStadio che delirano di calciomercato, quando sfoglio distrattamente l’allegato di un quotidiano locale. Alla voce Eventi scopro che da lì a una ventina di giorni allo stadio Sinigaglia di Como si terrà la nonsochenumero edizione dell’italico Monsters of Rock, con un cartellone comprendente Status Quo, Cheap Trick e soprattutto Deep Purple! Trattasi veramente di evento: intendo un concerto nello stadio degli azzurri comaschi! E aggiungiamo a questo anche il fatto che i parrucconi Deep Purple sono uno dei miei gruppi Hard Rock favoriti sin da quando avevo tredici anni. Mi intrigano anche i Cheap Trick, anche loro attempati chic-hard-pop-rockers marragani, mentre non mi stuzzicano molto gli inglesi Status Quo, al cui nome associo irrimediabilmente quel fastidiossimo pezzo (“Whatever you want”) che non manca mai nella playlist di ogni fine serata nelle discoteche meno “in” della zona e purtroppo non solo in quelle! C’è però il problema che i miei abituali compagni di concerto o sono degli impenitenti hardcorers/punks che su questi dinosauri del rock ci pisciano sopra inalberando il dito medio (magari pure canticchiando “no rockstar no” degli Youngblood! Gli Youngblood italiani, si intende), oppure sono degli hard rock-fans però non troppo militanti, oppure ancora sono tipi che magari ci verrebbero anche ma devono lavorare / la morosa-moglie non vuole / costa troppo / …seguono scuse varie a piacere (l’unico giustificabile resta sempre il buon vecchio Bassman, che adesso non ricordo perché non fosse venuto, ma di sicuro aveva i suoi buoni motivi, perché un vero rocker come lui non deve mai ricorrere a delle scuse ;-) !). Ma, a proposito di veri rockers, anch’io sono un hard rocker (almeno una volta all’anno!), die hard ride free (se poi questo slogan è proprio così), lavoro in proprio, il rock viene prima della donna (dio mio, mi sembro Chris Holmes degli W.a.s.p.! -ricordo una vecchia intevista su un “HM!” in cui detto tamarrissimo elemento si esprimeva più o meno in questi termini verso la propria ragazza che, però, era nientepopodimenochè Lita Ford!), la moneta per la serata in tasca ce l’ho, e non mollo l’idea! Recluto quindi il Cotta, class-rocker valchiavennasco appassionato di bands hard-rock meglio se keyboards-dotate (essendo stato il nostro tastierista di gruppi rock/hard locali quali Presence e Akuaragia…volevo risparmiargli la citazione della sua militanza nei terribili e scarsissimi punks Marones all’inizio dei 90’s assieme al sottoscritto, ma oggi non ho pietà!), e con un giro di parole lo convinco anche a prendere la macchina! La data è martedì 13 luglio, finisco di lavorare attorno alle 18.00, rientro, mi doccio e scendo nelle strade (già stanco di aspettare, chiaramente. E chi non coglie la citazione, peste lo colga!) ad attendere il mio socio di trasferta (nonché di squadraccia di calcio da tornei e di piscina), che bontà sua si presenta puntualissimo. Essendo io sempre molto attento all’abbigliamento da sfoggiare ai concerti, e non sapendo bene che tipo di fauna avrebbero potuto radunare Purple e compagnia al seguito, passo un quarto d’ora sotto la doccia a riflettere: fricchettoni sicuramente, e qui una maglia dei Tear Me Down con lo slogan “maledetti fricchettoni” (uno dei loro classici), se esistesse e soprattutto se ce l’avessi, ci starebbe benone! Temendo però che i Deep Purple attirino anche dei nazi (un po’ come capita ai Motorhead e, in altri ambiti, anche ai Business), detta t-shirt di gruppo anarco-militant non va già più bene! Insomma, dopo aver scartato ipotesi bizzarre tipo magliette di squadre di calcio d’Oltremanica e camicie in stile pseudo-seventies, opto per un look sobrio e dignitoso: polo nera “Fred Tirelli” (cioè presa qualche anno prima per 5.000 del vecchio conio all’Iperal, gestito appunto dalla famiglia Tirelli), jeans altrettanto neri e “scarp’del tennis” di Jannacciana memoria. La serata è tipicamente estiva, ancora soleggiata e senza troppo vento (che qui sul Lago non manca mai!), il traffico è scorrevole e noi due, fra disquisizioni calcistiche e cinematografiche, arriviamo a Como in tutta scioltezza. Troviamo parcheggio neanche troppo lontano dallo stadio e ci incamminiamo verso il catino del Sinigaglia, impianto in cui ero già stato un buon numero di volte, naturalmente sempre per ragioni calcistiche (credo che l’ultima volta fosse un Como-Inter di Coppa Italia in una freddissima serata novembrina o dicembrina dell’ormai lontano ‘91). Prendiamo i biglietti a un botteghino senza nemmeno fare troppa coda (non ricordo quanto costassero, ma se non sbaglio non era una cifra esagerata, anzi) e, dopo esserci scrollati di dosso un’insistente vecchia distributrice di volantini per un festival punk/ska, la quale voleva a tutti i costi rifilarcene una risma da cinquanta (ancora un po’ e si rischiava di ripetere la scena di Fantozzi e Filini al cimitero…chi conosce sa!), entriamo: il palco è posizionato davanti alla curva nord, quella dei tifosi comaschi, più o meno sulla tre quarti di campo, mezzo stadio è chiuso al pubblico (mi sale un po’ di tristezza, pensando agli stadi ben più grandi che i Purple riempivano nei 70’s), la metà aperta è comunque piuttosto piena e la gente continua ad arrivare. Da degli involucri in cartone sparsi un po’ ovunque per terra evinco che ai presenti veniva dato in omaggio un cd-promo del disco in uscita dei Motorhead (“Inferno”, che poi ho scaricato da internet e che è sicuramente il loro disco migliore fra quelli usciti diciamo da “1916” in poi), matematicamente quando entriamo noi le copie erano già esaurite… Prendiamo posto a metà gradinata, più o meno in centro dietro la porta, e ci sediamo su questi gradoni in acciaio che non sembrano nemmeno troppo stabili, vista anche la pendenza decisamente notevole della curva! Intravedo nel parterre qualche elemento conosciuto come Andrea (voce dei pop-strappafighe-rockers Tirlindana da Menaggio), i fratelli Giuse e Toby Salvadori e il cognato Gabri (che i lettori più affezionati conosceranno già), tutti comunque troppo lontani per tentare un saluto. In questo momento sul palco non c’è nessuno, noi speriamo con tutto il cuore che i tremendi Sette Vite (cioè il gruppo in cui suona il figlio di Galliani) abbiano già suonato (sebbene invece un’ipotetica skinhead band con Galliani Senior al basso e il Berlusca alla voce non sarebbe certo da scartare! Che poi dopo aver visto Ian Gillan assieme al compianto Pavarotti, impegnati in “Smoke on the water”, ci potrebbe stare anche questa) e, quando salgono on stage dei vecchi, sembra che la nostra preghiera sia stata esaudita; però detti vecchi si rivelano essere gli Status Quo e da alcuni vicini di posto veniamo a sapere che i Cheap Trick avevano già suonato (e anche i Sette Vite, pare, visto che i tipi si compiacevano di essere riusciti a perderli pure loro!)…merda merda merda, mi sarebbe piaciuto vederli quegli americanacci (che voi hardcorers conoscerete di striscio per la cover di “I want you to want me” che i canadesi Propagandhi piazzarono sul loro primo album). Gli Status Quo sono un po’ una palla, i pezzi sono molto simili fra di loro e molti riffs ricordano paurosamente quello della succitata “Whatever you want”, tanto che io e il Cotta più volte all’attacco di un brano ci troviamo a guardarci e a dire erroneamente “E’ questa!”. Nonostante la discreta lontananza dal palco non possiamo fare a meno di notare la terrificante somiglianza di Francis Rossi, voce e chitarra, con quell’attore romano burinissimo (Angelo Bernabucci), visto plurime volte in ruoli minori in svariati filmacci comici o pseudo-tali (tipo “Fratelli d’Italia” con Boldi, per dirne uno). Finalmente arriva “Whatever you want” che fa ballare tutta la metà del Sinigaglia. Intanto scende la notte e il tramonto lariano è come sempre uno spettacolo: la cornice è perfetta per l’arrivo dei Deep Purple e loro arrivano davvero! Praticamente della formazione storica ci sono Ian Gillan (voce), Roger Glover (basso) e Ian Paice (batteria), a completare la line-up due vecchie volpi come Steve Morse alla chitarra e Don Airey alle tastiere, gente che ha suonato con Liza Minnelli, Kansas e Dixie Dregs, oltre che con la sua Steve Morse Band (Morse, appunto), e con Ozzy Osbourne, Black Sabbath, Michael Schenker Group, Gary Moore, Rainbow, Whitesnake, Jethro Tull e mille altri (Airey); tutti chiaramente (molto) su d’età, ma tutti più che dignitosi nell’aspetto (anche se, ripeto, eravamo un po’ lontani dal palco). Attaccano con un pezzo nuovo (o comunque con uno che non conosciamo) e tutto il concerto sarà un’alternanza fra classici e brani più recenti (che non sfigurano affatto di fronte a quegli immortali capolavori); riconosco “Woman from Tokyo”, “Lazy”, “Space truckin’ ”, “Hush”, “Perfect stangers”, “Strange kind of woman” e “Black night”. Il pubblico va in estasi col super-classico “Smoke on the water”, ma a mio avviso la miglior prestazione i Purple la offrono con una “Highway star” da brividi lungo la schiena. Ci sono poi gli immancabili inframezzi nei quali Airey e Paice si esibiscono entrambi in un assolo (chiaramente toccando vette tecniche altissime) e durante quello di Ian il Sinigaglia esplode di stupore quando il batterista, che sta facendo una comunissima rullata velocissima tipo circo, ad un certo punto alza una mano facendo capire che sta eseguendo il rullo solo con l’altra! La band ha un gran tiro (qualcuno dirà/scriverà poi che sono stati un po’ moscetti…chissà se non lo erano allora!), oltre chiaramente al mestiere di chi è in giro da quarant’anni e più, e anche l’atteggiamento dal palco è gradevole e senza quel rockstarismo, che in effetti chi è una vera rockstar può tranquillamente evitare. Bel concerto, davvero! Peccato solo per aver mancato i Cheap Trick…

 

ROVINA HARDCORE FESTIVAL – Monza (Mi), C.s.a. Boccaccio, 25 Aprile 2005
Questo è uno dei vari/innumerevoli festivals/concerti a più bands di cui leggo quasi quotidianamente durante la mia mezzoretta serale di navigazione (anzi, navig-azione, che sono un old school hardcorer!) su internet nelle varie messageboards e nei vari forum Hc. Certo, ormai mi limito a prenderne atto, a curiosare fra i nomi dei gruppi se ce n’è qualcuno con gente che conosco, se suona qualche band sopravvissuta negli ultimi cinque/sei anni, se fra i nomi dei nuovi gruppi ce n’è qualcuno geniale/divertente/stupido/citazionistico/…in breve che catturi la mia attenzione. Tutto ciò perché mai (più) e poi mai (più) mi sento tentato di andarci, e in questo credo che giochi molto il fatto che il 99% di queste bands non mi interessa/attrae minimamente, più che gli eventuali (anzi, certi!) incontri e chiacchierate che farei con i survivors della mia epoca o al limite con qualche new-entry (chiaramente maschile!), generalmente attratta dai miei sproloqui fanzinari. Però poi alla fine, suonassero anche, che so, dei riformati 7 Seconds, Black Flag, Youth Of Today, Hüsker Dü, Government Issue, ecc.ecc. una settimana sì e l’altra pure, rigorosamente solo pezzi storici e niente di nuovo/recente, ok, chiaro, ci andrei di corsa probabilmente (ovviamente se in giorni e luoghi a me comodi e favorevoli), però per quanto il juke-box sia sempre piacevole, quanto senso avrebbe questa specie di macchina del tempo (se di macchina del tempo si può parlare con dei quaranta/cinquantenni nel 95% dei casi brutti e sfasciati sul palco!) ? Quindi mentre nelle notti italiche giovani e meno giovani Hardcore/Punk bands vanno on stage ad urlare la propria rabbia verso il sistema (metto apposta questa frase trita e ritrita nella speranza che qualche giornalaccio trendy tipo “Rocksound” mi ingaggi come articolista, eh eh!), io e quelli come me stiamo a casa (o comunque usciamo a fare altre cose), al massimo mettiamo su uno “Start today”, un “Nothing more to be said”, o un “War crimes, inhuman beings” (di chi siano questi albums do per scontato che lo sappiate; a te profano/a invece basti solo sapere che sono qualcosa che per me e quelli come me hanno significato parecchio e, chiaramente, non sto parlando solo a livello musicale). Ah no, non è che mi senta vecchio ai concerti, figuriamoci! Finchè mi danno regolarmente otto/dieci anni di meno (eh sì, ho fatto il patto satanico come quello di “Amici Miei atto terzo”!), girano dei ventenni che “me pajono mi’zio” e comunque qualche altro elemento della mia generazione (se non di quella prima) è ancora attivo, il problema non si pone; si pone invece il problema che uno ai concerti ci va (soprattutto e quasi sempre) per chi suona e se chi suona non mi interessa… Tutto questo preambolo serve ad introdurre il mio prepotente (?) rientro sulle scene Hardcore dopo ben due anni e mezzo circa (concerti locali e dei Gradinata Nord esclusi) dall’ultima volta in cui mi sono fatto vedere in tali situazioni (un festival con approssimativamente un migliaio di gruppi al Pacì Paciana di Bergamo in memoria di Giorgio, il defunto batterista dei LaFalce; era quindi il novembre 2002), sempre che la memoria non mi tradisca! E sono due i motivi che mi spingono a prendere la decisione di andarci: 1) suonano gli Atrox, gruppo che da più di quindici anni ormai è ai vertici della mia personale top ten Hardcore e oltretutto potrò finalmente consegnare a Conco -batterista del gruppo in questione- degli lp’s (fricchettonate anni sessanta assortite che ho recuperato a prezzi stracciati da un conoscente) che gli tengo da parte da secoli, evitando così i salassi postali per spedire qualche vinile a nemmeno cento chilometri di distanza. 2) Marione “Agghiastru”, storico scenester siculo/sondriese basato per lavoro in quel di Milano, mi tampina con la proposta per giorni e giorni, usando spesso il telefono del lavoro ovviamente: alla fine cedo al fascino mediterroneo e accetto! In un primo momento sembra che l’auto per la trasferta sia quella del Lele, il Gabriel Pontello sondriese (bassista e leader dei RedBloodHands, che fu mio compagno di gruppo per circa tre anni nell’avventura Eternit), cosa che contribuisce parecchio a farmi propendere per il sì, ma all’ultimo momento, quando io ormai non posso tirarmi indietro e del resto neppure lo voglio visto che sono entrato nel mood giusto, la presenza del suddetto salta per motivi misteriosi (che questo facesse parte della strategia del diabolico siciliano per farmi presenziare al festival?)… lo stesso Mario, causa lavoro, non farà rientro in Valle nel tardo pomeriggio come previsto (ma solo post-concerto), così che il nostro contingente si dimezza e dalle Nordlands di quassù parte lo strano ed inedito duo sottoscritto/Rastaman. Trattasi di giovane amico di Marione, proveniente dall’Alta Valle, straight-edge con lunga chioma rasta (una pesante mutazione genetica derivante da una copula fra gli Youth Of Today e i Bad Brains!) che mai avevo conosciuto prima di quella sera, ma solo visto una o due volte di striscio. Ormai rassegnato a prendere la macchina, do disposizioni a Marione affinchè XBobMarleyX arrivi almeno con mezzi propri a casa mia (e possa quindi poi far ritorno a casa propria in egual maniera) e che mi telefoni per accordi. PeteXXXTosh (che mi deve scusare per queste battute da avanspettacolo, ma non ricordo il nome! Lo so che basterebbe un sms a Marione, ma perché privarmi di queste squallide battutacce per tutto il resto dell’articolo ;-) ?) è puntualissimo (oltre che, ovviamente, riconoscibilissimo!) e, dopo i dovuti convenevoli, partiamo. Tipo simpatico e di ottima conversazione (anche se con una tendenza al nozionismo estremo Hardcore stile Emilio Celora -articolista di “Blast” e “Dynamo” nei primi anni novanta), il nostro fa sì che il tragitto Colico-Monza (in una tiepida serata primaverile) passi piuttosto velocemente, complice anche un traffico quasi inesistente, tanto che arriviamo con un anticipo mostruoso (tipo Fantozzi alla stazione in attesa del duca conte Semenzara) e siamo costretti a cazzeggiare nelle strade presso il Boccaccio fino all’arrivo di Marione e di suo fratello Daniele (anche perché non ci eravamo accorti che l’entrata era da un’altra parte e non era quel cancello chiuso davanti a cui stazionava un nugolo di punkabbestia…e meno male che un duo di straight-edgers dovrebbe essere la summa della lucidità!). Entrati (ormai si è fatto quasi buio e, per quel che ricordo, trattavasi di capannone con qualche costruzione più piccola attorno) ho modo di rinnovare il classico rito dell’ “oh, ma quanto tempo?!”, corredato da virili toccate di balle e machi abbracci, e meno equivoche pacche sulla schiena e strette di mano. (Ri)incontro via via il Fornaca (che mi salda un vecchio debito che manco ricordavo!), il Pulce, Borys, Mila, Manuel Piacenza (che coi capelli non più cortissimi è uguale identico all’elicotterista di Magnum P.I. !), ovviamente Conco e Paolino Shock, Fulvio di Alessandria, qualche novarese (non faccio nomi, che già ho fatto con loro le mie belle figuracce live scambiandone uno per un altro!) e mi perdoni chi ho scordato, qualcuno c’è di sicuro! Inoltre noi quattro dell’Alta Lombardia siamo raggiunti da altri due conterranei di base lavorativa a Milano: il Rocco e, direttamente da Gay Tv, il Renza. Nel frattempo inizia il concerto: parte un gruppo, inglese pare, non in cartellone (quindi il nome scordatevelo): suono orrendo, musica diciamo Garage-Psycho-Core e lo diciamo anche un po’ a caso, tanto per dare aria alla bocca (o più appropriatemente, carta alla penna, anzi caratteri alla tastiera del pc!). Comunque sia, band per me interessante tanto quanto fictions tipo “Carabinieri” o “Un medico in famiglia” (che tristezza vedere eroi come Paolo Villaggio e Lino Banfi ridotti così…Villaggio poi critica la propria partecipazione e sputtana il programma e anche Banfi non ne va particolarmente fiero, ma tant’è…), quindi me ne esco in cortile per lamentarmene con qualcuno e trovo Paolino Shock e finisce che lamento tira lamento stile vecchi al bar e ci lamentiamo anche di morose e mogli (la sua, che gli ha anche già dato ben tre figli) che a casa romperanno matematicamente i coglioni per i rientri ormai presso l’alba! Seconda band: i riformati Ohuzaru da Venezia. Oh, bell’Hardcore senza fronzoli, gran tiro, padronanza di strumenti e palco (i tours europei che fanno spesso si vede che aiutano), ma c’è un nuovo cantante al posto di Dudu e per me gli Ohuzaru senza Dudu sono come gli Iron Maiden quando cantava Blaze Bailey! Quindi esco ancora e anche stavolta becco un Atrox, Conco, con cui mi intrattengo un bel po’, prima dell’arrivo di alcuni vecchi soci e socie di Conco, quarantenni già da qualche annetto, non suonatori o ex, ma veterani di mille e più concerti visti fra la Brianza e il milanese: gente simpatica e tacitamente da me ammirata! Coi giapponesi Beyond Description però vado (quasi) sottopalco (sì, il palco c’era e anche grandino); mai li avevo sentiti (avevamo un 7” in distro, ma qualcuno crede ancora che li ascoltassimo i dischi prima di scriverne le definizioni sul catalogo?!), ma sono così esotici e carini coi loro occhiettini a mandorla e (per tre quarti del gruppo) l’aria da impiegato da cubicolo che alle 18.00 molla occhiali, completo da ufficio e valigetta e passa allo strumento (il chitarrista è invece un lungocrinito metalhead), che devo assolutamente vederli! E loro, aspetto innocuo a parte (sempre escluso il chitarrista che vedrei bene nei Sabbat -gli storici black/thrash-metallers giapponesi attivi da più di vent’anni, di cui ricordo una foto-culto col chitarrista/cantante immortalato in mutande di cuoio e un coglione clamorosamente di fuori!), tirano giù un bombardamento stile secondo conflitto mondiale nel Pacifico, con un Hardcore/Thrash veloce, pesante e dai suoni pieni e cupi. Pezzi un po’ simili fra loro e quindi al sesto / settimo la noia inizia a fare capolino, ma nel complesso gruppo notevole! Força Macabra: sì, quel gruppo di matti finlandesi che fanno Hardcore cantato in portoghese come tributo alle vecchie bands Hc brasiliane. Purtroppo, non so il perché però, sono privi del loro nome di punta, il batterista Otto (no, almeno Nove! – n.d. Fantozzi – e qui sono mio malgrado costretto ad aprire una digressione su una serata all’Elisir del giugno 2006, quando io, il Bassman e l’Alex stavamo portando il nostro amico comasco Nicola a fare un tour dei peggio locali della nightlife della zona. Fuori dall’Elisir il Bassman era stato abbordato da due signore sui cinquanta e anche noi altri tre ci eravamo fermati a chiacchierare con queste ruspanti esponenti della femminilità locale. Ad un certo punto arrivò un amico delle due, che si presentò come Otto: inevitabile quindi da parte mia e dell’Alex la riproposizione della scena di “Il secondo tragico Fantozzi” con l’ambasciatore tedesco: dal ‘no, almeno Nove’ mio al ‘Dieci!’ dell’Alex, poi io ‘Undici!’ fino al finale in cui la spunta il sottoscritto con ‘Trenta e lode, tiè!’. Il tutto davanti ad Otto, imbarazzatissimo, alle due ladies interdette e a Bassman e Nicola che si spanciavano dalle risate…), ex di mille bands made in Suomi (fra cui gli oscuri Satanic Evil, duo black metal con all’attivo uno storico demo nel ’90, storico ma non certo epocale), e devono quindi arrangiarsi con un set ridotto dove alla batteria siede una ragazza spezzina (batterista dei …boh? Di qualcuno comunque di sicuro perché ci sapeva fare) che, probabilmente dopo una sola prova nel pomeriggio, fa il miracolo e consente ai restanti Força Macabra di fare la loro porca figura con un Hardcore un po’ metallizzato e un po’ crusteggiante, con tanto di cover di “Paranoid” (Black Sabbath, ma gente, doverlo dire è un po’ come dover dire che Milano è in Italia!) in chiusura. Visivamente li ricordo poco, a parte un gonfio e sgradevole cantante, visto che già al secondo pezzo ero in fondo alla sala perso in deliranti conversazioni a sfondo goliardico-(omo)-sessuale con Renza, Rocco e altri. Thrash Brigade: qui mi avvicino al palco (diciamo una decina di metri, niente “into the pit”!) dato che la Brigata del Thrash vede alla voce il mio socio Fornaca e alla batteria l’altro socio Pulce, personaggi che conosco ormai da più di dieci anni. A dispetto del nome il loro è un Hardcore nervoso, quasi schizoide/schizofrenico, con vari stacchi, breaks, ecc., ben eseguito e col Fornaca decisamente animale da palcoscenico; bravi, ma non il mio tipo di Hc. Faccio un piccolo inciso sull’uso ed abuso dell’aggettivo Thrash che si fa in certi ambiti Hardcore oggidì: quando sarò capo del mondo ne vieterò l’uso, o al massimo ne consentirò l’utilizzo solo con la “t” minuscola, giacchè per un metallaro degli 80’s come me il Thrash, quello vero, è Anthrax, Metallica, Exodus, Slayer, Megadeth, Kreator, ecc.ecc. Disprezzo: ho appena detto Kreator e ora tocca al Mille Petrozza della Garfagnana, al secolo Borys Catelani, col suo combo (uno dei tanti in cui mette lo zampone) dedito ad un cupo Crust-core molto metallico (vedasi anche intro e stacchettini live rubati ai classici del Thrash/Death, sempre poi che non me li sia sognati!), ben suonato, compatto e con un suono modello muro di cemento super-armato ed estremamente vibrocompresso! Bravi anche loro e pure vari, tanto che addirittura un difficilone come il sottoscritto riesce a gradirli dal primo all’ultimo minuto (avrete notato fra l’altro come non sia stato fatto nessun inutile accenno al fatto che i Disprezzo abbiano una ragazza al basso). Comunque noto proprio ora che anche loro nel nome seguono il trend/presa per il culo del nome Discharge, come già i vari (cito a caso e a memoria) Diskonto, Dischange, Disclose, ecc. (e chi si ricorda il critico a riguardo 7” degli Active Minds “Dis is getting pathetic”?). Borys poi mi omaggia gentilmente del loro cd, non credo di avergli promesso una recensione, ma gliene faccio una su due piedi un po’stringata: è davvero un bel disco che merita! ;-) dico sul serio, neh! E infine, ad orari da cappuccino e brioche, gli Atrox. Formazione storica, a parte il nuovo bassista (sì, nuovo come Jason Newsted che, dopo dieci e passa anni di militanza nei Metallica, veniva ancora indicato come “il nuovo bassista”), Vincenzo, in realtà appunto nel gruppo da anni ormai, in sostituzione dello storico Roberto, occhialuto membro fondatore nel lontanissimo 1984, ora emigrato in Califoggia per via del suo lavoro di ingegnere informatico, che l’ha portato dalla nebbiosa Brianza alla soleggiata costa californiana. Comunque poche storie, gli Atrox danno la paga a tutti gli altri gruppi della serata: il solito Paolino Shock, showman coi soliti discorsetti fra lo sloganistico e l’ovvio, ma che in fondo dicono quasi sempre delle gran verità (e forse questo è anche il modo migliore di presentare certi argomenti, diciamo così socio-politici, al pubblico Punk-Hardcore che, non nascondiamoci dietro un dito -medio?-, per un buon 85% non brilla certo per intelligenza ed acume!), Conco la solita macchina da guerra dietro la batteria (mi piacerebbe scrivere qua i gruppi per cui il nostro ha suonato o ha fatto da turnista, ma non voglio sprecare due o tre pagine di fanza!), Francesco, il chitarrista sosia di Zinedine Zidane, col suo suono veloce, tagliente e chirurgicamente preciso, e infine Vincenzo, bassplayer extraordinaire (oltre che musicista “vero” di mestiere con carriera nella Classica) sempre impeccabile e granitico. Ok, sugli Atrox devo ammettere che sono sempre un po’ di parte, ma che volete farci, a me un disco come “Fiori neri” (’90) non è che abbia cambiato la vita, ma di certo me l’ha resa più apprezzabile, và! Comunque per allungare un po’ la minestra di questo, già lungo, report, mi viene in mente di fare dei paralleli calcistici, paragonando questa serata ad una di quelle partite all-star, dove ad ogni giocatore può corrispondere una band. Partiamo col giochino alla QuiStudioAVoiStadio? Partiamo! Allora, agli sconosciuti inglesi, beh, può giusto corrispondere qualche onesto/scarsotto pedatore albionico, che so un Carragher del Liverpool; agli Ohuzaru direi un buon Chino Recoba nella versione della strepitosa mezza stagione al Venezia nel 98/99; ai Beyond Description chiaramente Hidetoshi Nakata (che si è ritirato a soli ventinove anni…bah, 10-100-1.000 Ballotta, altrochè!); ai Força Macabra ovviamente Jari Litmanen, e chi se no? Certo che fra Giappone e Finlandia la scelta è proprio ristretta, chi mettiamo, Miura e Aaltonen?! (beh, però, Nakamura al posto di Nakata, perchè no?); ai Thrash Brigade, essendo milanesi, facciamo corrispondere un Paolino Maldini; ai toscani Disprezzo direi Cristiano Lucarelli; ma quando scendono in campo, anzi, quando entrano sul terreno di gioco (che l’altra è troppo berlusconiana) gli Atrox, è come se dalle nebbie brianzol-milanesi del passato sia emerso il mitico Pepìn Meazza…e non ce n’è più per nessuno! Hardcore velocissimo, tecnico, originale/personale (esiste un gruppo che suona “alla Atrox”? Non credo proprio. E per inciso, uno che suona alla Upset Noise periodo ‘87/’91? Alla Impact del 12” dell’87? Alla Crash Box dei due albums? Alla Negazione del mitologico “Lo spirito continua”? Per dirne solo quattro e per sottolineare ancora una volta l’unicità e l’incopiabilità di certi storici gruppi Hc italici; più facile invece copiare, male ovviamente, essendo unicissimi pure loro, Kina e Wretched, altre vecchie glorie dei tempi che furono), con quei testi tipicamente alla Paolino Shock, compatto come rarissimamente a questi livelli capita di riscontrare (e anche a livelli, sulla carta, più elevati, comunque…) ed anthemico, tanto che nel “pit” la gioventù Hardcore si scatena e anche “Joey Belladonna” (un clamoroso sosia totale del cantante degli Anthrax che pare uscito direttamente dal 1987, capello trattato, tuta da rapper e scarpa alta compresi nel prezzo!) pare apprezzare con accenni di assenso. Durante la cover dell’inno partigiano “Fischia il vento” (che incisero sul loro secondo album fra l’altro), il singer dei Força Macabra, visibilmente ubriaco, si lascia andare a sguaiati vocalizzi impastati accompagnati da corna al cielo e movimenti scomposti e al ralenti, rendendosi quindi ulteriormente sgradevole! Purtroppo Rocco e Renza se ne sono già dovuti andare a causa dei loro autisti, due milanesissimi doc. soprannominati i Pali e Dispari da me e dal satanico barista, visti accento e aspetto del duo in questione, paurosamente simili a quelli del duo di Zelig! Quindi a rappresentare (ho nostalgia di quei tempi, non molti anni fa, in cui usavamo ironicamente e molto spesso questa parola) e a tenere alta la bandiera dell’Alta Lombardia fino all’ultimo restiamo solo io, Rob Marley (mi sono ricordato, si chiama Roberto!!) e Marione (che vi affianca quella della Regione Sicilia, chiaramente). Il finale di serata è quello classico, uguale a quello di mille altri concerti visti in passato: saluti agli ultimi amici/conoscenti rimasti (con cui si perde generalmente una buona mezzora!), recupero dell’auto (con controllo apprensivo stile Fantozzi se c’è ancora l’autoradio nel vano-cruscotto e se non c’è qualche multa per un divieto di sosta non notato), svacco a bordo dell’equipaggio provato dal bombardamento sonoro, partenza verso le nostre amate Nordlands, commenti musicali sulla serata, commenti attitudinali sulla serata, commenti pecorecci sulla serata, commenti pecorecci in genere, deriva sul pecoreccio in assoluto, arrivo al parcheggio dietro casa mia (dove stavo allora – nota 2008 / dove son tornato a stare – nota 2011), scarico e passaggio dei miei due compagni di viaggio sull’auto di Roberto il chitar-rasta (suona detto strumento; questa comunque è rubata ai Rasta&Peace Corporation, band triestina dei primi 90’s che suppongo quasi nessuno ricordi), sprezzante infilata della Punto nel primo buco libero del parcheggio riservato ai condomini dell’altro condominio e non a quelli del mio, tratto parcheggio-casa con passo strascicato, entrata con passi da puma, cambio di indumenti con prudenza da gatto svizzero e a letto sperando che lei non si svegli e veda l’ora: è dura essere (ancora) un hardcorer ;-) !

 

ANTHRAX – Trezzo sull’Adda (Mi), Live Club, 29 aprile 2006
Prologo: io gli Anthrax li avevo visti a Milano da ragazzino e conoscendo di loro solo due albums sui tre che avevano fatto fino ad allora (il primo mi era ancora ignoto), quando il Metallo lo ascoltavo da poco più di due anni e il Thrash vero e proprio da un annetto scarso. Da allora non ho più visto un loro concerto. Una vita dopo mi viene offerta la possibilità di completare uno dei tanti cerchi che la vita stessa offre la possibilità di chiudere.

La recensione / The review :
E’ il solito immarcescibile Marione ad informarmi di questa data lombarda dei moshers newyorkesi, da un anno o due ritornati alla line-up classica della seconda metà degli 80’s, e ovviamente stavolta non posso esimermi dal presenziare (nel ’05 li avevo mancati causa concomitante partita di torneo di calcio a sette, peraltro persa rovinosamente dopo inferiorità numerica pressochè da subito…)! Ho detto moshers, che deriva dal termine ‘mosh”, termine di cui per anni e anni mi sono riempito la bocca senza sapere bene di preciso cosa significasse, al di là dell’indicare la danza fatta di violenti contatti con gli altri del pubblico sotto il palco, ovviamente a ritmo di musica (specialmente quei tempi medi-cadenzati tipici di parecchi pezzi degli Anthrax). Internet ha colmato questa lacuna, parrebbe infatti che il termine sia semplicemente l’acronimo della descrizione data da Vinnie Stigma degli Agnostic Front in riferimento alla danza del sottopalco: “March Of Skin Heads”, anche se altre fonti sostengono si tratti di un’uscita sullo stesso argomento da parte di Darryl Jennifer, bassista dei Bad Brains, “Mash down Babylon”, con la parola ‘mash’ che, pronunciata con l’accento giamaicano, diventava ‘mosh’… Torniamo agli Anthrax, và! Deputo subito il buon palermitan-valtellinese all’acquisto dei biglietti (23,00 euro…li mortacci di Belladonna, citando proprio un sms di Marione!) e vedo un po’ chi recuperare per la trasferta: alla fine, dopo qualche telefonata e/o sms, dei papabili resta il solo Alex ad accompagnarmi da quassù (anzi, a portarmi in loco, visto che la macchina la prenderà lui). Diego salta all’ultimo (però l’anno prima lui c’era), Renza è dato per disperso (probabilmente nelle segrete di Gay Tv, dove il nostro lavora come grafico) e l’intellettuale del Punk/Hardcore italico Rocco si trova in Kosovo, in missione umanitaria, ovviamente eh eh! Ad aspettarci in quel di Trezzo troveremo Marione e il suo fido scudiero Simone (altro veterano dell’Hardcore/Thrash sondriese, pure lui emigrante a Milano per lavoro), appuntamento da non mancare anche perché ci devono consegnare i biglietti! Arriva così il 29 aprile: io ho lavorato tutto il giorno in Valsassina con un mal di testa stile Dave Lombardo nella parte finale in doppia cassa di “Angel of death” inserito nella fronte a volumi da Monsters of Rock, ma come per incanto, durante i circa quaranta chilometri che mi separano da casa, l’emicrania svanisce (forse anche grazie ad un paio di compresse piuttosto “cariche”! …unica droga, ahimè, che il sottoscritto, giocoforza, si concede), tant’è che posso anche completare l’opera di ripasso degli albums Anthraxiani con quel “Fistful of metal”, da cui so già faranno la sola “Metal thrashing mad” e al limite una fra “Panic” e “Deathrider”, però per completezza (e anche perché quel disco è comunque bello) me lo sparo tutto fino a Colico. A casa mentre mangiucchio qualcosa mi si pone il classico problema (un po’ da checca isterica impenitente, va detto!) dell’ “oddio, cosa mi metto al concerto?”: dopo aver scartato, per raggiunti limiti d’età, ma temo anche e soprattutto per non avere più questi capi d’abbigliamento in casa, cappellino “Not” con visiera, maglietta da skater di “Thrasher Magazine”, bermuda floreali al ginocchio (questi in realtà li avrei anche, gradito regalo della mia tipa l’anno prima) e Nike alte da basket (lo so che tu profano/a non lo sai, ma questa era la “divisa ufficiale” del thrasher Anthraxiano attorno all’87 / 89), opto per l’unica t-shirt Metal pulita disponibile, una dei Celtic Frost (quella di “Morbid tales”, ahimè rossonera), peraltro vagamente attinente (gli Anthrax erano abbastanza amici dei Celtic Frost negli 80’s, e citerei anche il pezzo degli S.O.D. -con due Anthrax in formazione- mezza celebrazione e mezza presa per il culo dei Frost), i soliti jeans neri e scarpe da tennis brutte e disfatte in previsione di mosh selvaggio su pavimento cosparso di birra e piscio! L’appuntamento con l’Izzy Stradlin del Salento (sbeffeggio lontane origini pugliesi da parte di un nonno e doti chitarristiche dell’Alex tutto in un colpo solo!) è alle 20.00 al termine della sua giornata lavorativa all’Iperdiscount (da me ribattezzato IperdisCountGrishnack in onore di Burzum. Aggiornamento 2011: ora che Alex è passato a lavorare all’Eurospin non posso esimermi dal ribattezzare detto supermercato Euronymouspin, chiudendo il cerchio Burzum/Mayhem! I black-metallers con un minimo di senso dell’umorismo mi staranno adorando, haha!) di Piantedo, il paese dopo il mio andando in direzione Sondrio (giusto per fare un po’ di lezione di geografia locale!). Alex si presenta con una longsleeve “d’epoca” (virgolettato perché mi sa che al massimo è del ’95) dei thrashers nostrani S.N.P. (quella tamarrissima “you know excess”), io trasferisco me stesso sulla sua auto e in un romantico tramonto primaverile da copertina di romanzo della serie Harmony, partiamo alla volta di Trezzo con una minuscola mappa del “come arrivare al locale” scaricata da internet e stampata la sera prima dal sottoscritto. Appena passato Lecco, dopo una sociologica discussione su metallo ed hardcore come passione passeggera di molti/troppi, rapportata a due quasi trentaquattrenni come noi ancora pronti ad esaltarsi come dodicenni alla sola vista, per esempio, della copertina di “Spreading the disease” (ancora recentemente, fra l’altro, chi scrive, ascoltando “Kill’em all” dei Metallica in macchina e facendo air-drums sul pezzo ‘Motorbreath’, quasi riesce a centrare un veicolo sull’altra corsia…), il romantico tramonto di cui sopra si trasforma in uno scenario degno dell’inizio di “Raining blood” (degli Slayer, ma gente, doverlo dire è un po’ come dover dire che Madrid è in Spagna!), con pioggia battente e tuoni e fulmini in anticipo sull’estate (ora, forse questi ultimi non c’erano, ma al fine del racconto direi che andavano proprio messi!). Comunque sia, arriviamo sul posto e subito una scena/visione mi ripaga già abbondantemente dei soldi per l’ingresso: tipo sui quaranta/quarantacinque, metallaro negli 80’s / probabilmente impiegato oggi, nerdissimo, ormai pelato, occhiali molto spessi, giubbino di jeans senza maniche e jeans elasticizzati, birra alla mano, che vaga senza meta precisa in mezzo alla strada prendendo delle “onde” paurose! Mentre io chiamo Marione per sapere dove sono loro, Alex si adopera per parcheggiare, rischiando di centrare in pieno la macchina da cui era appena sceso praticamente il wrestler The Undertaker in persona, completo di catene e sguardo pieno d’odio (nonché amichetto non molto dissimile al seguito): superfluo dire che in caso di urto, fuga precipitosa verso casa e addio Anthrax, eh eh! Marione e Simone arrivano esattamente venti secondi dopo il nostro parcheggio: io mi piazzo un sigaro (spento, che sono straight-edge) fra i denti e sentenzio: “adoro i piani ben riusciti” (ora, se non sai di chi è la citazione, chiudi immediatamente questa fanza e vai a leggerti il blog del Botka! Scherzo, eh prof.? Comunque: www.sonicheritage.wordpress.com). “Ma dai, una maglia dei Toxic Youth?! Ma chi cazzo è quello?!”, esclamo fra il serio e il faceto notando un tipo di spalle intento a scendere da una macchina: trattasi del Lele (cugino milanese del Papo -Gradinata Nord- e fratello del Max, bassista dei Toxic Youth, appunto) con un gruppo di amici; ci intratteniamo qualche minuto con lui, minuti in cui io trovo anche il modo, continuando chiaramente a chiacchierare, di pisciare su un muro, sperando di non essere immortalato nell’atto dal fotografo di qualche quotidiano locale per un articolo dal titolo tipo “adolescenti maleducati al concerto”! In formazione linea mediana di centrocampo a quattro (io e Marione liberi di svariare davanti, Alex e Simone dietro a fare da frangiflutti) ci incamminiamo in questa zona industriale brianzol-milanese seguendo un percorso oltremodo tortuoso e lunghetto. Lungo la via incontriamo due esemplari di metallaro femmina, specie che ai miei tempi era praticamente considerata protetta quanto la tigre siberiana, visto il numero esiguo tendente al nullo, almeno dalle mie parti. Delle due, una è abbastanza carina (secondo il mio personalissimo cartellino -Rino Tommasi docet- la valuto con un 6,5: sono becero e tendente al sessista, lo so, ma d’altra parte sono un provinciale e lavoro nell’edilizia, cosa pretendevate da me?); ovviamente è l’altra (prendendo a modello alcuni nomi del metal estremo: un incrocio fra Cronos e Shane Embury, con la stazza di Rick Rozz e l’altezza di Dan Spitz; per il profano: grossa e ricciolona “stirata”, gonfia, fisico tipo boiler o silos granario, alta 1,20) a rivolgersi al nostro gruppetto chiedendo un cavatappi e non rimanendo impressionata dallo sproloquio di un Alex in versione sommelier (quale poi in realtà il nostro è sul serio), dopo la nostra risposta negativa. Arrivati finalmente all’ingresso del locale ci piazziamo in coda e mentre Marione va a recuperare i biglietti, abbiamo modo di ammirare una simpatica scenetta fra uno dei buttafuori (praticamente Clarence Seedorf con fisico alla Mike Tyson) ed un un lungagnone lungocrinito completamente ubriaco e molesto, abbigliato con una longsleeve dei DarkThrone (no, non la famigerata “Norse Arisk Black Metal” -dove Arisk in norvegese sta per ariano-, sarebbe stato troppo bello!); questa scenetta (allontanamento forzato del black-metaller e suo successivo ritorno alla carica, sempre più ubriaco e molesto) si ripeterà due o tre volte, finchè “Seedorf” e un suo (bianco) collega non portano via di peso “Nocturno Culto” e, lontano dagli occhi lontano dal cuore, gli fanno probabilmente un “culto” così! Intanto si mette pure a (ri)piovere, ma fortunatamente si è fatto il tempo di entrare: salita una doppia (o forse tripla) rampa di scale, facciamo il nostro ingresso nella “hall” dove si svolgerà il concerto, hall che noto subito essere piuttosto grande, con chilometrico bancone del bar (andrebbe bene per i modenesi Lomas che in un loro pezzo dicevano “sopra i banchi si è in troppi e non si riesce a far su, certi banchi dovrebbero esser lunghi di più”) nelle retrovie e aree rialzate con tanto di tavolini ai lati del “pit”: in pratica un discotecone virato sala da concerti “rock”. Do un’occhiata al merchandising degli Anthrax: orrendo e costosissimo, come del resto quello “bagarino” che c’era di fuori; notiamo una cosa tipo “se compri per tot. euro (non mi ricordo quanti), potrai incontrare gli Anthrax dopo il concerto”, e noi pensiamo di fare acquisti a raggiungimento di tale cifra, ma in otto (nel frattempo abbiamo incontrato a sorpresa i prodi Tommo, Teo, Tino e Cinque che, lo so, detto così sembrano i protagonisti di un cartone animato, ma che in realtà sono quattro nostri soci del morbegnese) e pretendere ugualmente l’incontro coi cinque paisà-newyorkesi! Comunque mi permetto di dare un suggerimento di marketing agli Anthrax (e a tutti quei gruppi storici ancora in circolazione): si fossero presentati con delle magliette copia di quelle storiche degli 80’s (Among the living, Mosh it up, I am the law, ecc.), avrebbero venduto come minimo il doppio, o quantomeno avrebbero guadagnato un acquirente, cioè il sottoscritto (avevo due maglie degli Anthrax, una nera di “Among the living”, che già nei primi anni ’90 mi andava stretta e corta, con risultati tipo ombelico in bella mostra stile ragazzina trendy, e quella “mosh it up” che nell’88 mi stava tipo toga di senatore romano e che quindi ha resistito fino a pochi anni fa quando, ormai lacera e bucherellata, è stata retrocessa al ruolo di straccio per la polvere). E poi, perché non c’era la sciarpa Anthrax stile stadio?! Mio sogno inconfessato da diciannove lunghi anni, e come invidiavo il Max (di Genova, ma originario di Colico, just for the record come si dice in questi casi) che ce l’aveva! Va detto però che la maglietta nera da football americano con dietro numero e cognome dei vari componenti, per due secondi mi ha solleticato: ovviamente, con una buona dose di autoironia, quella con scritto Bello (altrettanto ovviamente da Frank Bello, bassista degli Anthrax e quasi omonimo di Franco Bello, il personaggio interpretato dall’indimenticabile Franco Franchi in “Mazzabubù…quante corna stanno quaggiù?”). Ma adesso è tempo di support-band, tali Beyond Fear, “la nuova band dell’ex cantante dei Judas Priest, Tim “Ripper” Owens”, come recita il manifesto della serata. Ora, a parte che l’unico cantante dei Judas Priest degno di questo nome è lo Zio Rob (Halford), questo Ripper ha oltretutto legato la sua opera canora agli unici due albums senza Halford, che sono due ciofeche di Metal-moderno da far rabbrividire e ritorcersi i vinili targati Judas Priest anni settanta/ottanta, se i vinili potessero ritorcersi anche senza essere messi per ore sotto il sole di agosto (vero Rocco?). Capirete quindi la mia diffidenza verso il signor Ripper e la sua nuova creatura. Comunque sia, io e l’Alex ci piazziamo suppergiù in dodicesima fila e vediamo salire sul palco quattro americanazzi (suppongo, Owens è uno yankee), grossi, per metà calvi e barbuti e per l’altra metà capelloni; pochi secondi e arriva Ripper che, grosso pure lui, con gilet di pelle e braccia nude a mostrare il tatuaggio “Ripper” stile Regina Coeli, basette e cappellino con visiera sopra capello corto, più che un metal-singer sembra un autista della BetonAlpi di mia conoscenza. Partono, hanno un suono decente e picchiano duro mostrando ottima tecnica, solo che fanno uno dei Metal più piatti e monocordi che abbia mai sentito, peraltro senza mai schiodarsi dallo stesso identico tempo medio tendente al lento: du’palle! The Ripper (nick rubato ad un pezzo classico dei Judas Priest, parte del cui testo, quella in cui si dice che “when you least expect me and you turn your back I’ll attack”, se riletta oggi dopo che Rob Halford ha dichiarato la propria omosessualità, può essere vista anche sotto un’altra ottica, eh eh! Fra l’altro posso “vantarmi” che nel lontano ’86, quindi parecchi anni prima che Rob facesse outing, quando acquistai un “HM!” con in copertina lui in completa tenuta gay-sadomaso, esclamai rivolto ai compagni di scuola che erano con me in edicola: ‘madonna, ma chi è ‘sto frocione??’, dimostrando di vederci lungo, ah ah!) ha comunque una gran voce, in fin dei conti non è che sia stato nei Judas per caso, questo va detto. Al quarto pezzo Alex ed io decidiamo che ne abbiamo abbastanza ed arretriamo fino ad uscire dalla zona-concerto. Ripensando allo zio Rob (Halford) mi viene in mente il pezzo “Omosessualità” di Elio e le Storie Tese (grande band che io apprezzo moltissimo), il cui testo (ironicamente o meno, decisamente omofobo) se l’avesse scritto un gruppo punk rock brianzolo i componenti della band sarebbero stati minimo crocifissi, ma a Elio glielo perdoniamo! ;-). Finisco quindi al bancone e mi lancio in una discussione col Tommo immaginando gli Slayer a suonare lì: ne deduciamo che probabilmente il posto verrebbe raso al suolo, perché la cattiveria che gli Slayer riescono ad instillare è qualcosa di impressionante; non c’è Black o Death Metal band che tenga, se Tom Araya chiede alla folla “do you wanna die?!” e questa risponde estatica “yeeeees!” (anche se qui da noi in Itaglia immagino sarebbe piuttosto “sìììì, porcodioooo, Slaaaayeeer!!!!”), siamo dell’idea che ad un’ipotetica domanda “do you wanna tear this place down to the ground?!”, la risposta sarebbe l’abbattimento vero e proprio del posto. Addirittura se Araya ordinasse “and now, let’s start a fuckin’ fight!!”, non fatichiamo ad immaginare spettatori che iniziano a prendere a pugni in faccia il vicino, posseduti dal Male, quello con la “M” maiuscola! E che gli Slayer diano un senso di cattiveria all’ascolto e te la instillino è fatto provato, anche sulla mia pelle; vi faccio un esempio banale: partitella estiva di calcio a sette fra amici, il livello più basso della serietà pallonara (quelle partite che dopo mezzora sono sul 10-9, dopo tre quarti d’ora si comincia a parlare di +2, dopo un’ora ci si inizia a confondere sulla differenza reti, e che finiscono col classico “chi segna questo vince”), il sottoscritto sale in auto bello rilassato, piazza “Reign in blood” nel lettore e nei venti minuti da casa a campo assorbe abbastanza cattiveria che nei primi quindici minuti di gioco riesce a stendere un difensore avversario (reo semplicemente di averlo anticipato) con un calcione da dietro mirato al ginocchio, a dare una gomitata volontaria sul collo di altro difensore durante duello aereo su lancio lungo, e a insultare lungamente due compagni di squadra che avevano osato criticare lievemente un mio passaggio all’indietro che quasi causava un gol avversario…poi l’effetto-Slayer svanisce e per il resto della partita sfoggio un fair-play alla Derby del Cuore! Da allora, visto quello che capita, prima di qualsiasi partita vera un album dei quattro losangelini lo ascolto regolarmente! ;-) Ma fatemi ora tornare per un attimo a Tom Araya e alle sue domande dal palco: è chiaro che per farsi capire bene qui in Italia dovrebbe usare come minimo l’italiano (se non un italiano semplice e senza termini troppo astrusi), mi vedo già la scena, “do you wanna tear this place down to the ground?!” e risposte tipo “eh?! cosa?”, facce stranite, espressioni ebeti, gente che chiede al vicino “cosa cazzo è che ha detto?”…figurarsi con noi italiani, popolo di eroi, santi e navigatori, dalla conoscenza dell’inglese a livelli da Vodafone, “life is now!” (oltre ad una conoscenza dell’italiano stesso troppo spesso non oltre i duecento vocaboli, congiuntivi acrobatici a parte). E questo lega al fatto che nel nostro microcosmo metallaro tricolore abbiamo creato un particolare modo di pronunciare i nomi di certi generi musicali (vedasi su tutti il tristemente famoso “grind” pronunciato così come è scritto, idem dicasi per glam e death) e di certi gruppi (dal pronunciare Iron Maiden così com’è scritto all’inglesismo de’ noantri giudas praist per Judas Priest). Oddio, io stesso per anni ho pronunciato erroneamente Agnostic Front esattamente così come è scritto, quando in realtà la parola agnostic va letta ag-nostic; ho scoperto fosse così solo nel 2001 o 2002 un pomeriggio che in macchina eravamo io, il Renza e la Vero: quest’ultima prende una cassetta (per la cronaca con gli albums ‘Cause for alarm’ e ‘Liberty & justice for…’) e legge a voce alta “Ag-nostic Front”. Noi ci giriamo dicendo all’unisono “eh?” e lei ci spiega che la pronuncia è quella e dato che la Vero studiava lingue e che noi eravamo solo due working-lads (per dirla proprio all’inglese) accettammo la nuova pronuncia con un pizzico di vergogna (anche se a tutt’oggi quasi sempre pronuncio il nome della band newyorkese ancora esattamente come si scrive…). Come dimenticare poi certi strafalcioni della stampa “specializzata” quando riportava le notizie traducendole da magazines inglesi, un esempio su tutti me lo fece il dottor Valentini ricordando il clamoroso gossip di Cronos ammorosato nientepopodimenochè con Kate Bush, quando in realtà il leader dei Venom era semplicemente un grandissimo fan della Kate in questione, chissà come avevano fatto ad arrivare a tanto i traduttori (magari se mi intervistano su qualche fanzine inglese e dico che ascolto Paola & Chiara -che non è vero, comunque-, forse qualche collega italiano traduce scrivendo che me le scopo tutte e due, chissà!). E a dimostrazione di quanto appena scritto, ecco che le prime file inizano a scandire un ritmico “An-tracs / An-tracs !!” poco dopo la fine del concerto dei Beyond Fear; noi allora cominciamo a portarci verso le suddette prime file, tenendoci un po’ sulla sinistra ai lati del “mosh” che presumibilmente partirà a breve. Notiamo nei tavolini laterali un nutrito contingente valtellinese composto da vari over-30/almost-40 di nostra conoscenza, con al centro quell’affare infernale tipo tanica che spina birra ad ettolitri, ormai completamente “partiti”! Scende davanti al palco un telone/schermo su cui gira a ripetizione il programma del Live Club e il popolo-bue quando appare “29 aprile, Anthrax” esplode di giubilo, così come quando compare “26 maggio, King Diamond” (che volevo andare a vedere, ma che poi per svariati motivi mi sono perso). Ovviamente salgono prima gli “accordatori” degli Anthrax, praticamente un tipo alla batteria di cui non ricordo le fattezze e un nero (nel senso di negro, ma dico nero prima che qualcuno si scandalizzi…) con capello rasta e occhiali a chitarre e basso; altrettanto ovviamente il popolo Metal non risparmia quest’ultimo e il rastaman viene sbeffeggiato dal coro “scemo, scemo”, alla stessa maniera in cui Abatantuono/Attila viene sbeffeggiato dagli abitanti di Saturnia, cosa che conferma anche il fatto che il metal-fan, stereotipi idioti a parte, non è certo razzista, o meglio, lo è tanto quanto lo sono gli elettricisti, i top-managers, gli idraulici, gli assicuratori, i camerieri, i geometri, ecc., ovverosia qualcuno fra di loro lo è, altri (solitamente la maggioranza) no. E finalmente giunge IL momento: parte l’intro dei Blues Brothers, su cui gli Anthrax entravano in scena vent’anni fa, che funge da macchina del tempo riportandomi indietro ai miei teen-years. Via via i cinque salgono sul palco: Charlie Benante (batterista, lo dico per voi soliti profani/e, eh!), che coi capelli cortissimi e l’aria da scugnizzo (viste anche le ovvie origini) sembra Fabio Cannavaro, Frank Bello che, a parte il capello sì semilungo, ma con un’attaccatura preoccupantemente un po’ indietro, sembra già da subito atletico e in gran forma come ai vecchi tempi (e ricordo che Benante è zio di Bello, nonostante un anno o due di differenza d’età), il Not (Scott “Not” Ian, chitarra) che rispetto ai good ol’ times si è solo rasato a zero (pur non avendo più molto da rasare!) e ha fatto crescere in maniera oscena il pizzetto, un decisamente invecchiato Dan Spitz (chitarra) che almeno conserva il capello lungo e che si piazza davanti a noi, posto da cui si schioderà solo a fine concerto (il folletto in perenne movimento dei bei tempi se n’è andato per sempre, mi sa). E infine, mentre è già partito l’intro di “Among the living” (il pezzo), arriva di corsa Joey Bellardini detto Joey Belladonna, pressochè identico a diciannove anni fa, anche se il sospetto-parruccona rimane forte! Gli Anthrax vanno dai quarantuno ai quarantasei anni e Joey è il più vecchio della banda. Il look è “all-black”, quasi tutti con le succitate magliette coi nomi dietro, niente bermuda. L’intro di “Among the living” sfocia nel pezzo mosh pre-prima strofa, la gente inizia a saltare a tempo e la soletta del locale (ti ricordo lettore/lettrice disattento/a che siamo al secondo piano di uno stabile) comincia a ballare su e giù modello stadio quando le tifoserie delle curve saltellano; solo che negli stadi lo fanno tutte le settimane e la struttura siamo sicuri che tiene, qui al Live Club invece gli Anthrax non avevano mai suonato e io, tremando, penso che possa essere la prima volta che la suddetta soletta balla, immaginando già conseguenze catastrofiche, specie dopo aver notato l’acqua che filtra copiosa dal soffitto (peraltro in un punto esattamente sopra di noi) mentre fuori impazza un nubifragio; con un certo brivido ho contemplato le seguenti ipotesi: a) crollo della soletta e strage di moshers, b) crollo della copertura e strage di moshers sulla soletta, c) crollo della copertura, strage di moshers e crollo susseguente della soletta con strage dei moshers superstiti. Il resto l’avreste visto a Studio Aperto del giorno dopo… Le due strutture però, fortunatamente, tengono e da qui in poi è un susseguirsi di classici del periodo 1983 / 1990, con particolare attenzione ad “Among the living” dell’87 che, assieme a “Spreading the disease” dell’85 compone quel binomio di albums che, pur essendo decisamente diversi fra loro, segnò il top degli Anthrax, un top mai più eguagliato nei due successivi lp’s con Belladonna (comunque più che buoni), figurarsi con quella manciata di dischi di merda con John Bush (l’ex cantante degli storici Armored Saint che a inizio 90’s venne ingaggiato dagli Anthrax)! La scaletta vede i nostri eseguire (e perdonatemi eventuali dimenticanze): un pezzo da “Fistful of metal” (“Metal thrashing mad”), due da “Spreading the disease” (“A.i.r.” e “Medusa”), sei da “Among the living” (“Among the living”, “Caught in a mosh”, “A skeleton in the closet”, “Efilnikufesin (N.f.l.)”, “Indians” e “I am the law”, oltre ad “I’m the man” che non è su quell’lp, ma è più o meno dello stesso periodo), due da “State of euphoria” (“Be all, end all” e la cover dei francesi Trust “Antisocial”) e uno da “Persistence of time” (la cover di Joe Jackson “Got the time”; la versione degli Anthrax fra l’altro venne utilizzata a fine anni novanta per la pubblicità televisiva di non ricordo più che auto). Gli Anthrax suonano con precisione totale, concedendosi al massimo qualche piccola variazione strumentale e a volte anche vocale (Belladonna comunque la voce non l’ha certo persa), ma cose pressochè irrisorie che forse hanno notato solo quelli come me e Alex che hanno consumato quei cinque albums usciti appunto fra ’83 e ’90. Joey, grande showman, e Bello atletici e saltellanti come all’epoca (e a volte Belladonna sorseggiava Red Bull fra un pezzo e l’altro!), Benante una piovra (Charlie è sempre stato un batterista della madonna, ma ho come l’idea sia sempre stato un po’ sottovalutato in favore di qualche collega forse non alla sua altezza), il Not in gran forma, solo Spitz un po’ sottotono fisicamente, sebbene musicalmente abbia suonato pure lui alla grande, come facilmente prevedibile. La nostra zona comunque trionfa quando Tino elude la security e salta sul palco per cantare non ricordo più che pezzo assieme a Belladonna, il quale, punto a suo favore, appena viene abbracciato dal nostro, ricambia e gli porge il microfono fino a quando un security non fa scendere il buon Tino dal palco, devo dire in tutta tranquillità senza i consueti spintoni (o peggio) del caso. Alla fine del concerto io sono soddisfatto, ma essendo di natura polemico e rompicoglioni farò tre appunti: 1) “I’m the man” (il loro pezzo Rap -con chitarrone distorte of course- apparso su un ep nell’87) è stato eseguito senza scambi di strumentazione (ai tempi il Bella andava alla batteria, Spitz restava alla chitarra, e gli altri tre mollavano i rispettivi strumenti e rappavano con in testa buffi cappellini alla Beastie Boys) e considerando anche che nel primo concerto loro che vidi questo brano neppure lo fecero (ma nella vhs della data di Londra dello stesso tour c’è), mi sento di diritto in credito coi nostri per come minimo un’esecuzione di “I’m the man” davanti a casa mia! 2) Scott Ian non ha inalberato nessun cartello con scritto “not”…non pretendevo la trafila di cartelli yes – maybe – not del tour di ‘Among the living’, ma almeno un misero “not” io lo volevo! 3) Joey Belladonna durante “Indians” non ha indossato il copricapo di penne e non si è lanciato in nessuna danza pellerossa 3b) -l’ho detto che sono rompicoglioni- non hanno fatto né “Deathrider” (che volevo sentire come veniva cantata da Joey -per il profano, questo pezzo è sul primo lp ed è cantato da tale Neil Turbin- e che mi dicono invece aver fatto l’anno prima), né “Madhouse” (un classico da “Spreading the disease”, avevano pure fatto il video), né “Gung-ho” (vedi “Madhouse”, ma senza il video), due pezzi che io adoro. Naturalmente poi non posso certo esimermi dal commentare questa reunion: che siano un po’ dei “grattaculi” gli Anthrax questo già lo si sapeva, poi probabilmente a un certo punto si sono resi conto che la gente da loro voleva quei determinati pezzi e questo perché? Ma perché gli altri non erano all’altezza, non sono piaciuti, non erano “da Anthrax”, più semplicemente facevano cagare. E allora fuori un disco (“The greater of two evils”) dove John Bush interpretava i classici dell’era Belladonna/Turbin (‘83/’90) e poi direttamente reunion della line-up classica, chiaramente superando ogni problema avuto in passato! Per soldi? Beh, di certo ne entrano di più in un tour così che in uno con gente come Bush o Caggiano -Rob Caggiano, chitarrista nei primi duemila- (Caggiano! Se mai lo incontrassi e fosse disgraziatamente ancora chitarrista degli Anthrax -nota 2011: lo è, tornato nella band al posto di Spitz…- lo apostroferei con il semplice ma efficace “ma tu chi sei?” che il mitico Ennio Antonelli -r.i.p.-, nei panni del fornaio zio di Abatantuono, rivolgeva a Villaggio in “Fantozzi contro tutti”). Per avere più gente ai concerti? Beh, vedi risposta precedente. Per il divertimento di suonare i vecchi classici perché sono meglio della nuova produzione (quella ’93/giorni nostri diciamo, probabilmente giudicata una merda dagli stessi Anthrax, quantomeno dai membri storici)? Anche, mi sa. E fra l’altro, come suggerisce Alex, una soddisfazione e una rivincita per Joey Belladonna, visto che alla fine viene universalmente riconosciuto che il meglio degli Anthrax è quello con lui alla voce…chissà però John Bush, poraccio, umiliato, cornuto e mazziato! E aggiungo anche una cosa: alla fine io, fan di vecchia data, cosa voglio sentire da degli Anthrax che mi si presentano in formazione storica? I classici e i pezzi vecchi in genere o della roba nuova che comunque mai sarà all’altezza di quella vecchia? Scelgo il jukebox, per quanto possa essere triste e patetico. D’altra parte gli Anthrax non sono che so, i Deep Purple, di cui comunque si ascolta sempre volentieri un disco nuovo: ma loro erano “vecchi” come immagine e musica stessa (entrambe in un certo senso già “mature”, se vogliamo) nel 1970, possono farlo, possono continuare a sfornare brani Hard Rock nel loro stile (sebbene poi i classici, in quanto tali, resteranno per sempre inarrivabili), che non hanno mai abbandonato. Io gli Anthrax cinquantenni a rifare (magari con contorno di skateboards, bermudazzi e magliette dei Public Enemy come negli 80’s) la musica che a trent’anni han rinnegato non ce li vedo, né li voglio vedere. E questo anche perché gruppi come gli Anthrax erano perfetti per la loro epoca (a differenza dei succitati Deep Purple per esempio, che sono un po’ dei sempreverdi), calati in quel preciso contesto spazio-temporale erano la cosa giusta al momento giusto all’età (loro) giusta (e questo discorso vale per un sacco di altri gruppi metal e hardcore, sia del periodo, sia in generale). Lo so, è un discorso un po’ confuso, ma è che su questo argomento sono un po’ confuso io, che (musicalmente, ma anche per qualche altra cosa!) vorrei fosse sempre il 1987, in loop continuo! Peggio poi magari a fare dell’altra musica, più “attuale”, che allora che cazzo vi siete riuniti a fare se poi fate schifo come con Caggiano? No gente, gli Anthrax sono stati un gruppo grandissimo, quei cinque newyorkesi (un po’ italo!) ci hanno regalato (si fa per dire, me li ero comprati tutti…soldi ben spesi, sia chiaro) dei dischi enormi, che facciano pure ‘sti tours-nostalgia, tutto sommato possiamo ascriverli nella cerchia degli Intoccabili, no? Non appena si riaccendono le luci io e Alex (che il giorno dopo inizia a lavorare prestissimo) ce la filiamo stile Ronaldo da Milano (quando il cosiddetto Coniglio Mannaro scappò al Real Madrid), cioè sfuggendo ai vari soci e amici presenti per guadagnare tempo prezioso (anche se un sms al disperso Marione per correttezza glielo mando)! Ritorno ovviamente con dibattito sul concerto (Alex, dovevamo scommettere a soldi su chi fosse l’uomo raffigurato sulla copertina di “Among the living”, che li avrei vinti io, eh eh! – per la cronaca l’illustrazione rappresenta Randall Flagg, personaggio da “L’ombra dello scorpione” di Stephen King), dibattito che mi prende al punto di farmi dimenticare la mia fida felpa Lonsdale (quella col leone “che ruggisce ancora” stampato davanti) sull’auto del mio socio. Nel tratto di superstrada fra Lecco e Colico poi, per l’ennesima volta, all’entrata nella galleria denominata Genico esclamo “walls of Genico!” (lo spiego prima che mi prendiate per idiota totale: un vecchio album degli Helloween, che sia io che il mio autista abbiamo consumato, è intitolato “Walls of Jericho”…), per poi divagare sul Professor Scoglio quando percorriamo la galleria chiamata appunto Scoglio, citando l’immortale sentenza dell’allenatore siciliano a proposito di Toto’ Schillaci: “Toto’ è ragazzo dolcissimo, giocatore straordinario, tatticamente non capisce un cazzo”. Rispetto al concerto recensito prima di questo sono a casa da solo, quindi rientro facendo tutto il casino del mondo, prima di crollare nel letto addormentandomi di botto, non certo come la prima volta che vidi gli Anthrax, quando per l’esaltazione presi sonno alle 5.00 e dormii un’ora e mezza che poi avevo il treno per andare a scuola!

 

SO ROCK FESTIVAL – Berbenno (So), 29 luglio 2006
Manifestazione in zona Berbenno organizzata dal giro degli S.N.P. (per i profani/e, la thrash metal band valtellinese attiva dal 1990) che si svolge ormai da qualche anno. Questa è la prima volta che ci vado (e resterà l’unica), questo perché nel weekend in questione il Valentini (con moglie, la signora Ginevra, al seguito) è ospite a casa dell’Alex (la casa montana in cui si è recentemente trasferito, grazie anche ad un epico trasloco effettuato da me e lui un sabato) e il programma della serata prevede un salto veloce al festival, dopo una pizza di rito. Arriviamo sul posto, una miriade di facce conosciute, i soliti scambi di battute, addirittura qualcuno si ricorda del Valentini nella veste di cantante dei Point Of View in quella lontana data morbegnese del ’95 all’aperto e sotto una pioggia torrenziale! Anche qui siamo all’aperto, ma il tempo è bello e non fa nemmeno troppo caldo, una perfetta serata estiva pedemontana. E intanto stanno salendo sul palco i Necrodeath. Il gruppo ligure, limitatamente ai due mitologici
albums black/thrash (’87 e ’89) e ovviamente allo storico demo (’85), è fra i miei favoriti di sempre. Peccato che dalla line-up di allora sopravviva solo Peso, il batterista, e che musicalmente sono cambiati: non di molto, nessun voltafaccia devo ammettere, ma non hanno più il fascino di una volta. Ci danno dentro e fanno un buon concerto con dei pezzi belli tirati, però è solo quando arriva la storica “Mater tenebrarum” che sento le vibrazioni giuste; mi volto verso il duo Piero e Ace (storici membri della teenager-metal-gang morbegnese dei primissimi anni ’90) e loro mi fanno un cenno d’intesa che vale più di mille parole ;-). Poi è la volta di Pino Scotto, l’ex cantante degli storici milanesi Vanadium negli anni ottanta, ora tristemente noto per quelle apparizioni televisive in cui pontifica su tutto… Fra l’altro in tempi più recenti (2010 circa) mi trovavo a Chiavenna al tavolino di un bar assieme a due amici, quando è comparso un signore milanese che ci ha chiesto indicazioni stradali, beh, al 99% questi era il Pinuccio nazionale (io ho fatto finta di niente però). Qui al So Rock il nostro suona con la sua backing band, i Fire Trails; noi stiamo per andar via, ma un paio di pezzi ce li concediamo. Il Pino è un frontman coi fiocchi, bella voce e pezzi hard rock coi controcazzi, ma a me ritorna in mente quando alcuni amici alessandrini mi raccontarono di un live piemontese dei Vanadium dove il nostro venne menato, a livello di pronto soccorso susseguente, dal moroso di una donzella da lui importunata, forte -?- dello status di rockstar nostrana! E mi passa per la mente anche un episodio del Monty Pyhton’s Flying Circus del 1969 in cui compare un certo Scott Pine e le sue conifere (!!!!). Poi, prima che il Pinuccio mi potesse ispirare altri immagini, pensieri e ricordi, abbiamo lasciato il campo!

 

ENTOMBED + UNLEASHED + GRAVE + DISMEMBER – Milano, Transilvania, 11 novembre 2006
Partiamo con la solita premessa che in questo caso è più che mai doverosa: io ‘sto concerto mica l’ho visto, e non che ero lì e qualcosa mi avesse impedito di vedere i gruppi suonare, non ci sono proprio andato del tutto! Però, a posteriori, e cavolo, dovevo liberarmi e andarci, quando mi capiterà di poter rivedere assieme questi quattro nomi storici del Death Metal svedese ancora in condizioni decenti e in formazioni ancora abbastanza vicine a quelle storiche? Sarebbe facile dire che tutte e quattro le bands in questione mi piacessero già agli albori dei 90’s e invece no, non è la verità, a me gli Entombed, sia quando uscirono col primo lp, sia quando bissarono col secondo album, non è che mi piacessero poi molto, né mi gasassero come invece gasavano vari miei amici e la maggioranza dei fans metal e anche hardcore in genere… io, con aria di superiorità da hardcorer cretino dicevo a tutti che gli Entombed prima si chiamavano Nihilist (più o meno vero) e che il nome veniva dal pezzo degli italianissimi Raw Power (probabilmente non vero, comunque…). Di “Left hand path” (il primo album) per anni mi è piaciuta molto solo la splendida copertina ad opera di Dan Seagrave, ma musicalmente, boh, non mi davano quello che invece mi davano gli altri tre gruppi che accompagnano gli Entombed in questa data italiana. I Dismember, ad esempio, di cui ricordo una recensione di un loro live su “HM!” in cui venivano paragonati ai primi Possessed, sia musicalmente, sia per l’esposizione di croci rovesciate, sangue finto e ammennicoli vari; superfluo dire che comprai al volo il vinile di “Like an ever flowing stream” (il loro primo album del ‘91), alla fine poco a che vedere con “Seven churches” dei maestri californiani succitati, ma discone strepitoso che non mi stancherò mai di riascoltare. I Grave, poi, che conoscevo di nome grazie alle recensioni dei loro demotapes su alcune fanze. Dovetti però aspettare fino all’uscita di “Into the Grave” (’91), primo lp che mi venne prestato dal Mirtillo (al secolo Fulvio Delle Grave -!!!!-), lo storico fornitore principe Thrash/Death della Bassa Valtellina fra fine 80’s e primissimi 90’s. Ricordo il misto stupore/godimento quando venni investito dalla potenza dei riffs e dalle ritmiche macigno del quartetto proveniente dall’isola di Gotland (quell’isolone che c’è nel Mar Baltico). Peccato però che i Grave non si siano più ripetuti a questi livelli, pur sfornando almeno un altro paio di bei dischi. Gli Unleashed, infine. L’esordio (“Where no life dwells”, ’91 pure questo), che mi passò l’Alex a un anno circa dalla sua uscita (assieme a “The astral sleep” dei Tiamat, altro disco svedese davvero super), era un capolavoro! Puro Death Metal svedese di un’intensità tale dall’inizio alla fine del disco che pochissimi altri lavori di metal estremo hanno raggiunto (e uno di questi è “Reign in blood” degli Slayer, tanto per…!). Loro non sono più stati a questi livelli, ma i tre albums successivi mi piacciono parecchio, essendo oggettivamente figli del primo, anche se musicalmente differiscono leggermente. Naturalmente negli anni ha iniziato a piacermi anche “Left hand path” degli Entombed (’90), ascoltato adesso (ottobre 2006) lo giudico un disco della madonna… Presumo che nei prossimi sedici anni arriverò a considerare tale anche “Wolverine blues” (l’album del ’93, con la svolta Death’n’Roll) ;-) Poi con la mente torno a quei giorni del 1991 o del 1992 e penso, ma non è che allora istintivamente rifutavo gli Entombed perché piacevano a tutti e se ne tessevano le lodi anche su riviste “estranee” come ‘Rockerilla’? E poi perché li vedevi pure in televisione, Mtv e non solo? Forse no, anche per i Morbid Angel era lo stesso, ma a me la band floridiana, successo o meno, affascinava irrimediabilmente per via di quel senso di horror lovecraftiano strisciante: loro il male sapevano davvero evocarlo e metterlo in musica. Ricordo la mia amica Barbara (siamo proprio nel ’91) che con “Altars of madness” sulla piastra mi guarda e mi dice “questi hanno qualcosa di maligno…non so dirti perchè, è come una cosa indefinita, ma ce l’hanno…sono diversi da quegli altri gruppi che ascolti tu che fanno questa musica…senti, toglili per favore!”…non era il solito “toglili che fanno solo casino!”, qui c’era qualcosa di più; io restai affascinato ancora un po’ di più dalla musica di questi quattro deathsters americani che a tutt’oggi mi evocano scenari di riti pre-umani nelle paludi floridiane! E la stessa inquietudine riuscivano a comunicarla anche i primi dischi dei Bathory (quelli strettamente black metal), a me come a molti altri giovani metal-fans dell’epoca. E non solo: sempre nel ’91 sulla mia scassatissima 127 ero assieme ad un noto tossico della zona (che una ventina di anni dopo finirà dentro per rapina a mano armata… -nota 2012) con cui stavo parlando di musica metal e di come la stessa fosse stata portata all’estremo nel corso degli anni. Il mio passeggero, di qualche anno più vecchio di me, era fermo come durezza/velocità agli Slayer, per cui io, col classico fare di chi la sa lunga, tolsi la cassetta che stava girando nell’autoradio (probabilmente qualcosa di hardcore) e la sostituii con quella di “Under the sign of the black mark” dei Bathory: parte la solita lunga intro della band svedese e poi di botto irrompe il brano ‘Massacre’. Dopo un minuto di pezzo mi sento dire: “A me questi danno una brutta sensazione, mi fanno quasi paura, spegni dai”. E stavolta non era una ragazzina diciannovenne di provincia a dirlo… Ma torniamo in Svezia…cioè, c’eravamo già tornati coi Bathory, ma intendo in quei primissimi anni novanta. A me lo Swedish Death Metal piaceva ai suoi tempi e piace tuttora. Non mi esalta come, che so, il primo Black Metal norvegese (dal ’90 al ’96 suppergiù) o come scene più di nicchia tipo quella Black Metal cecoslovacca di fine 80’s/primissimi 90’s (Master’s Hammer, Root, Torr) dove si suonava BM quando in Norvegia gran parte degli “evil heroes” della terra dei fiordi andava ancora al kindergarten o poco più, detto per inciso! Però esercita su di me un certo fascino, il Death svedese intendo, tanto che negli ultimi anni grazie a San Soulseek (programma di condivisione files, per i profani/e) mi sono fatto una cultura e un archivio di mp3 mica da ridere scaricando tutto o quasi lo scibile del periodo (1989 / 1993, anno più anno meno) che avevo mancato ai tempi (cioè almeno l’80% delle cose uscite!). All’epoca avevo intercettato qualche Lp che posso sfoggiare orgogliosamente nella mia collezione, tipo “The awakening” dei Merciless (’89, il primissimo disco Death Metal svedese della storia, sebbene il sound tipico che diventerà il marchio di fabbrica del genere sarebbe venuto qualche mese dopo con gli Entombed. Fra l’altro l’album dei Merciless fu la prima uscita dell’etichetta Deathlike Silence Productions di proprietà di Euronymous e Dead dei Mayhem), l’ep “Icantation” dei Grotesque (con alla voce ‘Tompa’ Lindgren futuro cantante degli At The Gates), “Calls from the beyond” dei Megaslaughter (disco minore di una band minore con un batterista che finirà poi nei famosissimi power-metallers Hammerfall), “Like an…” dei Dismember come detto più sopra, il 7” “On sour ground” dei Suffer (altro gruppo minore) e il primissimo ep dei Therion, “Time shall tell” (quando la band era ancora dedita ad un granitico death metal), e in effetti sì, è per lo più roba meno conosciuta, ma questo perché la trovavo dai miei “pushers” di fiducia (ad esempio la S.O.A. del Petralia o la Extreme Noise di Alex dei Deathrage) a prezzi ottimi (Lp a otto/diecimila lire). Insomma, mi ascolto i miei mp3 (rigorosamente passati su cd, dato che io la musica la ascolto quasi tutta in macchina o sdraiato sul letto, non riesco a godermela davvero ascoltandola dal computer) e scopro una serie di dischi e bands da paura (Evocation, Macrodex, Chronic Decay, Eternal Darkness, God Macabre, Sorcery, Toxaemia, Incision, Uncanny, Morpheus, ecc.), oltre alle decine e decine che già conoscevo, poi spengo lo stereo, torno ai giorni nostri e mi tocca sentire gente che dice “noi facciamo death metal con influenze svedesi” (che vuol dire una specie di nu-core con qualche giro rubato ad At The Gates e Dark Tranquillity)… ’Fanculo, andatevi a sentire “Into the Grave”, fate quella musica lì con quelle influenze lì? Uhm, a me non pare proprio. E si parla di un disco (discorso che vale anche per gli altri citati più sopra) di quindici anni fa…quindici anni, per intenderci, le bambine nate allora scopano già da un po’, eppure sono albums che non hanno perso un’oncia del loro potenziale distruttivo e suonano molto più reali di quelle schifezze plasticose ed iper-prodotte del giorno d’oggi…ma comunque sia, come si dice in questi casi, ad ognuno il suo, no? ;-)

 

TAAKE + URGEHAL + KOLDBRANN – Piateda (So), New Mexico, 25 Marzo 2007
La solita doverosa premessa: Io, quando si parla di Black Metal, sono un po’ come Benigni quando (in TuttoBenigni 95/96) parla dei piselli dei politici, è un argomento che mi interessa, quindi prenderò spunto da questo concerto per divagare su di un genere (e tutto quanto ad esso correlato) dove è facilissimo passare dalla serietà più estrema alla pagliacciaggine più idiota (basta una scelta di immagine e/o musicale sbagliata ed ecco fatto!) e sul quale, diciamoci la verità, è facile ed inevitabile fare battute. E ve lo dice uno che adora e segue il Black Metal sin dall’estate del 1987 (per la cronaca quando ascoltai per la prima volta “Under the sign of the black mark” dei Bathory).

*Il giorno che lessi di questo concerto (mi pare fosse sull’ormai mitologica Milano Hardcore Messageboard), come molti del resto, non ci volevo credere: dai, black metal al New Mexico, storica discoteca del sondriese dove personalmente la cosa più Metal che avessi mai visto era stato il Sergio (batterista degli S.N.P.) con un completo bianco in pieno stile Don Johnson di Miami Vice (e questo almeno quindici anni prima)! Eppure questa notizia, data con mesi e mesi di anticipo (tempo dopo giunse quella che lo zio Paul DiAnno -per i profani, il cantante sui primi due dischi degli Iron Maiden- sarebbe passato anche lui da quelle parti circa un mese prima dei Taake. Evento che imponeva a me, metal-kid degli 80’s, la partecipazione, purtroppo mancata, dato che quella sera ero pesantemente influenzato…) era vera, e questo grazie all’intraprendenza di due ragazzi (mi dicono uno valtellinese e uno del lecchese) a cui, gusti personali a parte, faccio i miei complimenti per l’iniziativa. Successivamente fa la sua comparsa il manifesto della serata (con degli sponsors improponibili tipo gelaterie/frullerie, supermercati, gommisti e concessionari di automobili -e non manca l’ottico nella persona del Chicco, l’As Likely As Not-mastermind, che per un annetto è stato pure la seconda chitarra dei Gradinata Nord-. Esattamente lo stesso tipo di sponsors improponibili che avevamo messo noi della ex-Colonia nel ’93 sul primo concerto che organizzammo, anzi facemmo pure peggio perché il cosiddetto “concerto animalista” aveva fra gli sponsors pure un salumificio!) e a quel punto sono costretto a crederci davvero! E chiaramente non potrò mancare, anche se sarà una domenica sera, anche se dei tre gruppi previsti conosco solo i Taake e qualcosina degli Urgehal (e nessuno dei due incontra esattamente i miei favori) e anche se, paranoicamente, sono convinto che mi troverò in mezzo ad orde di patetici blackmetallers quindicenni che mi squadreranno dall’alto in basso per il mio look non certo “grim, necro and evil”! Eh sì, come al solito c’è questo stupidissimo conflitto generazionale fra chi un certo genere l’ha visto nascere e chi, per ovvi motivi anagrafici, è arrivato dopo e non ha potuto farlo; eppure ambo le parti sono convinte di avere ragione e di essere in un certo senso più black metal degli altri, i giovincelli perché sono i più “evil” e i veterani…in quanto tali! Gente, sono tutte cazzate, lo so benissimo, anche perché con le montagne di rogne quotidiane che mi devo grattare, ci mancherebbe alla mia età dover dare importanza a queste bazzecole! E’ solo che umanamente, quando ci si sente in qualche modo privati di qualcosa che senti tua o anche solo (come in questo caso) ci tocca condividerla con dei nuovi arrivati, allora scatta quel meccanismo interiore (di difesa? Probabile) che mi farebbe guardare a mia volta dall’alto in basso i patetici quindicenni di cui sopra, perché loro non sanno che il sottoscritto è probabilmente l’unico (o quantomeno il primo) possessore del primo lp di Burzum vinile originale D.S.P. Rec. nelle province di Sondrio, Lecco e forse, esagero, anche Como (per la cronaca scambiato nell’inverno 92/93 con un bulgaro, probabilmente per qualche disco di Hardcore italiano), perché loro pensano che gruppi come i Marduk (che non mi piacciono molto, ma che comunque rispetto) siano il massimo in fatto di blasfemia per quell’ep “Fuck me Jesus”, la cui copertina raffigura un disegno di una tipa che si autopenetra con un crocifisso, e non sanno nemmeno chi furono i crucchi Ungod che su un 7” avevano messo la stessa cosa, solo che la tipa era in carne ed ossa (piuttosto in carne fra l’altro, corredata di cartuccere alla vecchi Destruction/Sarcofago e fotografata in varie posizioni), o chi erano i Profanatica dal New Jersey (con quel video osceno di uno di loro che si masturba sulla Bibbia e un altro che ne lecca quanto “prodotto”! Si spera in una finzione eh!), che ritengono “satanici” ed “occulti” certi pagliacci come gli attuali Cradle Of Filth e Dimmu Borgir e anche, ahimè, i nuovi Mayhem post-Euronymous (“the untrue” – nota 2013: meno male che negli ultimi anni è almeno tornato Attila Csihar alla voce, almeno quello!), ignorando veri ed onesti conoscitori dell’occulto come gli italiani Mortuary Drape e DeathSS (quelli con Paul Chain e al limite dei primi due albums dopo la reunion) -speriamo non mi esploda il pc sul muso dopo questo po’ po’ di nomi che ho scritto!-, oppure gli statunitensi Acheron dalla Florida e gli Order From Chaos dal Missouri. Insomma, vedete cosa ci si mette a scadere allo stesso livello dei quindicenni brufolosi ed asociali? Ah, a proposito, dico a voi pallidi ragazzini vestiti di nero, io ho anche il vinile di “Live in Lepizig” dei Mayhem primissima stampa su Obscure Plasma, tiè! ;-) Comunque sia, Taake. Ritenuti da molti un nome illustre del “True” Black Metal made in Norway. Cosa che fatico a comprendere: sì, il gruppo è decente, ma è riciclatore e abbastanza copione, va bene rispettarli perché attivi dal ’95 (anzi, dal ’93 sotto il monicker Thule, nome che, significato reale a parte, sembra quello di un camper!) e sempre fedeli allo stesso stile di black metal, però detto terra terra io avevo un loro 7” credo del ’96 e mi faceva cagare (considerandolo derivativo e mediocre, o lo vendetti a non più di quattromila lire, o più probabilmente lo scambiai con qualche schifezza priva di valore…col senno di poi facevo meglio a tenerlo…!), mentre le opere prime dei vari Emperor, Satyricon, Burzum, Enslaved, Immortal, Arcturus, ecc. mi provocavano ben altre sensazioni! E questo vecchio/primordiale (1991/1994 più o meno) Black Metal norvegese sì che era una figata, al limite anche quello “evoluto” (o “involuto” a seconda della parte da cui lo si vuole guardare) diciamo dal ’95 al ’00 (non mi piace granchè, tolti alcuni casi, ma ne riconosco la proposta originale/personale), solo che da lì in poi (anzi, in certi casi anche da prima!), quando si parla di black metal puro (ma anche in genere), siamo al riciclo del riciclo. Inutile riproporre cose che nel 1992 erano fresche ed originali (oltre che ammantate da un certo fascino oscuro e completate da certe azioni extra-musicali a dare più credibilità al tutto), quello di oggi è un Black Metal a cui mancano tante/troppe cose, non ultimo l’essere qualcosa di nuovo e di minaccioso (come giustamente ha rilevato Metalion di “Slayer” fanzine, elemento chiave della scena Norse della primissima ora). Di copiare i vecchi riffs degli Immortal o degli Emperor o di Burzum o di chi volete voi, sono capaci più o meno tutti. Anche perché, ma vi rendete conto che fra il ’91, quando uscì “A blaze in the northern sky” e, diciamo il ’96, quando si esaurirono gli ultimi sussulti della spinta iniziale (e da lì a poco sarebbe partita l’era commerciale guidata dai Dimmu Borgir), dischi come il succitato e almeno altri tre dei DarkThrone, il live a Lipsia e il lungamente atteso “De mysteriis dom Sathanas” dei Mayhem, il mini-lp e il capolavoro “In the nightside eclipse” degli Emperor, i primi tre albums degli Immortal, il Burzum pre-incarcerazione (soprattutto “Hvis lyset tar oss” e “Filosofem”), il mini-lp e i primi due lp’s degli Enslaved, i primi due albums dei Satyricon (sì, grandissimo anche il terzo, ma già appartenente ad un altro periodo), ecc.ecc. erano qualcosa di mai sentito/visto prima? O comunque qualcosa di mai sentito/visto sotto queste particolari forme? (e non dimentichiamoci che le proposte musicali dei vari gruppi erano abbastanza differenti fra loro, ogni band aveva la propria personalità e le proprie peculiarità). La guida spirituale dei Venom e in misura minore dei Mercyful Fate, l’influenza musicale di Bathory ed Hellhammer/Celtic Frost da una parte, dei primi Sodom e Destruction dall’altra, di Sarcofago e Possessed dall’altra ancora, senza dimenticare quella di misconosciute bands statunitensi quali Necrovore e Von (e di un migliaio di altri gruppi death/black ultra-underground fine anni ottanta da tutto il mondo!), e poi il face(o corpse o war)-painting, già visto coi succitati Sarcofago (e con King Diamond dei Mercyful Fate, per tacere dei Kiss naturalmente) e in parte con Hellhammer/Celtic Frost (e a livello di immagine/postura non sottovalutiamo nemmeno qualcosina presa a prestito dai Kraftwerk, di cui Euronymous era un grandissimo fan), il ritorno al look all-black e a cartuccere/cuoio/spunzoni in un periodo in cui negli ambienti del Metal estremo andavano per la maggiore shorts, magliette bianche e cappellini da baseball, il satanismo sì da fumetto ma buttato crudamente sul piatto, e poi ancora le sparate nelle interviste, spesso però messe in pratica (vedasi i roghi delle chiese cristiane che per un annetto o più imperversarono in gran parte della Norvegia, gli omicidi e gli atti vandalico/violenti), tutto ciò contribuiva a creare il Black Metal norvegese soprattutto nei suoi primissimi gruppi (senza ombra di dubbio Mayhem come capostipiti, poi DarkThrone, Burzum, Thorns e, volendo, Mortem/Arcturus). Come in tanti hanno già detto, ci sta più un parallelo coi rappers delle gangs, che un accomunamento al classico metallaro tutto birra e motocicletta. E non dimentichiamoci di tutto quel nuovo immaginario lirico ispirato alla natura e alle tradizioni nordiche: termini come “fog”, “fullmoon”, “pagan”, “woods”, “frost”, ecc. non è che non si fossero mai sentiti nel Metal, anzi, ma sono stati i norvegesi a farne per primi un larghissimo uso consacrandoli a veri e propri capisaldi del loro Black Metal, reso ancora una volta qualcosa di estremamente nuovo ed affascinante. E anche il trend della nobiltà viene dalla terra dei fiordi, fu infatti dopo Count Grishnack che iniziò il proliferare di conti, baroni, lords, ecc.ecc. come prefisso allo pseudonimo del musicista di turno. Facciamo qui comunque un piccolo inciso: non è che, come troppi pensano, l’unico vero ed indiscusso Black Metal sia quello norvegese, sia chiaro! Anzi, mentre la scena dei fiordi era agli albori, in giro per il mondo c’erano già svariate bands attive anche da qualche anno che per musica e look non potevano essere definite altrimenti che Black Metal. Cito random le più conosciute: i finlandesi Beherit, i greci Rotting Christ, Varathron e Necromantia, gli ungheresi Tormentor (con Attila Csihar alla voce, poi cantante sul succitato ‘De mysteriis …’ dei Mayhem), i polacchi Imperator, gli italiani Mortuary Drape, Black Prophecies (con Ingo, voce dei Necrodeath, al basso) e, perché no, Sagatrakavashen (fra l’altro, face-painting totale nell’88!), gli svizzeri Samael, i canadesi Blasphemy, gli statunitensi Profanatica, i giapponesi Sigh (senza scordarci dei loro connazionali Sabbat, attivi addirittura dall’84!), gli Abhorer e i Sexfago (da cui nasceranno gli Impiety) di Singapore, la grandiosa scena cecoslovacca, forse la primissima in assoluto: Master’s Hammer, Root e Torr su tutti. Ci sarebbe anche la Svezia, ma qui bisognerebbe aprire un capitolo a parte: comunque, oltre agli imprescindibili Bathory, peraltro in giro già dall’83, faccio i nomi di Morbid (epoca-Dead), Grotesque (via di mezzo fra death e black) e Treblinka (i futuri Tiamat), sebbene fosse un Black ovviamente differente da quello norvegese che si stava sviluppando (e alcuni fra i gruppi succitati hanno a loro volta, chi più chi meno, dato il là a diverse scene nazionali o internazionali dotate di un’indiscussa personalità e validità, penso a quella greca ad esempio). Diciamo in pratica che a fine anni 80 ci fu in generale un’estremizzazione del metal che portò alla nascita di varie bands in giro per il mondo rielaboranti i già esistenti death e black (proto-death e proto-black se preferite, un esempio a testa Possessed e Sarcofago), con risultati diversi a seconda della provenienza geografica o anche all’interno della stessa nazione. Quella norvegese fu una di queste scene e si dimostrò la più forte a livello “pratico” e mediatico, unendo a ciò un’indubbia genialità musicale e inventando così un NUOVO modo di fare Black Metal. Tornando a bomba sul Black Metal odierno, devo rilevare con disgusto che dopo più di quindici anni siamo ancora alla copertina col bosco e la luna piena (magari in bianco e nero, che fa più “true”: quella del true è un’altra minchiata, probabilmente derivata dal fatto che i primi Mayhem, per distinguersi dalla miriade di gruppi con lo stesso banalissimo nome che c’era in giro per il mondo, avevano piazzato un minuscolo “the true” sopra il proprio logo, equivocato poi da molti cervelloni), i titoli che sono sempre quelli, solo con l’ordine delle parole cambiato o giù di lì, le mille copertine a base di pini, larici, abeti e pinaceae varie, le centinaia di liriche sulla Transilvania (da quando i Mayhem scrissero “Funeral fog”, questa variante nazional-geografica è diventata molto cara agli orgogliosissimi norsemen, vedasi ad esempio “Transilvanian hunger” dei DarkThrone e le bands Carpathian Forest e Carpathian Fullmoon, purtroppo finendo poi col contagiare l’immaginario del black metal di tutto il mondo per titoli e liriche molto spesso decisamente fuori luogo. Negura Bunget, romeni e transilvani, esclusi, ovviamente!), insomma un black metal che sembra una vera e propria parodia di se stesso e che troppo spesso si confonde con quelle parodie del genere volute (e di cui è pieno il web). In tema, a me faceva impazzire un progetto di Seth Putnam (il leader dei grinders Anal Cunt del Massachusetts, purtroppo defunto causa infarto nel 2011 –nota 2013), uno che si è spesso dilettato in side-projects dai nomi tipo Adolf Satan, Full Blown A.i.d.s. e Vaginal Jesus, tanto per inquadrare il personaggio! Seth era decisamente uno che la sapeva lunga, ad esempio in un video live degli Anal Cunt in mio possesso il nostro sfoggia una t-shirt dei Master’s Hammer; in vita mia ho visto tre persone indossare una maglia degli inarrivabili cechi: un loro componente, Seth e il sottoscritto guardandosi allo specchio… Comunque, nella seconda metà degli anni novanta, questo genialoide creò gli Impaled Northern Moonforest, progetto-parodia black metal al limite dell’ascoltabile (“batteria” suonata percuotendo le proprie gambe con le mani, ad esempio), ma con spettacolari titoli dei pezzi in stile presa per il culo (bonaria, Putnam era un grande fan del genere) del metallo nero (soprattutto norvegese, soprattutto quello degli Immortal) tipo “Lustfully worshipping the inverted moongoat while skiing down the inverted necromountain of necrodeath”, “Awaking the frozen blasphemy of the necroyeti’s lusting necrobation upon the altar of Voxrfszzzisnzf”e, soprattutto, “Grim and frostbitten gay bar”! Ritorniamo ancora una volta sul Black Metal odierno: io ormai ho una certa età e sono difficilmente impressionabile, però in generale questo Black Metal a chi fa paura? Quando avevo quindici anni i Bathory mi facevano cagare sotto, mi inquietavano (su un “HM!” dell’88 Paolo Piccini, recensendo “Blood fire death”, scrisse giustamente: “pochi altri gruppi riescono a dare all’ascoltatore la sensazione di malvagità, vera o simulata poco importa ai fini dell’ascolto, che il trio di Stoccolma infonde puntualmente nei propri dischi”), perché certe cose ascoltate in giovane età hanno un potere che dopo i diciott’anni massimo non possono più avere. E alla fine i Bathory sono stati la prima vera Black Metal band della storia, col leader Quorthon che era un tipo decisamente a posto, intelligente ed autoironico, ma era la sua musica a mettere paura (un po’ come Stephen King, persona indiscutibilmente positiva, ma i cui libri inquietano non poco). Quando esplose il Black norvegese avevo diciannove/vent’anni, non me la facevo più sotto, ma quei gruppi mi incuriosivano e mi intrigavano. Adesso, a trentacinque anni, citando Giulio the Bastard (a proposito del Noisecore), “cosa puoi fare per impressionarmi?”, adesso che ne ho viste e sentite di tutti i colori? Voglio essere volgare e sessista: è’ un po’ come col sesso femminile (ragazze, voi metteteci maschile che così sono solo volgare ma non sessista!), una volta che ne hai visto uno, due, tre, quattro, ecc. alla fine è poi sempre la stessa cosa. Io lo vedo il parallelo fra l’inquietudine generata dai Bathory e lo sbavare letteralmente alla vista di un seno in un film comico alla tv di noi adolescenti e pre-adolescenti cresciuti negli edonistici anni ottanta; per noi era qualcosa di nuovo e di eccitante, anche perché i giornaletti porno erano merce rara (non parliamo dei video perché il videoregistratore non ce l’aveva ancora quasi nessuna famiglia, e il porno in compagnia l’ho sempre trovato decisamente cameratesco/gay, fra l’altro!), internet al massimo sembrava una strana parola che combinava il nome di una nota squadra di calcio a quello inglese del nastro della rete di metà campo del tennis, e a scuola mica avevamo le ragazze di adesso con ombelico e mezzo culo di fuori, anzi, tante (magari anche carine o comunque potenzialmente carine) venivano vestite come perpetue, magari obbligate da padri che avrebbero imposto anche il burqa se fosse stato possibile! Insomma, il parallelo ci sta: Black Metal come cosa nuova, oscura, eccitante, misteriosa, intrigante, fascinosa e per pochi. Ora, lettore (e anche lettrice, perché no?) che sei stato adolescente negli 80’s, sostituisci “Black Metal” con “sesso” e dimmi se non era uguale? Io, come me la facevo addosso coi primi tre albums dei Bathory, andavo in ebollizione per, che so, Serena Grandi o per la Solidea (sì, sul mio stesso treno saliva una che si chiamava inusualmente così) che una mattina aveva messo una quasi-minigonna e/o un maglione un po’ più aderente del solito! Ora, nel 2007 l’impatto di qualsivoglia gruppo Black Metal è lo stesso di quello di una qualsivoglia tipa che ti si presenta davanti in intimo o anche senza: sì, sempre un bell’impatto, ma alla fin della fiera è sempre la stessa cosa, insomma sai già cosa ti aspetta. Ecco il punto, il nocciolo della questione è che sai già cosa aspettarti! Una cosa poi che a me, da fan di vecchia data del metallo nero, dà parecchio fastidio è quell’atteggiarsi a personalità estreme di troppi individui legati al genere. Non sto parlando dei nordici dei primissimi 90’s, quelli erano quasi tutti ragazzini giovanissimi e la cosa ci stava, calcolando anche il fatto che comunque lassù ci furono omicidi e chiese in fiamme. Parlo di gente venuta fuori dopo e con qualche anno in più sul groppone. E non intendo nemmeno elementi come il tipo degli Shining svedesi, quello prende tutti per il culo e si diverte a farlo, io intendo gente tipo, ad esempio, Arkhon Infaustus (i primi che mi vengono in mente), francesi con la reputazione di essere “gente estrema”…inchessenso? mi chiedo io alla Verdone. Nel senso che si autoproclamano sessualmente perversi? Wow! Sono davvero molto impressionato! ;-) O anche Gaahl dei norvegesi Gorgoroth, noto oltre che per l’outing di qualche anno fa con cui dichiarò la propria omosessualità (mossa coraggiosa e che ho apprezzato), anche per aver fatto qualche mese di carcere fondamentalmente per aver menato uno che si era introdotto in casa sua (tralasciando “leggende” tipo torture inflitte e stupidaggini varie, che anche qui avrei un paio di aneddoti in tema a carattere locale con protagonisti camionisti ed agricoltori da fare impallidire parecchi blackmetallers! Colonna sonora in questo caso: M.D.C. – Violent rednecks, 1982). Non lo so, trattasi di situazioni piuttosto comuni, niente che faccia di questi pagliacci dei “tipi estremi”. Che dire allora di Kurt Struebing, chitarrista degli NME (black/thrash band statunitense, stato di Washington, anni ottanta, anche se riformati di recente. L’album “Unholy death” dell’85, molto venomiano, merita un ascolto), che nell’86 aveva ucciso la propria madre adottiva aprendole la testa con un ascia, in quanto convinto che la donna fosse un robot, come del resto pensava di esserlo lui stesso…? Uscito dal carcere questo pazzo totale finì giù da un ponte con l’auto (o volutamente come atto suicida o perché strafatto, non lo si saprà mai, ovviamente) e pose fine ai propri giorni. Ecco, per un fulminato del genere posso accettare la definizione di “tipo estremo”, ma riguardo ad altri è solo un misto di marketing e poseurismo, roba buona solo per ragazzini e mentecatti… Fatto tutto questo bel (?) ragionamento, per la sera del 25 marzo, dopo aver cercato inutilmente di coinvolgere per la breve trasferta sia la dolce metà che qualche amico tipo Alex e Diego ed aver ricevuto dei rifiuti più o meno secchi, contatto il sempreverde Marione “Mimmo the bull”, che assieme all’altro veterano Simone “Belzebu”, tornerà a Sondrio quel weekend appositamente per il concerto. Decidiamo per trovarci nel tardo pomeriggio (anche assieme al Lele -RedBloodHands-, che però poi non verrà al New Mexico) e di prendercela poi comoda con tanto di cena in pizzeria prima della “discesa agli inferi” (ah ah!). E’ una domenica primaverile grigia, fa anche abbastanza freddo, ma diciamo che una serata di Black Metal norvegese non dovrebbe essere abbinata ad un caldo sole e a dei fiorellini che sbocciano, no? Raggiungo i miei tre soci in una piazza (della quale non ricordo mai il nome!) a Sondrio, ci fiondiamo in un bar/caffetteria e a suon di cioccolate calde e di fiumi di cazzate a sfondo musical/calcistico/sessuale tiriamo l’ora di cena. Il Lele ci saluta e noi optiamo per la Divina Commedia, dopo che il sottoscritto ha eletto la propria Punto a macchina ufficiale della serata (ormai mi sono fatto quaranta chilometri per venire qui, dovrò farne altri quaranta per tornare a casa, se ne aggiungo cinque per andare in pizzeria e al concerto non muore nessuno, no?). Durante la cena non possiamo fare a meno di notare la bella e mediterranea cameriera (s)vestita con una specie di abito bianco che di sicuro a Marione avrà fatto venire in mente le vestali degli antichi templi siculi! Ci accorgiamo poi che ormai l’ora è giunta ed allora dirigiamo verso l’adiacente Piateda, ascoltando sull’autoradio, in onore di Marione, i siciliani Inchiuvatu col pezzo omonimo, un capolavoro di black metal mediterraneo con una parte centrale di folk siculo su base black che ti trasporta di volata in un vecchio film di Franco & Ciccio. Grande (one man)band! Parcheggiamo nell’ampio sterrato e dal locale fuoriescono già delle inconfondibili note black metal! Paghiamo, se non ricordo male, 18,00 euro (anche se sul biglietto c’è scritto quindici, sarà il ricarico del locale, comunque supporto pienamente l’iniziativa per la serata quindi pago -abbastanza!- volentieri) e finalmente entriamo. Sul palco ci sono cinque ragazzoni biondi, alti, grossi e lungo criniti: i Koldbrann. Hanno tutti il “face-painting”, ma non quello vero e proprio tipico del genere, quanto un qualcosa piuttosto alla bellemeglio con le facce sporche di nero stile Alberto Sordi/Gasperino Er Carbonaro (da “Il marchese del grillo”)! Il cantante è accessoriato con maglia Venom classica. Non sono male, Black norvegese old school, anche se originale come una croce celtica nella curva della Lazio; un pezzo in particolare sembrava una collezione di riffs dei DarkThrone (specie quelli di “A blaze in the northern sky”), in altri facevano capolino un po’ troppi riffs alla Satyricon (Satyricon in genere, né quelli vecchi né quelli nuovi, riffs Satyriconiani diciamo): insomma, ‘sti Koldbrann sono in pratica una cover-band che non fa covers! Sono comunque bravi e con un bel suono glaciale e tagliente, ma nel contempo “vivo” e a volumi giusti (questo contrariamente a chi verrà dopo); non interagiscono molto col pubblico (i pezzi sono presentati da un misero “next song is…” con voce incarognita), a parte un “porcodio” del cantante declamato con pesante accento dei fiordi, in risposta alla stessa locuzione urlata a pieni polmoni da un astante. Certo che il pupazzetto del maialino-vampirello (che mi sembra sia poi il personaggio di un cartone) che fa bella mostra di sé sulla batteria (e lì starà con tutti e tre i gruppi) non è molto “evil”, eh! Intanto butto un occhio in giro per il locale per vedere chi c’è di conosciuto…mmhh, pochi, pochissimi, vedo solo i quasi soprannomonimi Pipa (ex cantante dei metallers Sui Generis nei primi 90’s e capace di acuti alla John Cyriis degli Agent Steel!) e Piga (fra l’altro possessore di “Deathcrush” dei Mayhem vinile originale, quello con lo sfondo della copertina di colore tragicamente rosa, preso per posta direttamente da Euronymous nell’88), coi quali scambierò due chiacchiere più tardi; clamorosa l’assenza dello Spini (RedBloodHands/As Likely As Not singer, da anni fan dei Taake), a tutt’oggi mi son sempre dimenticato di chiedergli dove cacchio fosse quella sera! Altro grande assente è l’Imperatore Nero dell’Alta Valle, che con i suoi Sagatrakavashen suonava Black Metal già nell’88 e con tanto di face-painting, quando quasi tutti i musicisti di stasera erano ancora degli scolaretti, se non dei poppanti! Molti fra i presenti vengono da fuori, Marione per esempio si fermerà un paio di minuti a chiacchierare con un suo conoscente giunto da LaSpezia (che fra l’altro sfoggiava un giubbetto di jeans con sul retro la scritta handmade Fall Out, e per inciso il mitico gruppo hardcore spezzino aveva un logo bello “necro” che non sfigura certo di fronte a quello delle più truci black metal bands!). Via lo striscione Koldbrann, c’è sotto quello Urgehal (ottima idea per non perdere altro tempo inutile, visto anche che domani è lunedì) e in tempi decenti i suddetti sono pronti per suonare dopo un breve soundcheck da parte del rasato a zero e pitturato (stavolta nello stile classico) batterista, peraltro davvero in gamba. Altro “skin” è uno dei chitarristi, che indossa una maschera a spunzoni decisamente circense, mentre noto che il bassista altri non è che il cantante dei Koldbrann con un rifacimento al trucco, ma la stessa (fradicia, suppongo) t-shirt dei Venom. Il vero personaggio (anche se si rivelerà veramente tale solo dopo aver suonato) è però il cantante/chitarrista, con un face-painting e un aspetto che ricordano molto le ultime foto-promo del compianto Euronymous; Trondr Nefas [questo il nome, lo pseudonimo intendo (Nefas purtroppo morirà nel 2012 nel sonno per cause naturali –nota 2013)] si occupa anche degli assoli, relegando lo spunzonato a parti ritmiche e/o armoniche da comprimario, e canta con sguardo da matto, anche però un po’ equivoco visto il pesante trucco agli occhi stile Lino B., il travesta di Lapo Elkann! Dietro a due grosse croci (rovesciate, s’intende) di cartone il nostro annuncia con voce ovviamente malvagia: “This is satanic Black Metal!!”; “Porcodioooooo!!” risponde prontamente un fan sgolandosi. Io mi commuovo. Dietro il mixer il trio Giuse/Toby/Gabri (coadiuvato da un paio di fonici nordici) fa un buon lavoro per tutta la serata, solo che gli Urgehal suonano a volumi prossimi alla soglia del dolore e dopo la loro oretta scarsa di concerto le nostre orecchie fischiano come locomotive impazzite… A parte questo la band martella di brutto ed incessantemente, i ragazzi suonano benone il loro Black Metal inequivocabilmente Norse guarnito di Thrash/Death e i loro pezzi sono sufficientemente vari e pieni di stacchi. Niente covers, ma pure loro in quanto a scopiazzare… Ecco, i problemi sono i soliti: l’originalità e la personalità; tutti questi gruppi norvegesi della seconda, della terza, della quarta, e così via, ondata black metal, si sono trovati la pappa pronta cucinata dai vari Mayhem, DarkThrone, Emperor, Immortal, Thorns, ecc. e semplicemente hanno copiato gli iniziatori; per carità, anche bene che in genere sono tutti bravi (si sa che lassù di tempo e mezzi per imparare a suonare ne hanno quanti ne vogliono), però io ci trovo poco senso e anche un pizzico di disonestà (poco importa che gli Urgehal siano attivi dal ’92, significa solo che è da allora che sono impersonali). E comunque, fra parentesi, ma quanto erano avanti i Mayhem nel ’90? O i DarkThrone nel ’91? Il pubblico che, come detto, è locale solo in minima parte (e quindi “indisciplinato” solo in minima parte, citando Simone) comincia a scaldarsi e se con i Koldbrann se ne stava fermo stile adunata militare, ora invece abbozza un poghetto e qualche accenno di circle-pit, nonostante verso la fine Nefas fosse ormai senza voce e gli scappassero troppi urletti morti in gola! Dopo gli Urgehal c’è una discreta pausa in cui abbiamo modo di girare un po’ per il locale, dando un occhio ai vari banchetti presenti (vinile quasi inesistente e quello che c’era costoso e per me poco interessante. Addocchio però il cd di ‘Judeobeast assassination’ degli americani Grand Belial’s Key, black-metallers “lievemente” destrorsi che mi piacciono e che seguo abbastanza sin dai tempi del primissimo demo, disco che ho già su cassetta duplicata e che decido di acquistare a fine serata: qualcuno me lo soffierà prima e io andrò a casa a mani vuote) e, soprattutto, alla fauna presente: c’è una tipa (ma forse era un tipo…) vagamente rassomigliante al biondo degli Absu, kilt compreso; una tipa vestita con una specie di cotta vichinga e che gira con un corno (sempre viking) in mano (indovinate quella che noi pensiamo essere la funzione di detto corno nel post concerto nell’albergo di Busteggia che ospiterà le bands… “sodomy in Busteggia”, ovviamente), quattro o cinque personaggi inquietanti, quasi tutti skins e tutti con magliette dei Burzum Commandos (che erano dei tipi così leggerissimamente nazisti che un ebreo sarebbe svenuto a guardarli), quel ragazzino (già visto, dev’essere un locale) vero e proprio sosia del giovane Tom Warrior periodo Hellhammer, insomma della bella gente! Nessuno ha optato per il face-painting vero e proprio, ma qualche mano di pittura qua e là sulle facce qualcuno/a se l’è data. Mi fermo in zona mixer a scambiare due balle col Gabri, quand’ecco che, annunciato da un rumoroso tintinnare di catene simile a quello prodotto da dei campanacci (che fa esclamare ad un ironico Gabri: “cuss’è, ei scià i vacc?” –trad. che succede? arrivano le mucche?), arriva Nefas : in un primo momento sembra voglia fermarsi a chiacchierare con noi (e io già pregusto scene trash a nastro), poi invece, ubriachissimo, rovina miseramente a faccia avanti su un divanetto… Dopo un’eternità e ad orari da “altri sports” alla Domenica Sportiva, tocca finalmente ai Taake (ma dite che qualche testata metal non ha mai fatto un titolo da “Guerin Sportivo” tipo Taake on me, per qualche articolo/intervista su di loro? E fra l’altro erano norvegesi pure gli A-ha. Eventualmente vendo l’idea, fatevi vivi! -se qualcuno non l’ha capita, non gliela spiego neanche morto!-). Compare il loro striscione (come prevedibile era sotto quello degli Urgehal), che però recita una cosa “runica” tipo Te (e a me viene subito in mente la curva Te, quella dei tifosi del Mantova vicina a palazzo Te, curva dove va spesso il mio socio Ale, mantovano residente a Colico, i lettori più affezionati ne possono trovare tracce su ‘Nessuno Schema’ # 7), che non dovrebbe voler dire Taake o forse sì, ma poi volesse dire anche “viva la figa”, chissenefotte, o no? Comunque dal basso sale, giustamente, la nebbia (Taake=nebbia in norvegese), chiaramente artificiale, e mentre l’intro registrato diffonde note solenni e misteriose, via via salgono sul palco i quattro strumentisti (suppongo i musicisti da tour, dato che i Taake sono una one-man band o quasi): un chitarrista capellone, un altro chitarrista completamente pelato (piuttosto simile al buon Nasty Abrahm, ex Gradinata Nord), un batterista pure lui lungocrinito ed un bassista decisamente rocker (sigaretta e capello lungo ma non troppo e piuttosto curato; potrebbe essere un membro, che so, dei Dokken, quelli di adesso però!). Per ultimo arriva il leader Hoest che con pantalone militare, capello castano lungo e fisico magrissimo ricorda indiscutibilmente (mi rivolgo a lettori e lettrici locali), lo Scaia (nota 2012: R.I.P. pure quest’ultimo). Volumi sempre troppo alti e suono forse un po’ troppo impastato (credo più per “colpa” loro che dei fonici però), fanno solo quarantacinque minuti circa di concerto (e meno male! Che, tolti alcuni gruppi immortali, un concerto dovrebbe durare non meno di mezzora e non più di quaranta minuti, visto che poi umanamente gli astanti perdono attenzione ed interesse e iniziano a farsi due palle così!). Io, che non sono decisamente un fan della band, li gradisco abbastanza, forse per il loro Black Metal più “epico” e scuro rispetto a quello di Koldbrann ed Urgehal. Il pubblico ora è scatenato: compaiono anche due nomi storici (e ormai di una certa età!) della scena metal sondriese (che non avevo visto prima), il Metal (appunto) e il Mario (entrambi nella disciolta symphonic-black metal band Seed Of Hate), che animano il pogo a torso nudo, col Metal che sfoggia una strepitosa ed enorme croce rovesciata fatta con quel nastro adesivo “American tape” ed appiccicata sulla schiena scoperta! Ma ad un tipo il già discreto bordello pare non bastare e, piazzatosi davanti al palco, grida rivolgendosi alla folla: “Pogo!! Che siamo tutti finocchi?!”; quando sento uscite come questa mi sembra di sentire almeno 5,00 euro, di quelli spesi per il biglietto, che tornano a materializzarsi nelle mie tasche! Intanto il caldo dei virili corpi sudati (mettete wow! o bleah! a seconda delle vostre inclinazioni) inizia a farsi sentire e Marione rimane in maniche di t-shirt, peraltro una dei Suicidal Tendencies che gli invidio anche un po’! All’improvviso compare sul palco il redivivo Nefas che, ubriachissimo e probabilmente pure strafatto, lancia qualcosa sulle prime file: un liquido pare, con Marione che mi guarda e commenta: “qualsiasi cosa fosse, se la tirava da questa parte, dopo lo aspettavamo fuori!”. Hoest canta agitatissimo e piacionissimo (vedi quando durante una parte strumentale si piazza nella posa della copertina del disco, e del flyer della serata, col popolo bue che va in delirio), sembra che se la tiri, ma alla fine dedica l’ultimo pezzo a fonici ed organizzatori ricordandosi una sfilza di nomi in italiano (fallo te in norvegese!, avrebbe detto il compianto Gianmaria Gazzaniga) e lo stesso Gabri (che in passato ha fatto da roadie ai concerti svizzeri di Manowar, Celtic Frost e D.R.I., fra gli altri) mi assicura che sia lui che il resto delle bands sono dei “bravi matèi”. Considerazione che immagino comunque sia stata rivista alla luce del “gran finale”: infatti mi è stato riferito qualche giorno dopo che il liquido misterioso tirato sulle prime file (e di conseguenza su cavi e materiale vario) era una sacca di sangue di dubbia provenienza, cosa che, capirete, ai tre del service non è proprio andata giù liscia! Inoltre, a serata terminata, bands ed entourages volevano ancora bere nonostante il bar fosse chiuso; pare allora che il padrone sia stato convinto a riaprirlo previo messa sul tavolo di una banconota da 500,00 euro, pare poi che il contingente norvegese in preda ai fumi dell’alcool abbia dato vita al Teatro dell’Idiota Nordico (tagli autoinflitti, statue del locale fatte cadere, risse fra di loro, schiamazzi, ecc.ecc.), fino all’arrivo degli sbirri chiamati dal proprietario del locale…Insomma, niente di nuovo sotto il sole (o sotto la luna piena, visto che stiamo parlando di black metal)… Fra l’altro fu in questo tour che, in una data tedesca, quel bambo di Hoest esibì una svastica sul palco con conseguente pandemonio (si sa che i tedeschi sono molto sensibili all’apologia del nazismo, forse perché hanno il dubbio che se arrivasse un nuovo führer quasi tutta la popolazione si comporterebbe come quella degli anni trenta?) e articoloni su tutti i tabloid con titoli tipo “Taake, la minaccia nazista” ecc. …ma scusate, e tutte quelle National Socialist/Rock Against Communism Oi! bands allora cosa sono? Boh… Noialtri tre invece al suono dell’ultima nota dei Taake siamo scattati tipo Bolt ai blocchi di partenza verso la macchina e verso le poche ore di sonno che avevamo davanti!

 

CELTIC FROST + KREATOR – Milano, Rolling Stone, 27 Marzo 2007
Premessa in buona parte inutile: inutile perché chi segue ‘sta fanza e/o mi conosce abbastanza bene sa che il gruppo preferito dal sottoscritto è quello degli svizzeri Celtic Frost. Per i soliti profani ne condenso in poche righe la storia: nati nell’84 dallo scioglimento degli Hellhammer, prime cose via di mezzo fra black/thrash/doom e hardcore/crust -sentite e ditemi!-, poi cose più lente e monolitiche con i primi inserimenti di voci operistiche femminili e strumenti classici, poi un disco assolutamente avanguardistico e avanti di una decina d’anni, poi un assurdo album glam/hard-rock -?!? ebbene sì!-, poi un tentativo malriuscito di ritornare al passato e infine lo scioglimento nel ’92. Si sono riformati nel 2001 e, dopo una lunga gestazione, nel 2006 hanno prodotto un nuovo album che (tolto qualche riff mica male) non mi esalta molto: un po’ troppo piatto ma, come da tradizione della band, piuttosto particolare (anche se il mio primo commento dopo l’ascolto fu “oh cazzo, sono diventati i Celtic Frosc!”, descrivendone l’ammosciamento sullo stile del “frosclen” usato da Lino Banfi in “Pappa e ciccia”, episodio ambientato in Svizzera: tutto quadra!). Chi di voi mi ha visto a torso nudo (e non vi invidio di certo…) e si è chiesto cosa fosse quel tamarrissimo tatuaggio che ho sulla schiena, beh, sappia che riproduce il classico heptagram (sorta di stella a sette punte) celticfrostiano che campeggia sulla copertina di “Morbid tales”, primo disco del gruppo. A fine marzo 2007 la band dell’ineffabile Tom G. Warrior suonerà per la prima volta sul suolo italico, superfluo dire che non posso mancare, costi quel che costi!

* E per costare, costa anche! Che sborso la “bellezza” di 26,00 euro per il biglietto (acquistato per me dal sempre gentile Marione e consegnatomi la sera dei Taake. Al sicultellinese i Frost non piacciono -roba da scomunica!-, quindi al concerto non ci verrà); sì, il biglietto, al singolare, perché come per i Taake ricevo una discreta serie di rifiuti (praticamente dalle stesse persone!) e sarò mio malgrado costretto alla discesa milanese in solitaria, anche se poi sul posto incontrerò due elementi di quassù, il conterraneo Renza (che durante la settimana risiede a Milano per lavoro) e il sondriese-ora bresciano Enore. Qualche settimana prima pare che anche il Sor Petralia arrivi appositamente da Roma per il concerto, poi però deve rinunciare e a me resta una suo messaggio recitante “in questo momento sento proprio “Monotheist”, ti penso e mi tocco…” a cui replico “ne sono onorato, però avrei preferito essere oggetto della sua satanica lussuria capitolina sulle note di “Morbid tales”!”: ehh, due messaggi risultato di due gioventù bbbruciate, come dicono degli altri capitolini illustri, i Bloody Riot. Il concerto dovrebbe iniziare presto (18.30 circa), quindi sono già abbastanza sicuro di perdermi i primi due gruppi, che sono gli svedesi Watain e gli olandesi Legion Of The Damned. Non che me ne freghi poi molto [i blackmetallers Watain sono ascoltabili, ma niente di che e oltretutto mi paiono anche abbastanza sopravvalutati sulla stampa -che anche in campo metal ci sia quella prezzolata stile accoliti di Moggi?-, i thrashers L.o.t.D. non li ho mai sentiti e a dirla tutto non è che a pelle mi attraggano particolarmente, pur essendo attivi sin dai primi anni novanta col nome di Occult (non male i primi due albums); il cantante fra l’altro era il batterista dei Bestial Summoning, black metal con un lp all’attivo nel ‘92], anche se per la somma spesa fra ingresso, trasferta, varie ed eventuali, pretenderei citando proprio il succitato Petralia “anche di vedere il barista fare i cocktails”, figurarsi i due gruppi-spalla! Quindi parto direttamente dal mio cantiere in Alta Valsassina verso le 17.45, direzione Milano; è una soleggiata sera di inizio primavera, nell’autoradio piazzo “The carnival bizarre” dei Cathedral anno 1995, le cui “fumate” note, fra il relax post una giornata stranamente esente da rogne e la stanchezza di una decina di ore lavorative, mi provocano psichedeliche allucinazioni con avvistamenti di navicelle spaziali multicolore condotte da strani esseri alieni lungo la tangenziale milanese (in realtà enormi autoarticolati con targhe straniere condotti da autisti turchi!). Non appena entro a Milano-città inizia a piovere abbastanza copiosamente… Grazie al mio GPS do-it-yourself (cioè delle indicazioni scaricate da internet e stampate la sera prima) trovo subito il Rolling Stone, che riconosco anche grazie alla discreta folla chiodo-borchiata che staziona al di fuori, il problema è che trovare un parcheggio alle sette di sera nella megalopoli è un’impresa che mi porta pericolosamente fuori zona al punto di perdere la strada, costringendomi a domandare lumi ad un classico “sciùr” meneghino (affabilissimo e oltremodo prodigo di indicazioni) sicuramente oltre gli ottanta, una specie che fra un paio di decenni sarà purtroppo estinta alla pari del tilacino o del dodo. Al terzo passaggio davanti al Rolling Stone imbottigliato nel traffico e alla circa duecentesima bestemmia unita ad uno sguardo ormai irrimediabilmente da folle omicida, vedo un centro commerciale con annesso parcheggio a pagamento aperto tutta notte e, sfumata ormai l’utopia del riuscire a parcheggiare senza dover pagare, mi ci fiondo; so che ci lascerò sulle ventimila del vecchio conio (alla fine “solo” 8,00 euro), ma qui rischio sia di avere una crisi di nervi, sia di perdermi i Celtic Frost! Mi incammino sotto la pioggia ora battente, ovviamente senza ombrello, in giubbetto di jeans molto gayo/turbonegriano e felpa nera con cappuccio ben calcato in testa; faccio una sosta per un caffè in un bar semi-fighetto lungo la via e richiamo il Renza di cui non avevo sentito la chiamata (forse perché spesso metto il cellulare in modalità silenziosa? eh, forse!). Lui è già dentro e io in pochi minuti lo raggiungo nell’ “antistadio” (non so come chiamare la zona fra la biglietteria e la sala concerti!), presso una bancarella di vinili metal (con qualcosa hardcore-punk) “vintage” come dicono ora (niente di entusiasmante comunque, al di là dei prezzi umani e di una serie di gran dischi che però o ho già o non mi interessa avere in originale oltre che in cassetta registrata o su cd-r); prima del mio arrivo pare si sia svolta una divertente scenetta: un tipo solleva un disco degli innominabili di Pesaro/Firenze (quelli che iniziano con la D e finiscono con SS), un altro si mette a gridare “rimettilo giù! rimettilo giù!” e gran parte dei presenti si tocca! Faccio mente locale e, se la memoria non mi tradisce, l’ultima volta che ero stato qua, al Rolling Stone intendo, dev’essere stato nell’ahimè ormai lontano ’94 a vedere i Bad Religion; mi sembra che comunque da allora il posto sia stato decisamente ristrutturato un bel po’! Assieme al Renza c’è il sovrano indiscusso del bandana-thrashcore milanese, cioè il Pulce (Renza e Pulce sono rispettivamente chitarra e voce dei DeathBeforeWork), mia conoscenza di vecchia data che vedo in media una volta ogni due anni a qualche concerto! Pulce chiaramente bandanato e con giubbetto di jeans pieno di toppe, quasi fosse uscito direttamente da una vhs di “Ultimate Revenge” (Slayer, Exodus e Venom live: l’inizio coi fans fuori dal locale) su cui qualcuno avesse per errore registrato un “footage” sulla scena hardcore di Venice Beach a metà anni ottanta (Suicidal Tendencies, Excel, Beowülf, Uncle Slam, ecc.) e le immagini dei due video si fossero sovrapposte; e a me il nostro ricorda sempre terribilmente Howard il Papero (quello del film sci-fi/commedia omonimo) mixato ad Inox (cantante dei metalcorers morbegnesi Skunk nei primi anni novanta) ed al compianto attore Giorgio Porcaro: spero non si offenda, per me è quasi un complimento! Intanto i due mi dicono che il concerto è iniziato già da un bel po’ (attorno alle 18.30, come da programma) e che i primi due gruppi (come immaginavo) hanno già suonato; i Legion ecc.ecc. non li hanno visti, i Watain sì e secondo Renza, pollice verso (l’unica cosa interessante pare fosse il palco addobbato con teschi e candelabri). Io, avendoli mancati entrambi, commento a metà fra l’ironico e il nozionistico, dicendo che i Legion Of The Damned hanno un nome che sembra quello di un videogioco, mentre i Watain ne hanno uno (speculativamente?) da culto (“Watain” era un pezzo della cult-band statunitense Von, divenuta tale -di culto intendo- perché piacevano a Varg Vikernes in arte Count Grishnack quindi Burzum, che si era presentato ad uno dei processi di cui era l’imputato con indosso una felpa dei suddetti Von, suppongo taroccatissima e stampata da lui medesimo). Fra l’altro i Watain riesco comunque a vederli, anche se solo di persona, perché entriamo assieme a loro nella sala concerti (me li indica Renza); se gli svedesi generalmente te li immagini alti, biondi e prestanti (diciamo alla Bjorn Borg o alla Glen Peter Stromberg o, per restare nel metal, stile il compianto Quorthon), questi sono magri, di bassa statura e coi capelli scuri (facilmente tinti comunque): dei “piccoli magri bastardi” (citando una vecchia intervista di Henry Garfield in arte Henry Rollins a proposito di alcuni promoters italiani che l’avevano fregato in occasione di alcuni suoi passati concerti nella nostra penisola). Intanto direttamente da Brescia e dintorni arrivano Beppe (è colui di cui trovate qualche recensione in altre pagine sotto lo “pseudonimo” di Pep the Brescian) con moglie ed Enore (che moglie, e figlio, invece li ha lasciati a casa): loro tre più il Pulce seguiranno Celtic Frost e Kreator davanti nel “pit”, io e il Renza optiamo per la più tranquilla zona-mixer, purtroppo in piedi per scarsa reattività durante l’accaparramento dei posti sulle gradinate appena dietro: neanche il tempo di girarci che da mezze vuote erano strapiene come la curva del Boca Juniors durante el superclásico col River Plate! Celtic Frost dunque! Come già detto per la prima volta in Italia (e dire che sono svizzeri, zona Zurigo per la precisione), quindi li vedo live per la prima volta a vent’anni esatti dalla prima volta che li ascoltai nella primavera dell’87! Il problema è che vedere adesso questi gruppi, che hanno avuto i loro momenti migliori nei primi anni di esistenza, è come vedere una partita fra vecchie glorie di squadre di successo, tipo Inter 88/89 (quella del primo scudetto dei record) contro Genoa 91/92 (quella della semifinale Uefa), per citare le due squadre per cui faccio il tifo: ti riempie il cuore di vecchie emozioni, ma il livello del gioco e dei giocatori è quello che è, adesso… E so che sarà lo stesso per i Celtic Frost, purtroppo. Così, già un po’ disilluso, rimango lì a guardare i roadies-accordatori (di cui uno esalta la folla accennando al riff di “March of the S.O.D.” degli S.O.D.) però…però le luci si spengono e appare un enorme sfondo con la copertina di “To Mega Therion” (col dipinto di H.R.Giger) e la disillusione, potere dell’immagine, per un attimo svanisce; dico per un attimo perché poi entrano Martin Eric Ain con un’orrenda palandrana scura (da bidello, come suggerisce argutamente il Renza) e un osceno barbone da fricchettonaccio (un uomo ripugnante, e dire che negli 80’s era davvero un bel figliolo!) e Thomas Gabriel Warrior con capello corto ed un orribile zuccotto da rapper che, orrore, lo fa rassomigliare un po’ allo Zorro (dei fu-Carrions N.N.), e così non bastano le occhiaie di entrambi, nere di trucco come ai tempo d’oro, a non farmi scendere i coglioni, non dico a terra, ma almeno al ginocchio. Completano la line-up un batterista capellone e barbuto a torso nudo che istantaneamente mi sta sulle balle, sia per l’aspetto, sia per le movenze, sia perché lì su quel seggiolino doveva esserci Reed St.Mark (il batterista americano della formazione storica dei Frost), e un secondo chitarrista giovane e abbastanza anonimo. Il batterista è tale Franco Sesa (sarà parente del calciatore svizzero che durante la sua militanza nella serie A italiana riuscì a segnare all’Inter sia con la maglia del Lecce che con quella del Napoli? Trovo così un ulteriore motivo per farmelo stare antipatico), mentre avevo letto che alla seconda chitarra ci sarebbe stato Anders Odden degli storici deathmetallers norvegesi Cadaver (già in tour coi Frost negli U.s.a. lo scorso anno), ma questo è troppo giovane per essere lui e infatti si tratta di tale Victor Bullok, in arte V. Santura, tedesco e membro dei black metallers bavaresi Dark Fortress. Si parte con un lungo intro e poi è subito la storica “Procreation (of the wicked)” (datata ’84), in una versione un po’ strana, un po’ più rallentata rispetto al già lento originale; segue “Visions of mortality” (sempre ’84) già più in linea con la versione di “Morbid tales”, per poi arrivare a quello che probabilmente è il pezzo-simbolo dei Frost, “Circle of the tyrants” (di cui qualcuno ricorderà la cover fatta dagli Obituary sul loro secondo album) e qua capisco dove sta il problema: suono un po’ modernizzato a parte, il problema è là dietro i tamburi! Insomma, ‘sto Franco Sesa fa la metà di quello che Reed St.Mark farebbe con una bacchetta legata al…membro! Questa non è la batteria dei Celtic Frost, punto. Poteva ingannarmi sui primi due pezzi (più vecchi e registrati originariamente da un altro batterista, Steve Priestly), ma non quando deve confrontarsi con Reed (che se non erro era anche un turnista dello strumento, quindi…!). A questo punto mi sa che potevo andare anch’io a fare un’audizione per i Frost! Poi, a dimostrazione di quello che ho scritto prima a proposito dei motivi della mia disillusione, arriva una “The usurper” un po’ più “stanca” rispetto all’originale, ma con dei riffs che ancora oggi possono mettere via chiunque, che è come vedere il brasiliano Branco tirare una punizione nell’ipotetica sfida Genoa-Inter: ti fa sicuramente dire “però! ha ancora una gran bella legna!”. C’è ora un pezzo nuovo, “Ain Elohim”, chiaramente una palla. Per fortuna si passa subito alla mitica “Necromantical screams”, per la quale vale un po’ il discorso fatto per “Circle of the tyrants”, poi arriva la famosa “Dethroned emperor” su cui non rammento particolari pecche (anche perché il pezzo è dell’84, quindi non venne registrato da Reed). Anche per il superclassico “Into the crypts of Rays” può valere lo stesso discorso fatto per “The usurper”: è fatta anche bene, ma non così elettrica e viva come quella dell’84 o anche dei concerti ‘86/’87, che è come vedere Nicolino Berti che col fisico attuale prova una delle discese per cui era famoso… La chiusura è in linea con lo spirito spiazzante che ha sempre contraddistinto i Frost: dove un gruppo “normale” piazza tre o quattro hits del passato, loro buttano in tavola i quindici e passa minuti di “Synagoga Satanae” dall’ultimo album; plaudo la decisione da un lato, ma dall’altro…due palleeeeeee! Il concerto finisce, da una parte sono contento di aver sentito certi pezzoni live e il concerto tutto sommato mi è piaciuto, dall’altra sono deluso da questo nuovo batterista (che già su “Monotheist” non mi aveva impressionato) e anche dal fatto che il capolavoro “Into the pandemonium” sia stato completamente ignorato in sede di scelta dei brani per la scaletta (posso capire il solito problema “batteristico”, che “Into…” ha un drumming piuttosto complesso, però almeno la più lineare “Inner sanctum” potevano tentare di farla); ovvia la scelta di ignorare l’album glam “Cold lake”, ma pensavo che almeno un pezzo da “Vanity/Nemesis” (’90, ultimo disco pre-scioglimento) l’avrebbero fatto (in questo caso meglio così comunque, và!). In pratica la linea di questi attuali Celtic Frost è: noi eravamo “Morbid tales”/”Emperor’s return”/”To Mega Therion” e il disco nuovo, il resto non è mai esistito; e fra l’altro in questa celebrazione dei primi dischi entra anche una clamorosa rivalutazione degli Hellhammer (che per anni Warrior aveva rinnegato), con tanto di nuovo merchandise degli stessi venduto sul sito (qui al Rolling Stone nessuna band vendeva materiale, parrebbe a causa di problemi in dogana col merchandise rimasto là)… Ed ora, direttamente dalla Ruhr, tocca ai tedesconi Kreator (noto con piacere che è ancora presto, saranno le nove, quindi pregusto già di “prendere il letto” ad orari quasi umani!): contrariamente ai Frost loro non hanno mai smesso di fare dischi e concerti, quindi sono una macchina da palco ultra-rodata (nonostante gli svizzeri fossero alla fine del tour e perciò coi meccanismi ben oliati da un gran numero di concerti, quando vedo i Kreator riesco lo stesso a notare la differenza). I quattro salgono di gran carriera sul palco: assieme agli storici fondatori Mille Petrozza (di chiarissime origini italiane!) e Ventor, ci sono un bassista (tale Christian Gielser), che visivamente ricorda l’altro storico fondatore Rob Fioretti (paisà pure lui) e un secondo chitarrista piuttosto efebico (che a me e Renza, vergognosamente, sembrerà una donna per tutto il concerto, e pure una carina!), il finlandese Sami Yli-Sirniö (che è contemporaneamente membro dei metal-progsters finnici Waltari) …sì, beh, diciamo che i Kreator sono tedeschi come lo è la nazionale di calcio della Germania degli ultimi anni! La scelta della scaletta più o meno segue lo schema: un pezzo dai dischi storici (quelli dall’85 al ’90, quelli veramente belli) / uno o due da quelli più “recenti” (quelli degli ultimi sedici anni insomma, dove purtroppo non c’è molto da salvare, almeno per quanto mi riguarda). Petrozza è un grande aizzatore di folle e sfoggia un look sempre più “terùn”, gli mancava la catenozza d’oro, ma veramente, solo quella mancava! Ventor tanto brutto quanto imponente dietro una batteria che, vista la stazza del percussionista, sembra quasi una batteria-giocattolo! L’efebico sciorina degli ottimi assoli e tutta la band gira che è un piacere. Riconosco le varie “People of the lie”, “Extreme aggressions”, “Pleasure to kill”, “Betrayer”, ecc. Come i Frost anche loro ignorano l’album dell’87 (“Terrible certainty”), ma penso solo perché lo considerano il peggiore dei primi cinque (a me comunque piace). Il finale, come dirà poi il Pulce, è “Flag of tormentor”, cioè le mitiche “Flag of hate” e “Tormentor” (entrambe dall’esordio “Endless pain”) eseguite una attaccata all’altra e con una ferocia notevolissima. Lamento però l’assenza di due classicissimi, “Under the guillotine” e “Riot of violence”, così non si fa, eh Mille! Ci ritroviamo subito col Pulce (così che non posso esibirmi nel previsto “e Pulce where is?!” alla Aldo “Ramone” di Aldo, Giovanni & Giacomo) e i tre bresciani e raggiungiamo le rispettive auto (io quasi quasi compro dei taroccatissimi polsini dei Kreator tipo tennis da un “bagarino”, poi però per autorispetto estetico passo la mano!), essendo praticamente di strada do un passaggio a Renza fino a casa e al Pulce fino a Viale Zara (non perché il nostro debba iniziare il turno stradale di notte sul marciapiede, ma perché ha lasciato lì la bicicletta e non abita tanto distante) e imbocco la strada verso casa con nell’autoradio la colonna sonora di “Gummo” (il film non l’ho mai visto, ma come soundtrack non è mica male! Cito Bathory, Eyehategod, Brujeria, Sleep, Absu, Burzum, Spazz, Mystifier, ecc.) e, nonostante rischi di addormentarmi almeno un paio di volte durante il lungo pezzo ambient di Burzum, raggiungo Colico praticamente senza incontrare traffico (eh bè, martedì notte a marzo…), dichiarando chiuso il tour de force black/thrash metal iniziato domenica a Piateda!

 

VINILMANIA – Novegro (Mi), 19 maggio 2007
Visto che io e il mio socio di lunga data Marione negli ultimi anni riusciamo a vederci solo a qualche concerto, dato che le poche volte che lui torna a Sondrio se ne va in montagna (anche se poi nei weekends rimane sempre a Milano ad esercitare la seconda professione di gigolò-coloniale!), nel post-concerto dei Taake avevamo deciso di organizzare una giornata milanese a caccia di vinili, unendo così classicamente l’utile al dilettevole. Decidiamo per sabato 19 maggio, appuntamento per le 12.00 in stazione centrale (decido io per l’orario comodo che, abituato da sempre a levataccie antelucane e citando Pozzetto nell’episodio di ‘Di che segno sei?’, “non vedo l’ora di morire per fare una bella dormita!”), quindi sveglia alle 9.15 e treno alle 9.50, evitando così le corse fantozziane che facevo da ragazzino ai tempi della scuola (treno alle 7.05 e sveglia alle 6.45, cioè al limite delle possibilità umane), anche perché venerdì notte, o meglio sabato mattina, vado a letto all’1.30 dopo partita di calcio a sette (vinta ai rigori) praticamente sul confine svizzero, cioè a quaranta e passa chilometri da casa. Quindi sveglia tranquilla, cagata con tutti i crismi, colazione “slow” e cafferino al bar della stazione con lettura della “Gazza” incorporata! Mentre leggo attentamente la “rosea”, un gruppo di ragazzine vicino a me chiacchiera animatamente di scuola e dintorni…io, volente o nolente (visti i volumi) ascolto la conversazione e devo dire che non sono certo stupide queste bimbette come invece troppi vogliono farci credere. Mi sembra di essere Fantozzi in quel racconto in cui lui va al liceo dove studia la figlia e per la prima volta vede/sente da vicino quei famigerati giovani! Parlano comunque delle stesse cose di cui parlavano le loro coetanee nell’86, solo che queste al 95% sono molto carine, mentre allora la percentuale delle passabili sfiorava raramente la doppia cifra…comunque quei soloni che bollano come idiota tutta una generazione si facciano un giro nelle stazioni o su treni e pullmans la mattina ;-) ! A proposito di mattina, è una splendida mattinata tardo-primaverile, forse un po’ troppo calda, e già mi pento di indossare la camicia nera (non nel senso dell’8 settembre ’43!) che porto sopra una t-shirt dei Turbonegro. Mentre attendo il treno (che è sempre il treno –n.d. Renato Pozzetto, sempre lui!) incontro una mia vicina di casa che sta andando a Lecco ad incontrare una delle figlie; la sciùra in questione è la madre dell’Andrea, mio unico “maestro” di batteria (nel senso che mi spiegò un paio di rudimenti e con un allievo da classe differenziale come me…), poi bassista, fra gli altri, per i milanesi Karma e i più noti Afterhours (lui è milanese, ma colichese di origine), e ci facciamo compagnia fino a Lecco fra racconti e pettegolezzi di paese, che una donna di evidenti origini sovietiche sui cinquanta ascolta affascinata e divertita dai quattro posti a fianco dei nostri (il treno fortunatamente è semivuoto). Le due donne scendono entrambe all’ombra del Resegone, così che io resto da solo e fino a Milano (c’è ancora un’ora di treno) mi dovrò accontentare di guardare come in trance la campagna brianzola attarverso il finestrino, col massimo diversivo di qualche sms tipo “divertiti ma non spendere troppo” della mia ‘bella’, oppure “ci sono” / ”cazzo, martedì ho un impegno” dei miei compagni di squadra per la prossima partita in calendario (dirlo ieri no, eh?), oppure ancora “no, la sala è occupata” da parte del Bassman in risposta alla mia richiesta se giovedì si prova… Ma in mezzo al bailamme di sms più o meno graditi si erge quello di Marione che, oltre a comunicarmi che sarà sul binario ad attendermi, mi informa di avere una sorpresa per la giornata, qualcosa che ha appena saputo; io, sempre via sms, rispondo se per caso abbiamo Tom G. Warrior a pranzo con noi da qualche pizzettaro, ma il malefico siciliano non ri-risponde e mi lascia nel dubbio per il restante quarto d’ora scarso che ci separa. Arrivato alfine a destinazione, Marione è in effetti sulla banchina e consumiamo scene festose di reincontri omosex stile “Turbonegro, the movie” (e non a caso io indosso una maglietta della band norvegese). La sorpresa mi viene rivelata subito, c’è Vinilmania (la mega-fiera internazionale del disco a cui non ero mai stato) e quindi il piano di battaglia è subito pronto: puntatina nel cuore della metropoli (o quasi) da Soundacave e dal Catta, pranzo (purtroppo senza Tom Warrior) e bus per Linate/Novegro (i capannoni che ospitano Vinilmania sono appunto in quel di Novegro). Prendiamo la metropolitana e dei suonatori tzigani sul vagone mi spingono a suggerire a Marione l’idea di nenie sicule da lui cantate e suonate col marranzano per arrotondare quando si reca al lavoro! Soundcave è un negozio che esiste ormai da una decina d’anni, ma io non c’ero mai stato, anche se ogni tanto mi arriva il loro catalogo dato che cinque/sei anni fa avevo preso da loro le due ristampe in cd di lp e demos degli eroi canadesi Slaughter, nelle cui thanx-lists compare il mio nome: piccole soddisfazioni… Soundacave, che se non erro venne messo in piedi dal Mammarella, boss della Avantgarde Records (già Obscure Plasma), nonché leader degli storici Monumentum, è un negozietto abbastanza spazioso (non buio come pare fosse l’Helvete del compianto Euronymous, ma anzi, piuttosto luminoso) con un sacco di metallo estremo, ahimè quasi tutto in cd; vinili pochissimi e recenti o al massimo ristampe, niente usato…Io mi faccio una cultura di copertine black/death metal di dischi che conosco e/o di cui posseggo la registrazione, ma che non ho mai visto in originale. Sono lì lì per prendermi almeno una t-shirt per “festeggiare” la mia prima volta qui, ma non trovo nulla di interessante, a parte una dei Beherit che però è troppo truculenta (devo riuscire a recuperarne una loro, ma col solo logo però!). Sottofondo incessante di black metal monotono, palloso e recente, chissà che gruppo era…non ho osato chiederlo al duo dietro il bancone! Senza ancora aver comprato nulla e mantenendo la nostra ipotetica sfida all’acquisto ferma sullo 0-0 ci spostiamo verso il negozio del Catta. Durante il tragitto (peraltro sotto un sole molto caldo e africano), un venditore ambulante, africano appunto, cerca di proporre a Marione della chincaglieria che il nostro però rifiuta amichevolmente; l’ambulante allora se ne va senza nemmeno provare a proporla a me, Marione sostiene che in lui il negretto ha riconosciuto un fratello africano del nord del continente, mentre in me ha visto un mezzo slavo, quindi potenzialmente pericoloso…sarà! Arriviamo quindi da Hangover, gergalmente detto Catta da Luca Cattaruzza, proprietario, con cui dieci e passa anni fa scambiavo dischi per le rispettive distribuzioni e che ricordo con piacere quando mi cercò -non trovandomi- per solidarietà e sostegno dopo un mio piccolo guaio giudiziario con le Poste Italiane; io lo richiamai il giorno dopo, stavolta non c’era lui, quindi la cosa decadde (erano tempi di telefono fisso!). Continuammo a scambiare per qualche anno, poi ci perdemmo “di vista”. Sapevo del suo negozio e della bancarella che piazza quasi sempre al sabato a Senigallia, ma quando l’anno scorso la mia tipa mi trascinò alla fiera il banchetto era assente, peccato perché ero nel mood di farmi riconoscere e scambiare due balle, oggi invece non lo sono tanto e raccomando a Marione di non introdurmi come me stesso in caso Luca sia presente. Entriamo e lui comunque non c’è, c’è una ragazza al banco; il negozio è piccolo, ma c’è un sacco di bella roba Hardcore/Punk/Garage/Rock’n’roll, vestiario compreso, oltre ad un neanche troppo piccolo spazio Metal, nel quale Marione mi fa notare un bootleg del 12” degli Hellhammer del tutto identico all’originale (minuscole discrepanze escluse). Qui da Hangover il tasso vinilico è decisamente elevato e lo scaffale dell’usato attrae subito le nostre attenzioni: c’è della robba decisamente buona, qualche disco già ce l’ho, ma alla fine mi prendo due lp’s a 5,00 euro cad., “Fire & ice” dei D.Y.S. (la band di Dave Smalley pre-Dag Nasty) e “Pressure” dei Crivits (band hardcore-straight edge olandese, disco che avevo già su cassetta duplicata almeno dal ’93 e duplicatami proprio da Marione!). Il mio compare siculo-sondriese non compra nulla e andiamo così sul 2-0 per me…e sarebbe stato anche 3-0 se avessi trovato quella maglietta dei Suicidal Tendencies (che Marione sfoggiava ai Taake e presa proprio qui) o se l’lp “Pantalgia” (una compilation death metal del ‘92 con Therion, Cadaver, Malediction, Rottrevore e altri) non mi fosse stato prezzato su due piedi la ‘bellezza’ di 18,00 euro (troppi secondo i miei parametri) da un tipo new entry al bancone; tipo che, una volta usciti, Marione mi rivelerà essere proprio Mr.Catta (che chiaramente io negli anni non avevo mai visto né incontrato). Tempo di mangiare (parafrasando i Kina) in un mezzo bar/pizzettaro/ristorante, con gentilissima cameriera ucraina, gentilissima sciùra milanesissima al bancone focacce/pizzette e maleducatissimo (coi sottoposti) titolare napoletano sguaiatissimo … Fra aneddoti su personaggi di quassù, su amici/che comuni, ricordi di anni Hardcore ormai tramontati e un bis di focaccia, oltre ai ritagli-omaggio da parte di quella che magari ha degli antenati in comune con me (ricordo ancora una volta le mie lontanissime origini ucraine). Ci trasferiamo caminando all’ombra (si fa per dire!) della mia bela Madunìna verso la fermata dell’autobus per Novegro; l’attesa è discretamente lunga, il caldo decisamente porco, ma stando sotto i vicini portici riusciamo a non patirlo troppo. Arrivato finalmente il bus saliamo e ci piazziamo su dei comodi sedili, visto che il tragitto sarà piuttosto lunghetto. A pochi chilometri dall’arrivo Marione suggerisce di alzarci e di andare dal conducente, per non sbagliare la fermata o per non finire addirittura all’aeroporto di Linate, e qui ha inizio un momento assolutamente surreale: a una fermata salgono due tipette dal look fra punk ed Avril Lavigne, anche abbastanza carine, sui quindici/sedici anni, e si piazzano in piedi davanti a noi. Dopo aver letto le scritte “punk-rock”, “Sex Pistols”, A cerchiate varie ecc. sugli zainetti declamo in pieno stile Calboni “io ho ‘Never mind the bollocks’ autografato da Johnny Rotten!”, esattamente nel momento in cui le due iniziano a parlare fra loro con un accento sardo che, giuro, nemmeno Giovanni di Aldo, Giovanni & Giacomo; al che io prontamente aggiungo “anzi no, non ce l’ho più, l’ho regalato perché non mi piace il punk”, che qualsiasi velleità erotica era caduta miseramente, e vi giuro che non ce l’avrebbe fatta nemmeno il Depla, che pure ha origini sarde! Seguono alcuni minuti di vero surrealismo: io, Marione e l’attempato autista assolutamente allibiti, e le due che proseguivano imperterrite in una versione punkettina di Giovanni “Nico” con Giacomo “Nonno”…spero ancora adesso che fosse tutta una messinscena, spero. Le due scendono comunque una fermata prima della nostra e noi, su indicazione del cocchiere, abbandoniamo l’autobus scendendo nel nulla della oltre-periferia; attimo di dubbioso sbandamento, poi la vista di un barbuto individuo sui cinquanta (chiaramente alla ricerca di vinili dei Grateful Dead!) che è sceso assieme a noi ci fa capire che siamo nel posto giusto! Due minuti di camminata, un’estorsione di 7,00 euro per poter accedere alla fiera e finalmente eccoci nei mega-capannoni industriali (dove pare si svolgano fiere ed expo di qualsiasi genere e a getto continuo). Io spero di vedere gente tipo quella che mi dicono presenziare alle fiere dei fumetti (individui assurdi vestiti da Ape Maia, Lady Oscar, Diabolik, Wonder Woman, ecc.), ad esempio, che so, persone agghindate da vecchi Kiss trucco incluso, oppure da epic-metallers con spadoni e armature, oppure ancora argentate stile Rockets! Speranza che purtroppo si rivelerà vana. L’entrare comunque è uno shock che io, che credevo ormai di essere rotto a tutto, ne vengo letteralmente travolto: stands di vinili (piccoli o enormi) a perdita d’occhio, due grosse arterie laterali piene di banchetti unite da corridoi a loro volta riempiti dalle bancarelle! Noi non sappiamo da che parte iniziare, migliaia di copertine multicolori ci fanno l’occhiolino da ogni dove e l’effetto è quello della Playboy Mansion, dove non sapresti su quale coniglietta ti butteresti per prima (più terra terra e al nostro livello suggerisco anche la scena di Fantozzi e Filini al night, “ragioniere, ci stanno guardando tutte!”). Facciamo un giro panoramico d’ispezione, notando che sono almeno due i capannoni occupati da Vinilmania: azzardo un quattromila metri quadrati di vinile, anche se certi sono stands di musica decisamente non per noi; individuiamo così quelli Metal/Hardcore-Punk e, visto che alle 18.00 la baracca chiude e sono già le 15.30, iniziamo il giro con un metodo salvatempo: uno fa passare i dischi stando da parte, l’altro legge i titoli ad alta voce e ci si blocca quando c’è qualcosa di interessante (proclamo in questa sede che odio gli scatoloni dove i vinili sono troppo stretti e si fa fatica a “sfogliarli”!). Rarità ce ne sono a iosa, ma i prezzi sono proibitivi (certi poi sono, come e anche di più di certi ingaggi di calciatori, veramente contrari alla morale e al buonsenso ;-) !) e, visto che il nostro obiettivo dichiarato è “Under a funeral moon” dei DarkThrone, prima stampa ovviamente, in due copie a massimo 10,00 euro cad. (per il profano, equivarrebbe a dire che il Lecco vincerà lo scudetto entro i prossimi cinque anni), decidiamo di concentrarci solo sulle offerte o su dischi comunque non oltre i 20,00 / massimo 30,00 euro, ma solo in casi ultra-estremi. Le “marcature” le apro io, che da un francese mi becco nello scatolone delle offerte un ottimo “Mean” dei Filthy Christians (’91 su Earache, originali grind-hardcorers svedesi. Disco che ho da secoli su cassetta duplicata e che mi piace parecchio) a soli 5,00 euro. Tempo cinque minuti e ne insacco un altro: nello stand di una simpatica cicciona straniera (anglofona credo), che fra l’altro vendeva una t-shirt degli Atrophy (!! mai viste neppure all’epoca), mi prendo a 10,00 euro “U.s.a. for M.o.d.” il primo album dei M.O.D. di Billy Milano datato ’87 (anche qui già nelle mie mani in cassetta duplicata da quasi vent’anni). Ma Marione non è in affanno, è evidente che il vecchio lupo delle Madonìe vuol piazzare il colpo grosso. Io intanto, più bulimico di Gerd Müller (sì, bravi Pippo Inzaghi e Raul, ma il rapporto partite giocate/gol segnati dal tedesco possibile che non lo guardi nessuno? Eddddai!), faccio il tris con un bel Purtenance “Member of immortal damnation” a 8,00 euro (questo non l’avevo neanche registrato, della band ho già il 7” originale, così completo la loro “sterminata” discografia! Ah, Death Metal finlandese anno’92) da un tipo con pesante accento milanese/lombardo; in questo stand lascio però “Life sucks…and then you die!” dei thrashcorers inglesi Cerebral Fix (sempre a otto euro) e ora che scrivo un po’ lo rimpiango…! A un certo punto compare uno stand di sole riviste musicali: ce ne sono un sacco di estrazione metal, come i famosi “Kerrang”, “Aardshock”, “Metal Forces”, e c’è anche un “HM!” (uno dei primi cinque numeri, non ricordo quale di preciso) che mi manca: chiedo al panciuto elemento dietro il banchetto quanto viene e la risposta “15,00 euro” mi lascia incapace di proferire parole di senso compiuto per qualche minuto (invece Totò gli avrebbe detto “ma mi faccia o’piacere!”). Il primo vero colpo grosso, però, a sorpresa lo metto a segno io, anticipando Marione con un guizzo degno del miglior Hernan Crespo: da un napoletano mi “accatto” (citando l’altrettanto napoletana Sofia Loren) un Merycful Fate “Don’t break the oath”, che il partenopeo gentilmente mi sconta da 12,00 a 10,00 euro: affarone! Inoltre il disco (datato ’84 per la cronaca) è grandioso (ovvio che l’avessi su k7 duplicata da eoni) e, possedendo già il vinile di “Melissa” (primo album), se riuscissi a recuperare il quasi introvabile (a prezzi decenti intendo) mini-lp d’esordio sarei a posto! Il tipo aveva anche “Libero di vivere, libero di morire”, lp dei Wretched stampa originale (io ho la ristampa della torinese MisterX) a 20,00 euro, ma col vinile piuttosto rovinato (cosa che correttamente il tipo ci dice subito): chiaramente è rimasto lì, feticisti del vinile sì, ma coglioni no, eh! Sul parziale clamoroso di 4-0 (anzi, di un tennistico 6-0 contando anche la puntata dal Catta) per il sottoscritto ci concediamo una sosta ad uno dei chioschi-bar presenti all’interno dei capannoni, dove rinfreschiamo le nostre gole riarse a suon di Tankardiana birra (Marione) e (io) Judaspriestiano thè (lo zio Rob Halford pare sia un accanito sostenitore dell’inglesissimo thè delle cinque!), freddo però, ovviamente! Dopo qualche ora passata a sparare cazzate ci voleva proprio! A questo punto, dopo esserci imbattuti negli stands più disparati (da quello solo-Rolling Stones a cura del fan club italiano a quello solo-Sanremo, da quelli dance/techno a quelli di musica classica e a quelli dediti ai soli cantautori italici), becchiamo una bancarella con un sacco di Hardcore e di Punk/New Wave d’epoca, quasi tutta roba americana. Scambiamo quattro chiacchiere col tipo (nome? boh? però mi sa che non ce l’ha mica detto!) e scopriamo che viene da Ferrara e che è un amicone intimo degli Impact, nonché in pratica il loro “archivista”; scopriamo anche di essere stati presenti agli stessi concerti fra la fine degli 80’s e la prima metà dei 90’s. Poi, a bruciapelo, Marione mi tramortisce con un micidiale 1-2-3-4-5 stile Manchester United contro la Roma: i primi due albums degli Scream, un lp dei M.I.A., uno dei Marginal Man e uno dei T.S.O.L. ! Non ricordo per quanti euro, non pochi di sicuro, anche se il venditore applica un discreto sconto e alla fine il prezzo cumulativo mi pare decisamente buono. Io somatizzo dicendomi che tanto sono gruppi che a me non piacciono molto, ed è vero, cioè Scream oggettivamente grandissimi, ma non mi hanno mai esaltato troppo (visti pure live con Kina e Fire Party. Alla batteria degli Scream c’era Dave Grohl pre-Nirvana e Foo Fighters), T.S.O.L. li apprezzo su certi dischi meno su altri, e M.I.A. mi piacicchiano, mentre i Marginal Man credo vergognosamente di non averli mai nemmeno ascoltati! Insomma 6-5 (contando anche il “preliminare di champions” da Hangover) per me e fiato del lupo delle Madonìe sul mio collo! Avanziamo fra i rimanenti stands e io mi tolgo lo sfizio di un Randagi “Hard states of consciousness” (’89) a 10,00 euro: ero indeciso fra questo e l’onnipresente (vista in almeno altre tre bancarelle) “Lethal noise” (compilation thrash/speed metal italiana di fine anni ottanta, che comprerò comunque ad un Vinilmania di qualche anno dopo per soli 5,00 euro), ma alla fine opto per i thrashers napoletani (che in formazione avevano fra l’altro un ex Underage, la band hardcore del 7” “Africani marocchini terroni” dell’83, quello con l’inno anti-fricchettoni ‘Marijuana Punk’; il cantante degli Underage, attualmente, è docente di antropologia all’Università di Praga!). Marione ora è lanciato sugli Scream e ad un ultra-fornito stand francese si becca a prezzi più che decenti altri due lp’s della band della Virginia: 7-6 sempre per me, che però dichiaro chiusa la mia partita suggellando la buona prestazione con l’acquisto per 5,00 modici euro di Good Clean Fun “Positively positive”, una specie di raccolta in cd (non conta però, eh?) degli ironici hardcorers straight edge statunitensi. Ma Marione ha in canna il colpo del pareggio in zona Cesarini, ed è un gran goal: Raw Power “Screams from the gutter” (la stampa italiana su Multimedia Attack), il superdisco degli hardcorers emiliani che negli 80’s mise in ginocchio l’America (ricordo anche i Guns’n’Roses agli inizi che fanno da spalla ai Raw Power, tanto per…!); l’aveva già addocchiato prima ed ora, proprio mentre il tipo (basso, vecchio e laido) sta sbaraccando, lo fa suo per 25,00 euro, nonostante i tentativi di strappargli uno sconto. 7-7 (ma se contiamo il cd vinco io ai supplementari!), anche se qui a Vinilmania è 7-5 per Marione (e in questo caso anche se contassimo il cd…)! Ormai chiudono tutti gli stands e anche noi ci accomiatiamo dalla manifestazione. Innavvertitamente, probabilmente mentre sto delirando su stampe in edizione limitata di oscure bands Hardcore e Metal del passato, urto un semi-fricchettone cinquantenne tirando una ginocchiata un una borsa zeppa di vinili che per un pelo non fa un volo di qualche metro: immaginavamo già bootlegs dei Led Zeppelin o dei Jefferson Airplane ridotti in briciole di vinile e io che mi scusavo dicendo “peace, fratello” facendo il simbolo della pace con le dita. Invece non succede nulla di tutto ciò e io mi scuso ugualmente, ma con un semplice cenno della mano stile precedenza a incroci e rotonde (dove generalmente quasi nessuno ci azzecca!). Nota di cronaca: mentre raggiungiamo la fermata dell’autobus non ci sfugge un eroe con la maglia degli Impetigo! Il bus purtroppo è strapieno e ci tocca stare in piedi fino al centro di Milano, sperando che le orde di turisti giapponesi, badanti sudamericane, tamarri dell’hinterland, ecc., in mezzo a cui viaggiamo, non urtino le nostre preziose borse viniliche! Visto che il treno di ritorno ce l’ho alle 20.00, abbiamo tutto il tempo per delle “vasche” in Piazza Duomo e per una sosta in un baretto ultra-chic coi tavolini sul corso, dove verremo rapinati di quasi dieci euro a testa per dei frullati alla fragola, che ci consente una becera mezzora in cui le varie tipe di passaggio venivano paragonate al tal disco a seconda della loro avvenenza: capitava così che la biondona di probabile provenienza svedese finisse associata a “Blood fire death” dei Bathory, che la bella (probabile)brasiliana fosse “I.n.r.i.” dei Sarcofago, che due bellezze nostrane a passeggio assieme fossero “IX” e “Neurodeliri” dei milanesi Bulldozer, che una tipa davvero stupenda non potesse altro che essere l’inarrivabile “Reign in blood” degli Slayer, che tre attempate ma ancora piacenti signore fossero rispettivamente “IV” dei Led Zeppelin, “Machine head” dei Deep Purple e “Paranoid” dei Black Sabbath e che, ahimè, una coppia di ragazze sul cessoso andante si vedessero accomunare a dischi orrendi tipo “Load” e “Reload” dei Metallica. Al termine di questa manifestazione di metallico maschilismo, saluto Marione e intraprendo, prima con la metro e poi col treno, un tranquillo rientro a casa in una splendida serata primaverile.

 

MILENA VUKOTIC – Palazzo Gallio, Gravedona (Co), 1 Agosto 2007
Venuti a conoscenza di questa serata alto-lariana dell’attrice romana, io e il Cotta, da quegli ultra-fans del cinema comico italiano (fra fine 60’s e tardi 80’s) che siamo, non possiamo certo esimerci dall’essere presenti. All’ultimo si unisce anche il Mantovano e con la mia fida Punto percorriamo i pochi chilometri che separano il nostro paese da quello di Gravedona, ubicato sulla sponda opposta del lago (la west coast, of course!). Arriviamo a palazzo (volevo usare una frase da nobile!), una costruzione fatta edificare (facciamo un po’ di storia locale, và) dal cardinale comasco Bartolomeo Gallio come residenza personale nel 1585, più o meno. Attualmente funge da sede della Comunità Montana dell’Alto Lario Occidentale ed è adibita spesso a sede di mostre e manifestazioni culturali varie. Sostiamo per un po’ nel giardino interno e poi prendiamo posto nella sala dove si svolgerà l’esibizione della Vukotic. Lo spettacolo ha come titolo “L’amico magico” ed è incentrato sull’amicizia fra il maestro Federico Fellini e il musicista Nino Rota (entrambi defunti da quel dì): una certa Angela Annese al piano suonerà dei temi del Rota, mentre la Vukotic reciterà alcuni passi tratti dai lavori del regista romagnolo (dall’immortale “Amarcord” al superclassico “La dolce vita”, passando per altri titoli come “Roma”, “Giulietta degli spiriti” e “Le notti di Cabiria”). E’ ovvio che a noi tre (e a moltissima altra gente!) la Vukotic sia nota soprattutto per l’interpretazione della signora Pina nella saga di Fantozzi, oltre al ruolo della moglie del Mascetti/Tognazzi in quella di “Amici miei” e a quello marginale della prostituta di albergo che adesca Verdone in “Bianco, rosso e Verdone” (la famosa scena in cui lei si spoglia davanti a lui che guarda attraverso la boccia dei pesci rossi e si spaventa alla vista del peloso triangolo -di una controfigura, parrebbe- scappando quindi in camera dalla nonna -la mitica Sora Lella- dicendole di aver visto questa cosa che però potevano anche essere delle mutande; la nonna lo rassicura invitandolo a dormire, ma poi alla luce del giorno, durante un diverbio, lo apostrofa dandogli del “nipote grande, grosso e fregnone, che scambia ‘na sorca per un par de mutande!”). Interpretazioni comunque magistrali, che lei è una signora attrice di tutto rispetto, attiva nel cinema e nel teatro sin dal 1960: a 27 anni aveva recitato proprio in “Giulietta degli spiriti” di Fellini, oltre ad aver lavorato con tutti i più grandi registi italiani (Dino Risi, Lina Wertmüller, Ettore Scola, Nanni Loy, Franco Zeffirelli, Pasquale Festa Campanile, Bernardo Bertolucci, Alberto Lattuada, Mario Monicelli, ecc.ecc.), spaziando dal comico al drammatico con una facilità disarmante e offrendo sempre interpretazioni di altissimo livello. Intanto in sala si fa buio, il pubblico è sulle quaranta unità, quasi tutta gente over-50, qualche bambino, un paio di ragazzine, noi tre stronzi. Speriamo fino all’ultimo che qualcuno chieda a gran voce “ma dove l’è il Fantozzi?”, ma la platea è composta da gente di un certo livello culturale e le nostre aspettative trash vengono purtroppo deluse. Entra prima la pianista e poi arriva la Vukotic. Ora, sinceramente non ricordo minimamente una parola dei passi da lei recitati, ma dal primo secondo sono stato inchiodato sulla sedia grazie ad una recitazione fluida e coinvolgente, unita ad una mimica di viso e corpo dall’effetto quasi ipnotizzante. Insomma, avrebbe anche potuto leggere la lista della spesa e io sarei stato lì a pendere dalle sue labbra. Ecco, è questa la vera grandezza dell’attrice, peraltro dotata di grandissima classe anche come persona. Mi ha un po’ fatto lo stesso effetto di Lalli, la storica cantante dei torinesi Franti, in un concerto acustico degli Ishi (una delle innumerevoli bands post-Franti) all’università di Pavia nel ‘93, concerto a cui ero andato assieme al Rasco ed al Botka. C’era questa signora al microfono che ti inchiodava anche lì alla tua sedia, grazie alla splendida voce e alla classe che sprigionava in ogni suo movimento. Di quel concerto ricordo un siparietto alla fine: gli Ishi vendevano la loro cassetta e il Botka decise di acquistarne una copia avvicinandosi quindi al banchetto dietro al quale c’era proprio Lalli. Botka: “Ehm, vorrei il demo degli Ishi, quanto costa?”, Lalli: “Certo, tieni. Lo vendiamo a settemila lire” Botka d’istinto: “E ’sti cazzi!” (motivato dal fatto che al tempo il prezzo medio di un demo era sulle quattromila lire. Va detto che quello degli Ishi era però più un lp su cassetta con copertina stampata, ecc.), Lalli signorilissima: “Beh, non preoccuparti, se non hai settemila lire, mi dai quello che puoi, ci mancherebbe altro”. Il futuro professore estrasse allora una banconota da 50.000 lire e senza proferire parola, la allungò alla signora, la cui espressione valse più di mille (anzi, cinquantamila) parole! Tornando al 2007 in quel di Gravedona, lo spettacolo finisce. Noi decidiamo di attardarci un po’ nel giardino, sperando che esca la Vukotic per fare magari quattro chiacchiere con lei, ma dopo mezzora ancora non si è vista, al contrario della pianista (di cui sinceramente non ce ne frega un benemerito), per cui a malincuore optiamo per il rientro a casa…

 

VINILMANIA – Novegro (Mi), 20 ottobre 2007
Ancora favorevolmente impressionato dalla mia prima volta a Vinilmania, decido di presenziare anche all’edizione successiva (dopo aver appreso su internet che codesta fiera del disco si tiene più o meno ogni quattro mesi). Purtroppo stavolta Marione non può essere della partita, ufficialmente per motivi lavorativi, ma in realtà sospetto per soddisfare attempate signore dell’alta aristocrazia meneghina con la sua seconda attività da mediterranean-gigolò. Mi ricordo però che il vecchio amico alessandrino Andrea Valentini, noto “sceneggiatore/scrittore/musicista/scribacchino prezzolato” (per dirla con le sue parole!), nonché columnist per “Nessuno Schema” fin dal ’95, per motivi di lavoro risiede da qualche tempo a Milano con moglie al seguito, quindi gli mando un sms e nello spazio di tre o quattro messaggi abbiamo organizzato la giornata di caccia ai vinili! Va detto che Andrea corrisponde alla definizione di “collezionista” molto più del sottoscritto (che più che altro cerca solo dischi black/death metal d’annata e, ma è già una ricerca più circoscritta, qualcosa di hardcore e thrash), sia d’esempio la serie di diciotto copie di “Fire of love” dei Gun Club (diciotto stampe differenti, fra vinili, cd e cassette) in possesso del nostro! La mattina del 20, dopo la solita dormita di non troppe ore (inoltre come al solito avevo giocato la sera prima, stavolta a calcetto fra amici, ma due ore filate su fondo cementizio si fanno sentire!), salgo in stazione (salgo perché io abito nella parte “bassa” di Colico, paese che si distende lungo le pendici del Monte Legnone, quella vicino al lago –la mini-lezione di geografia altolombarda vi è offerta gratuitamente dalla redazione) a prendere il treno delle 8.05; questo perché la sera ho promesso alla Tea di portarla fuori a cena (dopo secoli) e devo assolutamente rientrare col diretto delle 18.00. Durante l’attesa del treno noto una scritta sul muro della stazione che con calligrafia femminile recita: “mi suona la testa, mi vibra il pavimento, Gigi D’Agostino è lento violento!”. Peccato non abbia con me un uni posca, se no, in pieno trip misogino, sotto avrei scritto “ti trombo sulle note degli Eyehategod e te lo do io il lento violento!” (parafrasando nel finale anche un Beppe Grillo pre-Movimento Cinque Stelle). Come prevedibile a quest’ora del sabato i vagoni sono semivuoti, io mi piazzo nei classici posti in fondo alla carrozza con soli tre sedili: scelta non casuale, che riduce almeno di un’unità le possibilità di avere come vicini dei/delle rompicoglioni con le loro chiacchiere o, peggio, che vogliono addirittura scambiare quattro parole con un misantropo a senso unico/asociale oi!/elitarista black metal come me! [no, profano/a non sono completamente impazzito, la mia autodefinizione assume un certo senso all’interno di certe correnti underground metal/punk, ok? ;-) ]. E fra l’altro non è casuale nemmeno la scelta del primo disco che vado ad ascoltare col mio “ipod” (leggasi un walkman a cassette, oggetto ormai fuori dal tempo come le macchine da scrivere o, per restare in ambito musicale, i mangiadischi), “Misantropo a senso unico” (appunto) dei Cripple Bastards (per inciso, un disco impressionante!). Nonostante le cuffie e i volumi al massimo (cioè non particolarmente alti, che il povero vecchio walkman fa quel che può), Giulio the Bastard & Alberto the Crippler sono sovrastati dall’incessante chiacchiericcio di due donnette over-sessanta salite a Bellano e che matematicamente si siedono davanti a me… Io sorrido a denti stretti e mi schiaccio le cuffie sulle orecchie via via che la cassetta “made at Rocco’s” passa ai vari Comrades, Intensity e Mainstrike (il solito minestrone delle c90 che ci si doppiava reciprocamente all’epoca –un’epoca comunque risalente a soli sei o sette anni prima). Giunto a destinazione rinfodero il fedele walkman nel mio mini-zainetto (una sorta di simil-Invicta rimpicciolito del 50%, di marca sconosciuta e di provenienza ormai dimenticata) e come uno studentello mi incammino verso la metropolitana. L’appuntamento col Valentini infatti è a Famagosta, fortunatamente su quella Linea Verde che per anni ho utilizzato per recarmi a San Siro, quindi mi muovo con disinvoltura nella giungla sotterranea contrariamente a quello che avrei fatto se avessi dovuto usare la famigerata e misteriosa Linea Gialla, che per me è come la valle maledetta dei film, quando il portatore negro dice: “Zambo non venire con voi, Zambo paura. Se buana andare, buana morire. Valle piena di spiriti maligni” (citazione da un vecchio racconto di Stefano Benni). Il tragitto fino a Famagosta è discretamente lungo, quando il vagone si svuota un po’ riesco finalmente a sedermi e davanti a me ci sono due ragazzi abbastanza carini accompagnati da due ragazze occhialute e piuttosto bruttarelle: le tipe sono su di giri ed esaltate dalla giornata nella metropoli e dal giro turistico (mi sembra di riconoscere in loro un accento della Bassa lombarda, tipo Mantova, ma non ci giurerei), i maschietti (milanesissimi) invece hanno l’aria di due spie americane che stanno per essere condotte nei sotterranei della Lubianka e rispondono quasi a monosillabi alle continue domande delle ragazze, dalle quali viene fuori che la giornata era stata combinata al buio su qualche chat; capisco quindi al volo la situazione e quasi mi vien voglia di alzarmi e dare un buffetto sulla guancia ai due tipi dicendo “cercarsi le tipe al buio in chat è come comprare i dischi su Ebay, non sai mai cosa ti ritroverai veramente fra le mani…per questo io vado a Vinilmania, ciao pirlotti!” e di scendere alla mia fermata (il tutto con parlata e movenze alla Celentano in “Lui è peggio di me”), ma il quartetto va incontro al proprio destino lasciando la metro prima del sottoscritto. Giunto finalmente a destinazione, sbaglio clamorosamente le scale d’uscita apparendo alla luce del sole (in realtà era nuvoloso e piovigginava, comunque ai fini del racconto…ecc.ecc.) esattamente all’opposto di dove avrei dovuto: tiro le due bestemmie di rito e scarpino fino al punto giusto dove Andrea mi sta aspettando. Dopo i dovuti convenevoli, gli abbracci omo e le strette di mano virili (era trascorso già un annetto e passa dall’ultima volta che ci eravamo visti di persona) ci facciamo largo fra i vari capannelli di immigrati (stranieri e connazionali) della periferia, forti del nostro look da “men in black” e dell’aspetto slavo (io) e arabo (lui). Andrea salda un vecchio debito “scambistico” col sottoscritto passandomi due dvd zeppi di chicche gustosissime (“American Hardcore” il film, un documentario sulla buonanima di GG Allin, il video celebrativo del mitico CBGB’s (sede di migliaia di concerti) di New York, la storia dei primissimi Iron Maiden negli anni settanta, vari video dei New York Dolls e dell’altro compianto Johnny Thunders, ecc.ecc.), oltre a qualche omaggio con cose da lui ricevute come promo per le varie riviste e siti web per cui il nostro lavora, tipo un doppio dvd ancora mezzo incellophanato dei Tool (che non mi piacciono) o un cd di tali Seether (mai ascoltato, temo sia alternative-rock…): ottimi per regali a mia volta, eh eh (e infatti verranno girati prontamente al mio socio Mirko, portiere storico e recordman assoluto di presenze dell’A.C. Dehler 347). Saliamo alfine sulla fiammante Micra del dottor Valentini (ecco, questo va detto: da quando Andrea si laureò più di dieci anni fa io scherzosamente presi a chiamarlo col prefisso “dottò” e varianti sul genere), imbocchiamo la tangenziale sotto una tenue pioggerella e, nonostante entrambi possiamo “vantare” anni e anni di giri a vuoto in cerca di concerti (nostri e altrui) et similia, senza sbagliare neppure una volta raggiungiamo Novegro e i capannoni delle fiere. Subito noto che nel parcheggio ci sono molte più macchine di quelle che c’erano a maggio e prevedo quindi molta più gente e, spero, molti più stands: in realtà la gente era sì tantissima, ma rispetto all’edizione primaverile c’erano meno banchetti e anche lo spazio in cui si svolgeva la fiera era ridotto… Il Valentini è quasi un habituè di Vinilmania, visto che negli anni ci è stato diverse volte (io invece come avrete già capito sono solo alla seconda “partecipazione”), e stavolta ha pure l’asso (di picche, ovviamente!) nella manica: il concittadino Diego (anche lui sceneggiatore, ma noto ai lettori di fede hardcore più come chitarrista o cantante dei vari Permanent Scar, Burning Defeat ed altre bands alessandrine, che come autore dei testi per fictions come “Vivere” e “Compagni di scuola” o per i film “Operazione rosmarino” e “The torturer”, tutta roba scritta a quattro mani col Valentini stesso), qui al seguito di W-Dabliu (negozio alessandrino con banchetto itinerante), ci viene incontro e ci munisce sottobanco di due pass! Io, che mai mi ero imbucato ad alcuna manifestazione con un pass al collo (esclusi eventi per cui ero parte dell’organizzazione, ma questo è un altro paio di maniche), valico felicissimo l’entrata, anche perché così mi/ci viene risparmiata quell’estorsione di sette/otto euro per il solo ingresso. Mentre restituiamo i pass del negozio a Diego, lo stesso ci presenta il Morra (personaggio comasco, già batterista per Hide Out ed Erode, che da anni anima i racconti dei miei soci di Como, ma che mai avevo conosciuto di persona), attualmente promoter di concerti ed in effetti sfoggiante un look nettamente da pierre! A questo punto ha inizio la caccia vera e propria, quindi io e Dr.Rock (un nomignolo/citazione non casuale per Andrea!) decidiamo di separarci: cerchiamo generi differenti e girare assieme comporterebbe un sacco di tempo perso in chiacchiere inutili, così restiamo d’accordo per riunirci dopo circa un’ora e mezza (dopo aver sincronizzato gli orologi stile Lino Banfi in “Fracchia la belva umana”, quindi “a occhio, che è meglio”!). Rimasto solo, noto che stavolta mi manca l’effetto “prima volta alla Playboy Mansion”, anche se l’impatto con tutte quelle cascate di vinili resta sempre notevole. Giro un po’ e inizio a spulciare negli stands (per me) interessanti, cioè quelli dove vedo apparire le magiche paroline “metal” e “hardcore/punk”, rigorosamente nei sempre numerosi scatoloni delle offerte, non disdegnando però puntate voyeuristiche fra i dischi costosi, quelli davvero rari e di valore. Inizialmente di acquistabile trovo poco o niente, sembra ci sia unicamente il solito hard rock dei vari Bon Jovi, Ac/Dc, Aerosmith, ecc. o il solito heavy metal di Iron Maiden, Accept, Yngwie Malmsteen, ecc. (tutti dischi ottimi e di mio alto gradimento, per carità, ma non sono questi i dischi da comprare a Vinilmania, almeno secondo me), e oltretutto mi sta venendo mal di testa (e causa sciocca dimenticanza non ho con me nessuna pastiglia)… Poi mi imbatto nel banchetto di Under Jolly Roger, negozio modenese fino ad allora a me totalmente sconosciuto (faccio un plauso per il nome, chiaramente preso dall’album dei Running Wild) che, già dagli lp’s rari/costosi appesi alla parete dello stand (Beherit, Mayhem, Dissection, Mortuary Drape, ecc.), come avrebbe detto il compianto Guido “Dogui” Nicheli, ‘mi esalta!’. La bancarella, cospicuamente fornita ed in più coi dischi divisi per generi, promette alla grande e, incredibile, il mal di testa mi è passato: potere del metallo! Purtroppo lo stand è preso letteralmente d’assalto, soprattutto la sezione death/black, così che, mentre mi sto spazientendo a vedere e sentire individui dal “nerdico” look sparare strafalcioni tipo “ah sì, gli Holy Terror, ci suonava uno dei Megadeth” (una versione metallara del buon vecchio TheAlternative’70, l’ex collaboratore fantomatico di questa fanzine!), mi cade l’occhio su una scatolaccia per terra con la scritta “3 lp per 20,00 euro”. Incuriosito mi infilo fra i piedi dei metallici avventori e inizio a far passare i vinili sperando non siano i soliti Ac/Dc e compagnia di cui sopra, magari pure rovinati; e invece sono dischi piuttosto interessanti, tanto che non faccio fatica a trovare i tre albums richiesti: Sempiternal Deathreign “The spooky gloom” (’89, una delle prime death metal bands olandesi, credo seconda solo ai Pestilence nella cronologia delle uscite viniliche; il solito disco che già avevo su cassetta duplicata da anni, ma ora con l’originale posso “ammirare” le foto del gruppo: un orrendo trio con un elemento paurosamente somigliante al connazionale Frank Rijkaard e un altro che ricorda il cabarettista Sergio Vastano quando aveva capello lungo e baffo…), Abhorer / Necrophiliac – split lp (’91, sempre death metal, i primi da Singapore -black/death-, i secondi giapponesi, stampa su vinile dei demos di fine anni ottanta di entrambe le bands. Anche questo l’avevo su k7 duplicata dai tempi del tape-trading, ma l’originale lo cercavo da anni! Qui siamo davvero al cospetto di una rarità, almeno per quelle dieci persone a cui interessa, eh eh!) e Venom “Official bootleg” (un inascoltabile live dell’86, forse non uno dei loro dischi più rari, ma era comunque la prima volta che lo vedevo “dal vivo”): per neanche 7,00 euro cad. mica male! Pago quindi il dovuto ad una donna simpatica e rubiconda (suppongo moglie/compagna del metallicissimo titolare, il quale è vagamente somigliante a Rob Fioretti, bassista dei Kreator negli anni ottanta), alla quale devo decifrare l’in effetti incomprensibile logo dei Sempiternal Deathreign per poterle far archiviare la vendita! Moderatamente soddisfatto proseguo il giro e mi imbatto nel Valentini che nel frattempo si è accaparrato a prezzi contenuti: Joy Division “Still” (doppio-lp, una stampa portoghese spettacolare, pesantissima, con copertina stile soviet e un errore di battitura in un titolo), Iggy Pop & James Williamson “Kill city” 7”, Girlschool “1-2-3-4 rock’n’roll” 7” e l’album omonimo degli Only Ones (quello che contiene la bellissima ‘Another girl, another planet’). Scambiate quattro balle riprendiamo entrambi la nostra caccia solitaria: dopo una ventina di minuti di spulciamenti infruttuosi decido di ripassare dai modenesi per dare finalmente un’occhiata almeno alla suddetta sezione death/black. Sezione che chiaramente rimane ultra-affollata, così che ancora una volta per ingannare l’attesa mi butto sullo scatolone “3 per 20” e anche stavolta riesco a completare un terzetto: Abruptum “De profundis mors vas cousumet” (10” con tre pezzi inediti per questo delirante duo di black-rumoristi svedesi), Satanel “War ceremonial hail (inno alla guerra)” (black metal veneto del ‘99 schierato inequivocabilmente a destra della destra! Estetica abbastanza sul delirante, ma musica piuttosto figa con tanto di apprezzabili covers di Celtic Frost e DeathSS) e Destruction “Mad butcher” (il mini-lp dell’87, già l’avevo in cassetta originale -!-, ma averlo in vinile è tutta un’altra musica, per citare quell’orrenda trasmissione di Telelombardia/Antennatre!). Per due minuti i Destruction restano in ballottaggio con “Dr. Feelgood” dei Motley Crüe (unico disco dei primi storici cinque che non ho in vinile –preso poi a maggio ‘08 sempre qui a Vinilmania, sempre dallo stesso standista, sempre durante una giornata a caccia di dischi col Valentini), ma poi sono i tedeschi a vincere, che a un prezzo simile è più probabile ritrovare Nikki Sixx e compagnia rispetto a Schmier e soci, come in effetti accadrà! Pagata per la seconda volta la signora (che noto essere accompagnata da un enorme cagnone), già che son lì e che finalmente la sezione metal estrema si è liberata, posso finalmente dare un occhio al metallo nero e a quello di morte dicendomi “se trovo il discone raro a 30/35.00 euro, oggi ci sta l’acquistone! poi chiudo qua la giornata”. E invece no, con una certa delusione debbo constatare che di veramente raro e/o di interessante non c’è nulla o comunque nulla che non avessi già… Passo allora alla sezione “italian metal” e qui, ‘azzo, ci sono dischi che fino a quel momento avevo visto solo nelle recensioni dei primi numeri di “HM!” o “Metal Shock” o addirittura di cui avevo solo sentito parlare, ma i prezzi vanno dall’alto all’altissimo e io sono spinto a scivolare sulla sezione thrash/speed/classic dove vedo lei: sì, lei, “Death Metal”, l’ultra-mitica compilation della Noise Records (che col death metal inteso come genere nulla aveva a che fare, comunque) uscita nell’84 e con due brani a testa per i poi famosissimi Running Wild ed Helloween, per i seminali Hellhammer (da cui, lo ricordo per l’ennesima volta, nasceranno i Celtic Frost) e per i carneadi Dark Avenger. Un disco di cui io e il Valentini per anni abbiamo addirittura messo in dubbio l’esistenza! Sono lì lì per acquistarla, l’hanno messa a 25,00 euro…cinquantamila del vecchio conio, non so, sono indeciso, e alla fine la lascio lì e adesso, come prevedibile, me ne pento! Chissà se la rivedrò… Proseguo il giro e, dopo alcune infruttuose ed annoiate scorse (gomito a gomito con elementi tipo un giovane tedesco che pescava dischi come fossero caramelle e comprava a botte di 200,00 euro per stand -giuro!- senza battere ciglio, una sosia di Patty Pravo a caccia di dischi di vecchie edizioni di Sanremo e, in uno stand francese, uno spettacolare vecchio vestito da tipico anziano transalpino con basco, camicia bianca, giacchetta aperta e bretelloni, che dormiva pesantemente a bocca aperta su di una sedia), capito in un grosso banchetto gestito da un tedesco (inequivocabilmente tale anche nell’aspetto) con migliaia di generi diversi, ma soprattutto con una sezione black/death a reclamizzati prezzi bassi (abbastanza bassi: lp a 10,00 euro, 10” a 7,00, 7” a 5,00); sbavando mi ci fiondo e realizzo subito che questo deve aver “svaligiato” (sì, si fa per dire, eh!) qualche magazzino all’ingrosso viste le cinque/dieci/anche quindici o venti copie nuovissime per ogni titolo presente! Quindi non è che ci sia roba vecchia o da urlo, anzi per lo più è roba recente oppure ristampata (ad esempio il demo ‘89 degli Impetigo su 10”), con un buon 80% di bands “nuove” (diciamo da fine 90’s in poi) e il resto costituito da nomi appena più datati (fra cui ricordo i polacchi Graveland, presenti con alcuni dischi, tipo un doppio-lp a 15,00 euro…a me loro non piacciono, se no quasi quasi…!). C’era anche quel 7” dei crucchi Warspite che alcuni anni fa avevamo in distro (ricordi Rocco?) e a questo proposito Andrea mi dirà di un banchetto (che io non ho visto) dove vendevano a prezzi allucinanti (15,00 euro per un 7”!) certi discacci invendibili di hardcore italiano anni novanta che giacquero per anni nelle distribuzioni sua e mia, e che alla fine erano finiti in svendita (faticosa comunque!) a 1,00 euro in entrambe! Alla fine, dopo una lunga cernita, mi “faccio”: Usurper “Skeletal season” (’99, secondo lp dei pesantissimi e vagamente celticfrostiani metallers di Chicago), Judas Iscariot “Moonlight butchery” 10” (one man band nordamericana di darkthroniano black metal) e Adramelech “Spring of recovery” 7” (finnish death metal del ’92 su Adipocere Records, anche se non penso sia propriamente una rarità, solo qui ce n’erano tre copie), il tutto per 22,00 euro, un buon affare anche perché tutti dischi nuovi di pacca (solo Adramelech lievemente, come dire, “anticato”, ma ha pur sempre quindici anni il ragazzo!); purtroppo però al ritorno, mentre rimiravo gli acquisti in treno, sono riuscito a strappare un piccolo lembo di copertina (tipo 2 cm x 1) dal disco degli Usurper, grazie ad una busta adesiva che conteneva il 10″ degli Abruptum…sembra sia stata levata l’etichetta del prezzo visto che fortunatamente è in quella zona, ma essendo il disco nuovo di zecca ho a tutt’oggi reazioni da checcona isterica quando ci penso! ;-) Comunque, i 62,00 “euri” spesi per 9 dischi di vario formato mi impongono lo stop, anche perché da lì in avanti, avendo già visto e setacciato tutti gli stands, o si fa l’acquistone (per esempio la suddetta “Death Metal” compilation o anche peggio, inteso come prezzo), oppure si finisce a prendere cinque o sei dischi, dal prezzo fra i tre e i cinque euro cad., tipo che so, Winger, Tyketto o Love/Hate (di quest’ultimi, peraltro, anni fa acquistai un lp per un euro!). Quindi, saggiamente, raggiungo Dr.Rock all’uscita, previo accordi presi telefonicamente dopo chiamata dello stesso una quindicina di minuti prima (eh sì, uso smodato del cellulare!). Il tempo per una sigaretta (sua, ovviamente) e per i commenti sugli acquisti (il carniere del Valentini è stato completato da tre lp’s quali Thin Lizzy “Black rose”, Phil Lynott “Solo in Soho” e Mark Vet Enbatta “Hidden passions”, più una manciata di 7”: Black Sabbath “Paranoid”, Ac/Dc “Highway to hell” e Zodiac Mindwarp & The Love Reaction “Prime mover”. Not bad, direi!), poi assieme ritorniamo nella metropoli dove, passata la sbornia vinilica, possiamo socializzare da persone normali parlando del più e del meno (amici e conoscenze comuni, abbigliamento, vita privata, lavoro, e anche di ratti, nutrie e lontre, durante una camminata sui Navigli). Nel frattempo ci sta una puntatina alla Fiera di Senigallia, fra punks del weekend, fighettine quattordicenni gothic da Myspace e la solità umanità/disumanità varia ed assortita. Facciamo il nostro giretto, vediamo qualche vinile, qualche libro, niente di interessante comunque. Prima di andarcene faccio pipì in uno di quei di cessi pubblici a cabina, ovviamente imbrattato di merda e piscio peggio di una di quelle camere sotterranee delle fognature…quando si dice la civiltà! Le nubi hanno lasciato il posto ad un tiepido sole ottobrino e noi ci concediamo prima una pizza da un pizzettaro nordafricano e poi un caffè in un’elegante caffetteria (euro 0,81, quando quassù dalle mie parti siamo già a 0,90…) sui Navigli: zona non scelta a caso, dato che nel programma della giornata c’è anche una visita al Discomane e ai suoi dischi a 1,00 euro cad. Qui mi prendo “Animal man” (’86) dei Rogue Male (inglesi, fra metal e punk, e con un look alla Mad Max!), appunto per un euro; non che fra le centinaia e centinaia di dischi così prezzati ci sia granchè di interessante, ma devo tenere ugualmente a freno i miei istinti trash verso dischi di supposto hard rock cecoslovacco di fine anni settanta (gruppo con facce e look alla Bee Gees!) o di supposto glam svedese dei primi 80’s (peraltro suonato dai quattro svedesi più brutti di sempre!), non ricordo i nomi delle bands, ma ammetto che per circa un paio di minuti sono stato seriamente interessato all’acquisto! Facciamo un giretto lungo questo naviglio e ci beviamo un altro caffè (stavolta addirittura a 0,75), ottimo peraltro, in un baretto gremito da vecchi milanesi che si insultano gioiosamente (?) fra di loro (e non mancava neppure la figura del “ghisa”, in piedi al bancone a bere un bianchino!), prima di risalire in macchina perché ormai per il sottoscritto la giornata milanese sta volgendo al termine. Saluto Andrea che mi scarica davanti alla scalinata della metro di Porta Genova, riprendo il mezzo sotterraneo e arrivo giusto giusto in stazione centrale con la mia borsa di plastica che contiene a stento i dieci dischi. Decido di investire qualche soldo per poter leggere qualcosa durante il viaggio di ritorno e all’edicola presso i binari mi prendo “Focus”, e non “La Gazzetta dello Sport” o “GrindZone” come magari stavate pensando (se non “Le Ore”, se poi nell’era di internet c’è ancora… Fra l’altro il mio socio Mauro ha un cugino più vecchio che possiede parecchi fra i primi numeri -primo compreso- del mag in questione, quanto possono valere attualmente? Che in caso di quotazione elevata facciamo un blitz notturno nel solaio della zia del mio amico; pare che i giornaletti siano lì in un forziere chiuso a chiave!), sono anche uomo di una certa cultura, e che cazzo! Quindi fra “Focus” e una c90 comprendente Upset Noise “Nothing more to be said” / Upside “Tristi orizzonti” / Crash Box “Nel cuore” (tutto hardcore italiano fine anni ottanta) faccio passare l’ora e mezza che mi separa da casa e dalla cena fuori, anzi le quasi due ore (no, qui il mag di cui sopra non c’entra!), visto il malore di un anziano passeggero (non sulla mia carrozza comunque) con tanto di intervento dell’ambulanza alla stazione di Merate…<

 

“BAM!” MAG. # 6 RELEASE PARTY – Fidenza (Pr), Arci Taun, 27 ottobre 2007
Una decina di giorni prima vengo invitato dal mio socio Nicola (sabaudo, ma trapiantato a Como per motivi lavorativi -opera in Svizzera) a partecipare alla trasferta emiliana programmata da lui e da altri tre veterani della vecchia Como Hardcore Crew (non penso si fossero mai denominati così, ma è per intenderci): l’idea è di usare come scusa la comparsata che farà il Depla assieme ai Leeches per passare un sabato diverso dai soliti [ah giusto, il Depla: altro mio socio comasco che conosco ormai da una quindicina d’anni. Cantante degli Hide Out e sul demo degli Erode nei primi 90’s, poi virato su Industrial e dintorni coi vari Foresta di Ferro e Wertham; ex fanzinaro, ex sceneggiatore per “Martin Mystère”, ecc.ecc. adesso se vi fate un giro su internet vi imbattete di sicuro in uno dei suoi Myspaces senza neanche volerlo, eh eh!]. Io, che per tutto il weekend sono senza la mia soulmate, come Fantozzi quando la Pina e Mariangela vanno al funerale di un bis-cugino di Pescara, accetto con entusiasmo, pur vincolando la presenza ad un lavoretto-extra che mi terrà occupato la mattina e parte (spero non troppa) del pomeriggio di quel sabato. Come al solito il venerdì sera mi cimento nella consueta partitella di calcetto coi compagni dei tornei estivi (ultimi venti minuti da incubo, che mi girava la testa, non so perché, ma non avevamo cambi e non volevo abbandonare il campo anzitempo!) per poi svegliarmi la mattina dopo verso le 7.00 ed avviarmi verso il suddetto lavoretto. Lavoro che mi impegna l’intera mattinata, come previsto, ma fortunatamente solo un’oretta nel pomeriggio, così che alle 12.00 chiamo gioiosamente Nicola per annunciargli la conferma della mia partecipazione. Rientro, mi do una veloce pulita, cambio qualche indumento e alle 15.00 in punto sciolgo le cime dal “porto” di Colico, imboccando una quasi deserta superstrada con le note di “Filth hounds of Hades” dei londinesi Tank (primissimi 80’s, gran disco, specie per pezzi come la tamarrissima “Shellshock” o quella “He fell in love with a stormtrooper” che fa rivivere le ironie dei Monty Python verso le forze armate britanniche!) a fungere da colonna sonora per questo trionfale (?) momento. Noto presto che fa decisamente caldo e, uscito dal tunnel del Monte Barro, mi abbandono addirittura ad un finestrino abbassato con braccio di fuori, assolutamente inconsueto per il periodo. Quando la session del Friday Rock Show del 14 novembre ’79 con protagonisti gli Iron Maiden (che si trovano dopo i Tank nel mio cd-r) sta esplodendo nella mitica “Sanctuary” e nella discesa verso Como City si è formata una colonna di veicoli, il mio pigro sguardo viene attratto da una giovane scout dall’aspetto indiscutibilmente mitteleuropeo che sta camminando ai lati della strada; mentre il mio semi-addormentato cervello sta ancora archiviando questa prima apparizione, un’altra ragazzina scout fa la sua comparsa nel mio campo visivo, seguita da un’altra e poi da un’altra ancora! Realizzo allora che nel parco di Villa Como, cioè esattamente a lato di dove sto transitando, deve esserci un raduno-scout (noi colichesi ne siamo esperti, avendo un discretamente grande campo-scout su una collina ed essendo regolarmente invasi da orde da tutta Europa; quand’ero ragazzino, invece di andare ad importunare le scoutesse, preferivamo tagliare gli scafi delle loro canoe: beata gioventù e beata ignoranza…) e, viste le presenze che sto continuando ad archiviare mentalmente, dev’essere una cosa tipo 90% ragazze, 10% ragazzi. Mi chiedo come mai noi finocchioni dobbiamo andare fino a Fidenza, peraltro a vedere quell’altro finocchione del Depla, quando ad un passo abbiamo tutto quel ben di dio… Esporrò poi il mio dubbio agli altri e per qualche secondo si stava seriamente pensando di optare per l’opzione-scoutesse! Comunque, raggiungo la city e la tortuosa e stretta stradina che conduce a casa di Nicola; il buon Nick abita in una zona abbastanza centrale ma rialzata, nella parte ovest verso Varese per intenderci, sopra la ferrovia e lo stadio, godendo di una gran vista sul lago e su Como città (morta, per citare dal demo proprio degli Hide Out). Dopo gli immancabili e ormai consueti abbracci omosex (dopotutto era da giugno che non ci si vedeva, eh!), il padrone di casa prepara un bel cafferone nell’attesa di essere raggiunti da Gianluca (batterista degli Hide Out per qualche tempo, fra cui quell’unica volta che li vidi dal vivo nel lontano ’90, ma in nessuna registrazione ufficiale) e Diego (altro elemento della vecchia hardcore-crew e ultrà comasco ancor’oggi, ammirevole in tempi di serie D e di derby con Merate e Base96 Seveso e sfide con l’Altavallagarina). Gianluca arriva puntualissimo, ma da solo, che Diego all’ultimo ha “paccato” la compagnia: peccato, ma alla fine staremo più larghi in macchina, eh eh! Macchina che sarà quella di Nicola, che da lì a breve dirige verso la zona di Camerlata dove c’è da caricare il Mele (che non avevo mai visto prima di quest’occasione, ma che conoscevo di fama ormai da anni; si rivelerà un tipo decisamente simpatico, al pari di tutti gli altri), così che la Macchina dei Pensionati in Gita Sociale (denominazione dotata di una certa autoironia, converrete; per la cronaca siamo tre classe ’72 e un classe ‘69), ora al gran completo, possa divorare l’asfalto verso l’Emilia (e con Nick “Fittipaldi” lo divorerà davvero!). Al sottoscritto tocca il posto d’onore di “copilota” davanti e la gitarella comincia a prendere quota fra cazzate, racconti di vita vissuta, commenti su questo o quello, ecc.ecc. Dopo aver valicato il confine fra Lombardia ed Emilia-Romagna ci concediamo una sosta-pisciata in un autogrill dove notiamo di essere abbigliati in maniera sobria/seriosa (felpe con cappuccio io e il Mele, maglioni di una certa classe/eleganza per Nick e G.Luca, tutti tendenti allo scuro, e jeans neri/scuri per tutto il gruppetto) e riteniamo che in un ambiente presumibilmente gggiovane, antagonista e trasgressivo come quello dell’Arci verso cui siamo diretti, saremo come minimo scambiati per quattro esponenti della Digos in visita non troppo di cortesia! Il viaggio prosegue con la colonna sonora dei vari cd’s portati da Gianluca e dal Mele (su ordine del Nick); si va dai Foresta di Ferro del Depla, tolti al “ma quando cazzo finisce ‘sto intro?!” detto da me (scherzosamente, ma non troppo…) al terzo pezzo, ai Nine Inch Nails (“ma è roba da froci!” sentenzio sempre io, con Gianluca che inizia a preoccuparsi della cosa visto che a lui piacciono parecchio), dai Better Than A Thousand del buon Ray Cappo (un vate di noi Pensionati-Hardcore, quindi apprezziamo) ai Dropkick Murphys (anche qui pollice in su alla Fonzie), per finire con tali The Bronx (molto meno apprezzati, ma ormai, col Formula 1-man di cui sopra alla guida, siamo arrivati!). Pare che Nicola abbia un culo sfacciato quando si tratta di trovare parcheggi in zone sature di macchine e in effetti un santo lascia libero un parcheggio a circa un centinaio di metri dall’Arci esattamente quando stiamo sopraggiungendo noi! Scendiamo, Gianluca guarda la mia felpa dei 7 Seconds ed esclama “7 Seconds, take one!”, io lo guardo e rispondo con un ritmato “Regress-no-way!”: ora, se come noi due anche tu lettore/lettrice hai avuto l’adolescenza rovinata dall’Hardcore (non quello porno, o meglio non solo quello!), allora capirai questo particolare momento, in caso contrario considerati fortunato/a! Subito all’ingresso becchiamo un Depla piuttosto su di giri (e ricordo l’assoluto straight-edgesismo del personaggio!), accompagnato dal Mone (a.k.a. Keith Mone, batterista dei Leeches, ex Thee STP se non erro) che non vedevo da almeno quattro anni. Mentre sto chiacchierando con quest’ultimo vengo avvicinato da un tipo che sulle prime non riconosco per nulla, poi (su suggerimento del Mone che si traccia sul volto delle inesistenti basette) realizzo trattarsi del Basetta, che non vedevo da circa tre annetti (però anche lui, era rasato e di corporatura normale, ora mi si presenta smagrito, col viso scavato e capello sui dieci cm. ben pettinato!) e che sono felicissimo di rivedere dopo anni di soli contatti e-mail e sporadicissimi sms. Basetta accompagnato dalla sua simpatica tipa, anzi simpaticissima visto che la ragazza in questione, dopo aver fatto la mia conoscenza da neanche un minuto, sostiene che il sottoscritto abbia un notevole stile nel portare il giubbetto (quello nero della Lonsdale) aperto, lasciando intravedere la fodera scozzese (probabilmente al contrario del “consorte”, eh eh). Noi Pensionati, si sa, non reggeremmo troppe ore all’interno del locale, anzi, è palese che con la nostra tipica insofferenza già alle 23.00 saremo stufi di gruppi e pubblico e alle 24.00 ci starà già calando la palpebra; per cui decidiamo di andare a farci un giro per l’adiacente piazza (non so se principale, comunque abbastanza grande e con edifici di stile fascista). Optiamo per una sosta-aperitivo in un bar a metà fra il trendy e il ruspante dove possiamo addirittura sederci all’aperto, visto il clima mite e quasi tardo-primaverile. La simpatica cameriera dal pesantissimo accento emiliano (notiamo che qua parlano davvero tutti come il loro concittadino Gene Gnocchi) che prende i nostri ordini è, diciamo così, un po’ abbondante e viene quindi subito soprannominata Trudi (vedasi il personaggio di ‘Topolino’) da Gianluca. Il Mele sembra interessato all’ “articolo” e pare ricambiato dagli sguardi che la giunonica della Bassa gli lancia, così che noi immaginiamo Mele in versione Gambadilegno “pozzettiana” (“non è la gamba!” da “Roba da ricchi”, scena con la Dellera). C’è un buffet gratuito davanti all’entrata, ahimè zeppo di carne e pesce, gergalmente detto “butta male” per me e il Mele che, oltre ad essere entrambi straight edge di lungo corso (lui anche da più tempo del sottoscritto), siamo i due vegetariani del quartetto. Trudi ci consiglia di entrare nel locale a prendere da mangiare perchè il cibo del buffet esterno “fuori si ammoscia tutto!”: come dice il Mele a noi quattro come d’incanto spuntano bombette in testa, ombrelli al braccio e completi da lords inglesi addosso, dato che tutti tratteniamo le ovvie battute pecoreccie, inevitabili dopo l’assist servitoci su un piatto d’argento! Io e il Mele entriamo ed in effetti c’è parecchia roba senza animali morti, fra pizzette, cetrioli, cipolline, patatine di varia foggia, cubetti di formaggio, ecc.ecc. di cui, chiaramente, facciamo il pieno. Torniamo verso il locale del concerto e, su consiglio del Depla, andiamo a mangiare al ristorante dell’Hotel Astoria ubicato esattamente di fronte all’Arci: sì, perché i prezzi sono quasi ridicoli per noi lombardi del nord ormai abituati ad essere pelati e contropelati anche in una normale pizzeria! Per soli 14,00 euro a testa ci sbafiamo una cenetta da signori, con tanto di servizievolissimo cameriere personale in livrea al tavolo e caffè offerto dalla casa! Posso quindi affermare con piacere che non è una leggenda metropolitana quella dei prezzi più bassi da queste parti. Giunge il momento di varcare la soglia dell’Arci e sorge il consueto problema della tessera che si pone in questi casi: il Mele è dotato dell’unica tessera altrui che ha racimolato il Depla ed entra senza problemi, noialtri tre ne siamo sprovvisti e tentiamo la sorte. Un occhialuto fra l’alternativo e il secchione che siede all’ingresso fa passare Nicola senza chiedergli né tessera né soldi, mentre blocca Gianluca e me pretendendo acquisto della tessera (compilata chiaramente coi classici nomi di fantasia e/o di amici o conoscenti) che, con biglietto per il concerto e chissà cos’altro, si traduce nell’estorsione di ben 18,00 euro a testa (18,00 euro, lo ricordo, per vedere Depla & The Leeches…). La cosa ci fa incattivire notevolmente, non tanto per la somma, quanto per il modo (anche se trentaseimila del vecchio conio per un concerto di cui, tutto sommato, non ce ne frega una mazza…), per la disparità di trattamento rispetto agli altri presenti (Nick a parte, vediamo poi altra gente, sprovvista di tessera, entrare senza pagare o pagando meno), per aver comunque speso una cifra spropositata per posto e tipo di serata. Così ci incazziamo sempre di più, io mi sento posseduto dagli spiriti di GG Allin e Sid Vicious e da una follia alla Jack Torrance (“Shining”), e solo un notevole autocontrollo ci impedisce di iniziare ad apostrofare le numerose mezzeseghe presenti con frasi tipo “cazzo hai da guardare?” (ovviamente in dialetto). Non mi va neanche di dare un occhio agli unici due banchetti vinilici presenti e in più lascio su una sedia il numero di “Bam!” che ti davano in omaggio all’ingresso (dimenticandolo poi a serata terminata: ok, gli avevo dato una veloce scorsa e non mi esaltava molto, ma parlava pur sempre degli Hüsker Dü). Fra l’altro, ulteriore fattore che serve a mandarmi ancora più in bestia, ricordando anni e anni di concerti Hardcore/Punk con pubblico maschile al 99% tipo discoteca della Turchia centrale [Prof. Botka copyright], ci sono numerose ragazze e quasi tutte molto gradevoli come aspetto (a parte la “zia Assunta”, una sosia dell’attrice di “La tata” truccata orrendamente come l’originale, e qualche altra “delizia”), per esempio una che ricorda la defunta Francesca Romana Coluzzi (attrice di films minori di serie c anni settanta, uno su tutti “Il brigadiere Pasquale Zagaria ama la mamma e la polizia” con Lino Banfi), comprese le notevoli altezza e dimensioni. Una tipa carina sui vent’anni scatta foto a destra e a manca e si atteggia ancheggiando fra gli apatici “maschi” presenti, e a me viene voglia di prenderla per le spalle e scuoterla gridandole in faccia “ma tu dove cazzo eri nel ’92?! O nel ’94?!” (quando era più facile trovare ragazze al bar di un villaggio in Arabia Saudita che ad un concerto Hardcore, escluse le solite morose e sorelle). Un’altra che staziona davanti al palco, ancora vuoto, con aria ebete ed emanando un insopportabile olezzo di canfora (nel corso della serata il nostro quartetto la soprannominerà La Canforata) fa venir voglia a me e a Gianluca di darle due calci in culo. Ma il peggio, almeno per il sottoscritto, è una tipetta con lo stesso identico sorriso a duecento denti di una mia vecchia “fiamma” dei primi ’00 con cui finì malamente e che saltella avanti e indietro, sempre sorridendo tipo paresi, tanto che devo trattenere, facendo appello ai testi di 7 Seconds e Minor Threat con cui sono cresciuto, la voglia di frantumarle il sorrisone con un destro alla Marvin “Marvelous” Hagler. Finalmente, dopo che l’incazzatura per i diciotto euro è scemata, anche questa molto poco edificante parentesi maschilista finisce e mi lascio cadere su un divanetto da cui seguirò il concerto del primo gruppo, il cui nome ora non ricordo. Se vedendoli questi quattro giovincelli non è che mi risultassero poi tanto simpatici, da seduto sentendoli e basta non sono male: Punk-Rock’n’roll bello tirato con due chitarre che girano bene, parecchi stacchi, buon tiro e precisione; chiudono con una cover di “No feelings” dei Sex Pistols cantata da Massi dei Leeches. Ecco, Massi me lo ricordavo quando si faceva chiamare MassiLanciasassi ed era grosso con un taglio di capelli da paggio. Ora è sempre grosso, ma porta capello lungo e barbona da biker. Tocca quindi proprio ai Leeches e, visto che il Depla canterà alcuni pezzi con loro e in uno suonerà anche il basso perché è un presenzialista e pure un eterogeneo (aggettivo che in macchina abbiamo deciso essere un insulto –sì, questo è uno di quei cosiddetti inner-jokes, quelle stronzate che solo un ristrettissimo numero di persone, di solito quattro o cinque al massimo, possono capire ed apprezzare), decido che sì, posso vedermeli in piedi. E non faccio certo male, perché visivamente i tre Leeches (sarebbero quattro, ma questa sera sono orfani di uno dei chitarristi) più Mr. Deplano mettono su un discreto spettacolino condito dal lancio di cibarie sul pubblico, fra cui un grosso salsicciotto che pochi secondi prima si trovava nelle mutande di un osceno Massi a torso nudo. Degna di nota anche la t-shirt ‘kiss me, I’m mexican’ con tanto di bandiera messicana, indossata dal Messicano (chitarrista, che non credo abbia nulla a che fare con la nazione centroamericana, ma che è soprannominato così). Il loro, boh?, diciamo Punk/Hard Rock tanto per stare larghi, è bello tamarro e bello anthemico, hanno anche il giusto spirito per valorizzare dei giri che a volte non sono proprio il massimo dell’originalità, e alla fine posso affermare che li ho graditi (cosa mica tanto scontata con un “sufìstic” -dialetto un po’ intraducibile, ma si dovrebbe capire lo stesso il senso, no?- come me); certo però che il Depla potrebbe decidersi a cantare in pianta stabile con loro (anche per una pronuncia inglese migliore, eh eh!), che così a mezzo servizio vien fuori una cosa troppo indefinita…vabbè, cazzacci loro, no? Chi sono io per star qui a dispensare consigli? Beh, sono uno che finito il set dei Leeches se ne esce fuori dal locale a fare due chiacchiere col Basetta, chiacchiere da cui riporterò questo dialogo: B: Alcuni individui (presenti nel locale) mi hanno chiesto se tu sei il Canclini o solo uno che gli assomiglia Io: Tutti maschi suppongo B: Ovvio! Io: Mmhh, lo sospettavo. Digli che sono solo uno che gli assomiglia, và! Raggiunti dalla sua tipa (nome vergognosamente scordato), parliamo ancora un po’ di vinile usato, di nordeuropa, delle rispettive fanzines, dei Gradinata Nord (ah, uno sconosciuto a fine serata mi fermerà cantandomi nelle orecchie il ritornello di “Italia ultrà”, salutandomi poi con una sciocca risata ubriaca…che bei momenti), mentre dentro suona il terzo gruppo (nome ignoto), parrebbe una specie di jam dedita al rifacimento di oscuri classici di Punk e Garage, ma da fuori si sentiva pochissimo e non avevo voglia di rientrare. Salutati Basetta e signora, recupero Nicola e Gianluca e ci svacchiamo su una panchina sempre all’esterno, vista la serata tiepida (intanto sento qualcuno parlare di un gol di Del Piero, immagino che la Juve abbia vinto a Napoli e non mi interesso più del risultato fin quando il giorno dopo, con un certo godimento, apprenderò dalla Gazza del clamoroso 3-1 partenopeo, con tanto di due rigori inesistenti contro i gobbi: roba che fino a non troppo tempo fa era paragonabile all’apparizione della Beata Vergine durante la Sagra dei Funghi di Gerola Alta o alla Fiera del Bitto di Morbegno). Abbiamo però perso il Mele, che dopo qualche minuto compare accompagnato dal Depla e da una ragazza: dalla nostra postazione sembra quasi che sia in corso una competizione per accaparrarsi i favori della fanciulla e, nonostante Nicola consigli di puntare sul Depla, io sono seriamente intenzionato a puntare tutti i miei averi sul Mele che ad un certo punto (mentre il Depla sta parlando con un tipo) vediamo ridere come un amante latino. La “singolar tenzone” però si conclude con uno 0-0, anche perché noi Pensionati dobbiamo tornare nelle lande lariane; non so se poi il Depla, rimasto senza rivale, abbia combinato, ma se così fosse ci avrebbe sicuramente aggiornato in real-time ;-) Ci facciamo Fidenza-Como clamorosamente in un’oretta scarsa, col sottoscritto che aveva attaccato silenziosamente l’atto di dolore, nonostante Nick “Fittipaldi” mostrasse un assoluto self-control anche a velocità più prossime a quelle di un Boeing 747. Sull’autoradio va in loop continuo un mini-cd con quattro o cinque composizioni del maestro Ennio Morricone, di cui alcune con cantato, ed aver sentito per almeno sei volte il pezzo che fa “Ringo, had an angel face…” ci fa pensare che al nostro arrivo saremo accolti dal maestro in persona che ci aprirà la porta canticchiando lui stesso il motivetto di cui sopra. Scaricati il Mele e Gianluca, io e Nicola raggiungiamo la casa di quest’ultimo dove il sottoscritto avrà una cameretta-ospiti tutta per sé. Dormo benone, la mattina mi sveglio attorno alle otto e per non svegliare anche Nicola mi dedico alla lettura di una serie di inquietanti fumetti a sfondo fantascientifico (grande passione del Nick). Quando si alza anche il padrone di casa facciamo un’abbondante colazione a base di caffè e biscottame vario, poi. dopo un migliaio di chiacchiere varie, per me si fa il momento di rientrare a casa. Nel tragitto di ritorno, abbonato ormai ai cd in loop continuo, mi faccio tutta la superstrada da Lecco a Colico ascoltando per almeno otto volte lo stesso pezzo, “Aznar, a cagar!”, un trascinante ska con tanto di fiati dei Division 250, la nazi-band spagnola…

 

INNSBRUCK (Austria) – 14 e 15 giugno 2008
Visto che gli Europei (di calcio) si svolgeranno a giugno nelle vicine Svizzera ed Austria, perché non andare a vedere almeno una partita? Questo è quello che ci diciamo un giorno di fine inverno io e tre miei compagni di squadra di calcio a sette (e a cinque): il Mantovano, il Tazio e il Cotta. Nei mesi a venire notiamo però che trovare quattro biglietti per una delle partite dei gironi che si svolgono al sabato sera è impresa ardua, per cui alla fine decidiamo di andare ugualmente ad Innsbruck nella giornata in cui nella città austriaca si giocherà Spagna-Svezia: se per un miracolo troviamo un bagarino che ci sgancia i biglietti a non più di 20,00 euro entriamo, al contrario (cioè al 100% delle probabilità) ci facciamo un giretto extra-stadio e passiamo comunque un weekend diverso dal solito. Qualche giorno prima il quartetto dei partecipanti si riduce ad un trio, dato che il Cotta getta la spugna adducendo problemi derivanti da un’infezione alimentare. Il mezzo deputato alla trasferta è il camperaccio di seconda mano del Tazio, marca Dehler, acquistato assieme ad un suo socio in Germania e recuperato dai nuovi proprietari con un’epica trasferta teutonica. La partenza avviene in perfetto orario alle 8.30 di sabato mattina, peccato che fra passaggio al bar della rotonda di Nuova Olonio per vedere se c’era la pornostar al banco (non c’era…) [nota: trattasi della proprietaria del suddetto bar all’epoca: circolava un brevissimo video amatoriale ‘solista’ con lei senza veli ed in posizione lasciva su un divano. Video che ha ovviamente avuto il potere di far aumentare i clienti del bar, anche se noi, va detto, ci andavamo già con le precedenti gestioni, compresa quella dei tre omosessuali che per anni fece indicare il locale come “il bar dei froci”…], colazione a Chiavenna da Mastai tirata per le lunghe, sosta al Fungo (vedi report Gradinata Nord a Davos qualche pagina più indietro) per fare il pieno, alle 10.30 siamo a stento arrivati a St. Moritz… Sul camper ascoltiamo prima i Queen e poi una mega-compilation di Pop hits di 70’s ed 80’s, tutta roba che personalmente apprezzo pur non avendo i miei compagni di viaggio gli stessi gusti musicali più “di nicchia” del sottoscritto, anche se un paio di volte ho beccato il Mantovano con i Dropkick Murphys sull’autoradio! Fra aneddotica paesana, argomentazioni tipiche dei viaggi ad appannaggio totalmente maschile (calcio e donne, ovviamente) e qualche invettiva all’indirizzo del nostro socio che si è tirato indietro all’ultimo, attraversiamo la Svizzera e ci apprestiamo a scendere nella vallata austriaca dove si trova Innsbruck prendendo, al posto della più comoda (e veloce) autostrada, un passo simil-transilvano (vista la giornata plumbea avevo anche l’impressione di udire ululati di lupi in lontananza) dalla pendenza inusitata su cui il Dehler arranca non poco andando pure quasi in ebollizione… La scelta di fare il Passo Del Diavolo (come l’ho chiamato io, non conosco il nome reale) è motivata unicamente dal fatto che il Tazio vuol guidare il più possibile il camper (all’epoca dei fatti in suo possesso da pochi mesi), ma a noialtri due la cosa non dispiace, dato che non abbiamo nessuna fretta e in più ci vediamo un bel po’ di ameno panorama montano. Notevole la prestazione del Mantovano che si fa Colico-Innsbruck (e si farà anche Innsbruck-Colico) legato allo scomodissimo ed unico sedile posteriore, un affare infernale più simile alla sedia delle torture della Santa Inquisizione che ad un normale sedile da camper… Entriamo in Austria e facciamo quasi subito una sosta da un kebabbaro turco, dall’igiene abbastanza discutibile, ma provvisto di ottimi panini vegetariani conditi da salse di ogni genere (questo per me, gli altri due sono carnivori e vanno su panini in tema, sempre con salse a fiumi); ci ripromettiamo di fermarci da lui anche al ritorno. Arriviamo ad Innsbruck che sono le 13.45 circa e puntiamo subito lo stadio, destreggiandoci fra fiumane di tifosi spagnoli e svedesi, ma anche austriaci, tedeschi, slavi, ecc. Riusciamo a parcheggiare abbastanza vicino (leggasi un paio di km.) all’impianto. Dopo una discreta scarpinata (almeno non fa caldo, anzi!) arriviamo in zona stadio e siamo subito attratti da un pullman svedese scoperto dove delle avvenenti biondone lanciano gadgets gratuiti sulla folla; noi ci appropriamo di: n°2 mani gonfiabili (stile canotto) gialloblu, n° 2 foulards gialloblu, n° 4 polsini tipo tennis sempre coi colori della bandiera svedese. Oltre alle avvenenti biondone a volte anche degli avvenenti svedesoni (…) lanciano i gadgets o palleggiano con un mini-pallone mentre un impianto stereo spara a tutto volume hits rock in svedese alternate a classici del rock inglese come ‘Ballroom blitz’ degli Sweet o ‘Get it on’ dei T-Rex. A questo punto ci facciamo un giro attorno allo stadio: gli Europei come i Mondiali sono un vero e proprio carnevale e io non posso certo esimermi dal fotografare col mio LG tutti questi personaggi assurdi che mi capitano a tiro: individui con teste di toro in plastica sul capoccione, un tipo vestito da vescovo, alcuni che sfoggiano corna da alce…insomma il solito campionario di umanità sulla linea sottilissima che divide goliardia da cretineria! Di bagarini con biglietti a venti euro o anche meno nessuna traccia ovviamente, anzi nessuna traccia di bagarini proprio, per cui noi andiamo in centro (500 metri a piedi) e seguiamo il match sui mille schermi (mega e meno mega) girovagando fra una marea di stands di merchandise (prezzi da sinagoga, come disse qualcuno anni fa!) e di roba da mangiare. Nonostante la calca e gli urlacci delle centinaia di ubriachi presenti (va detto che però il clima era quello di una festa, tutti mischiati, tantissime nazionalità e nessuna rissa; addirittura profusioni di scuse e di abbracci quando qualcuno si scontrava con un altro), riesco a vedere tutti e tre i gol e a quello svedese di Ibrahimovic esulto apposta come un cretino, fingendo che sia una rete segnata dal centravanti dell’Inter in un derby, facendo poi finta di disperarmi a quello del 2-1 spagnolo come se fosse l’Inter ad aver preso il gol dalla Juve! Ad un certo punto un cretino austriaco cade all’indietro e rovescia mezza birra addosso a me sulla schiena prima di sparire nel mucchio…io sento la voce del collega di Fantozzi al cenone di capodanno che dice “ragioniere, sò soldi!”. Intanto, darkthronianamente parlando, mi è venuta una “fame transilvana” e andiamo a mangiare in una piazza credo abbastanza rinomata (il cui nome non ricordo assolutamente), in un ristorante (nei cui bagni mi ripulisco alla bellemeglio) di specialità tirolesi; temevo che questi jodelers si nutrissero quasi esclusivamente di carne e pesce e che per me ci sarebbe stato poco o niente, e invece vengo piacevolmente stupito da una serie di piatti vegetariani davvero appetitosi: parafrasando John King, i tirolesi sul mangiare bisogna lasciarli stare! E pure il prezzo è congruo. Immancabile la torta Sacher alla fine, ovviamente. Dopo il caffè (avevano pure l’espresso, non per fare l’italianoallestero becero a tutti i costi, ma io a fine pranzo o cena ho sempre un disperato bisogno di un caffè così, se no mi sento incompleto!) ci rifacciamo un giro e finiamo in un bar dove due, con rispetto parlando, troione presumibilmente russe, ballano alla finestra di un locale. Locale in cui noi tre, ovviamente, entriamo e io filmo pure le due biondazze col mio fido LG per un video che poi mostrerò alla mia tipa al rientro a casa. Fra l’altro, nota di colore, a filmare siamo solo io e un ragazzino sui dodici anni che col suo video sarà andato avanti per settimane, suppongo ;-) (io alla sua età anche per mesi, và!). All’uscita dal locale il Mantovano e il Tazio, probabilmente ispirati dai balli delle pole-dancers, vogliono farsi un giro per conoscere qualche bellezza fra le numerose ragazze presenti (e devo dire che fra svedesine, spagnole, tedesche, locali, ecc.ecc. ce n’erano davvero parecchie), da buoni latin-lovers ed essendo singles; io, che al contrario sono ‘ammogliato’ e pure fedelissimo, gli lascio campo libero e, rimasto solo soletto, me ne vado in giro per il centro dove la festa impazza. Dato che non mi conosce nessuno, mi metto il foulard gialloblu in testa a mo’ di Rambo e dopo dieci minuti sto ballando una specie di saltarello abruzzese a braccetto con un croato sulle note di “Viva Espana” (….). Partecipo poi a trenini con elementi (99% maschi) di varie nazionalità durante hits tipo Culture Club (‘Karma chamaleon’) o Communards (‘Don’t leave me this way’) …come si noterà musica da frocioni, non a caso! Danzo da solo e me ne vanto, citando Elio, su hits rock dei 70’s tipo “Heroes” di David Bowie. Evito accuratamente i pochi italiani in giro (quasi tutti con look e atteggiamento alla Corona), che probabilmente mi scambiano per uno svedese-zingaro alla Ibra. Dopo un paio d’ore mi ricongiungo col Torello della Bassa e il Re del Tunnel (per l’inveterata abitudine calcistica del Tazio di tentare sempre il tunnel all’avversario nell’uno contro uno) davanti al ristorante dove avevamo cenato, ormai sono le due del mattino passate, e riprendiamo possesso del Dehler che spostiamo in un parcheggio pieno di camper appena fuori città. Ci mettiamo a nanna nel retro, io e il Mantovano nei due lettini a “piano terra”, il Tazio nel lettino stile mensola poco più di un metro sopra di noi. Alle cinque un gruppo di tedeschi ubriachi ed urlanti mi sveglia per la prima pisciata della notte (ricordo ancora una volta la mia tragica incontinenza!), poi mi chiudo dentro con la sicura temendo l’entrata nel Dehler di  qualche bonzone crucco, che avrebbe rovinato su di me che ero il primo vicino al portellone. Mi risveglio verso le otto e facendo un po’ di casino riesco a svegliare anche gli altri due. Colazione ancora in centro a Innsbruck e partenza verso le terme di Längenfeld, quel mega centro termale chiamato Aqua Dome. Lì passiamo circa quattro ore. Prima fra piscine di vario tipo (salata, allo zolfo -cioè odore tipo latrina di caserma-, fredda -che io evito accuratamente!-, con idromassaggi vari, ecc.ecc.) e il lunghissimo e strepitoso tubo/scivolo (che faremo almeno sei volte ora di fine giornata!). Poi entriamo nella zona sauna che qui è mista e che si fa nella maniera corretta, cioè senza costume. La prima che proviamo ha due livelli, tipo due anelli di stadio: Tazio saggiamente resta al primo dove la temperatura sale fino a 60°, io e il Mantovano (abituato alle temperature equatoriali della Bassa) optiamo per il secondo (più di 90°!). Non voglio fare l’ipocrita e confesso che non mi dispiace se oltre al relax posso vedere ed apprezzare qualche bella ragazza senza veli; l’unica donna apprezzabile (sui 45) esce subito dopo il nostro ingresso e i nostri compagni sono quindi una banda di russi (uomini) e una coppia sui settanta e passa di cui la lei ricorda paurosamente la mia professoressa di filosofia e storia al liceo, che era soprannominata La Vecchia. Dopo dieci minuti io, e per il calore terrificante, e per lo spettacolo osceno della Vecchia sdraiata che si massaggia delle mammelle più bovine che umane, sto per vomitare in nuca a Tazio che è sotto di me, per cui me ne esco saggiamente a fare la doccia. La seconda sauna è molto meno calda e ci sono anche delle donne giovani, carine e matematicamente accompagnate da aitanti fidanzati. Noi tre cerchiamo di non guardare troppo, ma come a Fantozzi e Fracchia, in un vecchio racconto cartaceo di Villaggio, ci finiscono gli occhi in nuca! Il Mantovano confesserà poi che più tardi, in una delle saune dov’era entrato da solo, ha dovuto camuffare con l’asciugamano un’ alzabandiera dovuta a delle presenze femminili decisamente interessanti! Terza sauna in compagnia di un gruppetto di russi sovrappeso e di alcuni omaccioni austriaci sui sessanta, poi bagno turco (c’è ancora la Vecchia, io esco quasi subito!), aromaterapia (dove mi assopisco pesantemente), piscina all’aperto con idromassaggio, quest’ultima tutta per noi: fra l’altro è la prima cosa che chi entra nella zona wellness vede, immaginatevi che bellezza l’impatto con noi tre cor papagno de fora…! Infatti dopo un po’ arriva una donna sui cinquanta, vede noi, fa finta di saggiare l’acqua e di trovarla troppo fredda e se ne va! Usciti dall’area-wellness non potevamo poi certo esimerci dal rifare per l’ennesima volta lo scivolo in compagnia dei bambini! Qui il Mantovano che è sceso per primo ha semi-travolto una bimba che era rimasta nella vaschetta d’arrivo assieme ad altri piccini; e difatti io che scendevo per secondo mi son visto quattro o cinque bimbi davanti che ho evitato per un pelo, dopo che per qualche istante mi ero figurato titoli di giornali locali tipo “è un italiano del Lago di Como l’ Erode dell’Aqua Dome”, titolo evitato grazie all’Ale che prima del mio arrivo aveva previdentemente fatto spostare i piccoli di quel tanto che bastava! Poi come terzo è sceso un Tazio urlante, ma questa è un’altra storia (io e il Mantovano, imbarazzatissimi di fronte a frotte di genitori, che facevamo finta di non conoscerlo). Alla fine dopo doccia in zona mista (in realtà tutti uomini!), ce ne andiamo e ci facciamo tutta una tirata (cito, come spesso faccio, il buon Guccini) da Längenfeld a Colico, anzi no, che io voglio fermarmi ancora dal kebabbaro turco; mossa quantomai sbagliata, ragazzi miei, dato che stavolta il panino vegetariano digerito senza problemi il giorno prima si trasforma in una colata di cemento nel mio malcapitato stomaco, tanto che sarò riaccompagnato completamente distrutto a casa (dove, dopo aver chiesto alla mia dolce metà quanto le sono mancato e avendone ricevuto come risposta un ‘non m’ero neanche accorta che eri andato via’…situazioni da sit-com di serie c in cui indugiavamo spesso, mi vedo venti minuti di Repubblica Ceca-Turchia prima di crollare).

 

CRASH BOX + MAZE – Mezzago (Mi), Bloom, 19 settembre 2008
Classico tardo pomeriggio domenicale di fine estate, quei momenti oziosi che non sai cosa fare (anche se ne avresti eccome di cose da fare!) e ti ritrovi a cazzeggiare su internet digitando sul browser di Goooooooogle quello che ti viene in mente al momento: da nomi e cognomi di amici che speri magari di trovare iscritti a qualche community di coprofili, o di amiche di cui speri di trovare siti personali con foto quantomeno softcore, a nomi di gruppi che ti riaffiorano alla mente dopo secoli, da riferimenti ad avvenimenti socio-politici dei tempi che furono a, ed è questo il caso, nomi di posti molto frequentati in passato per vedere se c’è una programmazione e se sì cosa passa il convento. Digito infatti “Bloom Mezzago” e vado sul sito del locale [www.bloomnet.org], o meglio centro multiculturale gestito da una cooperativa e che dall’87 in avanti è stato cinema, libreria, scuola (corsi di…tutto, praticamente!) e soprattutto sala concerti: dal sito cito Nirvana e Green Day pre-fama planetaria, Sepultura post-fama planetaria (sì sì, è giusto post, che prima di sfondare non erano mai usciti dal Sudamerica; non ricordo un loro live al Bloom ai tempi d’oro di entrambi i fratelli Cavalera), più una marea di bands Hardcore che cito a memoria, avendo visto gran parte dei concerti in questione, tipo R.K.L., 108, Murphy’s Law, D.O.A., Poison Idea, Madball, Down By Law, tralasciando le centinaia di bands italiche ovviamente! E non dimentichiamo poi serate metalliche come Napalm Death a fine 80’s, Cathedral, il duo swedish death Unleashed/Tiamat con gli elvetici Samael, l’accoppiata Brutal Truth/Fear Factory (qui purtroppo presenziai solo a quest’ultima). Ecco, come appunto appena detto, quella relativamente piccola sala concerti mi ha visto spettatore più o meno attivo (un paio di stagedivings da quelle ringhiere/transenne li ho all’attivo pure io!) per anni e anni (dal ’91 al ’96 soprattutto, poi sempre meno, complice la programmazione del Bloom spostatasi vergognosamente su lidi indie-folk-fricchettonate varie, rare eccezioni escluse), sempre e solo spettatore perché mai sono riuscito a suonarci (contrariamente ad altri gruppi di qua come Carrions N.N., Karsavina ed Unabomber)… Insomma, guardo svogliatamente il programma per il settembre 2008 aspettandomi, che so, robaccia tipo una cover band degli Inti Illimani composta da orrendi fricchettoni brianzoli oppure una band di etno-ragamuffin (non so se ne esistano sinceramente, ma mi auguro di tutto cuore di no!), e invece leggo: Venerdi 19 Settembre ’08, ore 22.00, ingresso libero: Crash Box + Maze.
Il meglio dell’hardcore italiano milanese: sul palco del Bloom scorre la storia del punk estremo italiano, dai primi ’80 ad oggi.
Ah però! Attenzione! Ok, so già che i Crash Box da qualche tempo si sono riformati e calcano con una certa frequenza i palchi del milanese, ma un po’ perché non sono ancora riuscito a vedermeli e un po’ perché qui sono accoppiati ai Maze (altro nome storico dell’hardcore meneghino degli 80’s/primi 90’s, anche se infinitamente meno conosciuti dei loro compagni di concerto), che a me piacevano un bel po’ (posseggo tutti i loro dischi…due, peraltro due 7” di cui uno pure split!), decido senza pensarci due volte di deputare la serata del 19 settembre alla trasferta in quel di Mezzago. Siccome il mio amico Alex a fine settembre si sposa e io al suo addio al celibato ho preferito Josè Mourinho e la sua prima in campionato a San Siro (l’ultra sofferto 2-1 al Catania, per la cronaca), per farmi perdonare invito il sudetto ad una specie di addio al celibato-bis in veste hardcore da celebrare in duo simil-gay. Alex accetta, paventando però la possibilità di portarsi dietro l’attuale convivente/sposa a brevissimo Silvia, cosa che cozza un po’ col clima da Hardcore anni 80/primi 90 della serata che, come chi ha avuto la fortuna/sfortuna di viverlo, era rigorosamente “pussy free” ;-) ! Nei giorni pre-concerto faccio un sondaggio via sms fra chi reputo potrebbe intervenire alla serata: c’è chi nemmeno risponde (spero per mancato ricevimento del messaggio, in caso contrario c’è già un Padan Kommando pronto a prelevare un noto veterano siculo-sondriese e un più giovane elemento dal look “partenopeo”!), chi lo fa ma in maniera negativa optando per una non meglio precisata serata al Castello Sforzesco (‘azzo Rocco che palle però da quando sei diventato l’ intellettuale principe del panc-accacì tricolore, eh ;-)!) e chi invece risponde che ci sarà (il Depla, per l’occasione affiancato dall’altro hardcore-vet Mele). Insomma, si arriva al 19 e, come un fulmine in una serena mattina primaverile, pacco clamoroso di Alex all’ultimo, per concomitanza imprevista di impegni pre-matrimoniali…va bè, Alex lo scuso, ma resta il fatto che adesso io rimasto solo soletto che cazzo faccio? Ormai ho deputato la serata a questo concerto, altro da fare non ho (oddio, magari dormire un po’, visto che nella settimana appena trascorsa ho tenuto la media delle sei ore per notte…), per cui decido di andare, al Sordiano grido di “chi si estranea dalla lotta è ‘n gran fijo de mignotta”! Sento Depla per sincerarmi almeno della loro presenza e dopo un monumentale risotto alla milanese (tributo ai due gruppi che sto per andare a vedere?) cucinato da me medesimo, verso le 20.30 salgo sulla sempreverde Punto verde e sciolgo gli ormeggi. La mia “amata” non è a casa per motivi di famiglia (sua), dubito comunque che mi avrebbe accompagnato; per un po’ accarezzo l’idea di reclutare un’amica a caso (beh, opzioni possibili: due, mica sono il Bassman io!) come “escort” per fare immagine coi presenti ed evitare anche situazioni abbastanza imbarazzanti tipo essere trovato da solo da persone conosciute (come poi puntualmente accadrà), ma poi alla fine decido di partire “solo, come ogni uomo e come è giusto che sia” (Lomas, 1998). Accendo l’autoradio/lettore dove è piazzato un cd-r con “Incognito” e “Don’t miss the train” dei No Use For A Name e nel buio settembrino raggiungo la statale, non prima di aver notato (non visto dall’interessato) il mio compagno di squadra Ivano a.k.a. Tazio uscire da un locale colichese in compagnia di un’allegra brigata da venerdì sera (cazzo, esordiamo domenica, cosa sono queste uscite stile Adriano/Ronaldinho? penso già preoccupato ;-) !). [invece vinceremo con un inaspettato 5-1, in cui il sottoscritto segnerà l’ “utilissimo” gol del 4-1 entrando dalla panchina. Tazio sarà fra i migliori…]. La superstrada è pressochè deserta, gli ‘Un nome è inutile’ (trad. libera) vanno via che è un piacere e qui succede una cosa strana o magari neanche tanto strana, fatto sta che mi sento proiettato indietro nel tempo, ma sul serio: la stessa strada, la stessa musica più o meno (i due album del cd sono datati ’90 e ’91), non la stessa auto ma quasi… mi manca qualcuno a fianco, che non credo di essere mai andato al Bloom da solo prima di stasera, ma gente, per me oggi è, che so, il 19 settembre 1994 (eh, magari lo fosse davvero, quattordici anni in meno – quattordici?!? cristo…!-, meno rogne per la mente, familiari più giovani e ancora in salute…beh, non pensiamoci troppo và!). Come avrebbe detto il Pomini la trasferta mi “becca bene” sempre di più! Ok, adesso c’è l’attraversamento di Lecco (che sia benedetto, che nelle ore di punta ti risparmia almeno un quarto d’ora di code, bestemmie e nervoso da ingoiare) che ai tempi non c’era, ma poi da Pescate in avanti la strada è ancora quella, pressochè identica. Sempre in mezzo ad un traffico inesistente passo davanti alla storica birreria La Tasca di Olginate, teatro di molti concerti Hardcore/Metal (bands locali e/o minori, s’intende) nei primissimi 90’s e a stento trattengo una lacrimuccia di nostalgia e poi, subito dopo Olgiate Molgora, quel night-club sulla sinistra (ti ricordi Marco?), allora mi pare si chiamasse Orchidea (che dicevamo sempre “ ’na quai sira en pasa dent!” –trad. qualche sera entriamo! …mai fatto!) e ora si chiama Favorit, ma per il resto sembra sempre uguale. C’è un cartello per Casatenovo…a me questo paese riporta sempre tristemente alla mente un ragazzo che comprava dischi dalla mia distribuzione proprio a metà/fine anni ’90 e della cui morte in un incidente stradale (travolto in motorino) ricevetti notizia dalla sorella (ho ancora la lettera di Ilaria da qualche parte)… Luca Ballabio si chiamava, ogni volta che leggo il nome del suo paese, dovunque egli sia gli mando un abbraccio. Una cosa fondamentale: per arrivare al Bloom (che è praticamente disperso in quella sorta di Midwest statunitense in miniatura che è la campagna brianzola -come ha argutamente scritto il Vandalo sul suo blog) io da secoli seguo una strada che imparai nel ’92 credo e che vista poi recentemente su una cartina della zona è un percorso oltremodo complesso e tortuoso (quando invece con un paio di strade in linea retta ci si dovrebbe arrivare lo stesso!), ma ce l’ho talmente stampata nella memoria e impressa nelle cellule che faccio sempre e solo quella! Oddio, mentre sto per lasciare la sicura strada statale, mi viene in mente che è dal 2003 che non scendo al Bloom…minchia, sono già cinque anni ?! Non è che mi sto fidando un po’ troppo del mio “tom tom” minemonico?? Mah, proviamoci, ormai sono in ballo! Intanto a darmi coraggio nell’autoradio sono arrivati i Propagandhi con un cd-r composto da “How to clean everything” e “Less talk more rock”. Esco quindi a Ronco Brianza, proseguo seguendo cartelli con nomi improponibili come Bellusco, Bernareggio, Aicurzio, Sulbiate…sì, hanno messo un po’ di rotonde in più, ma la strada deve essere quella giusta, vedo costruzioni e parchetti che riaffiorano da qualche parte della memoria dove erano stati seppelliti un lustro fa. C’è un tratto di strada illuminato malamente adesso, figuratevi quindici anni fa: tornavo da un concerto, non ricordo di chi, qualcosa di italiano, ma per il resto nebbia totale…come la vaga foschia che in quella notte del 1993 saliva ai lati della strada abbassando ulteriormente il livello di visibilità. Insomma eravamo io e il buon Luca “Mene” (a.k.a. Luca “Bazooka”, a.k.a. Luca “Glen”, ora felicemente accasato in Spagna con moglie e figli) e il sottoscritto stava come suo solito sproloquiando (anche qui non ricordo su cosa, ma è palese che stessi facendo quello!), guidando a velocità abbastanza sostenuta la storica Fiesta furgonata a due posti, quand’ecco che dalla foschia sbucano fuori due autostoppiste che si sbracciano per attirare la nostra attenzione; io sono troppo lanciato per fermarmi subito e in più mi arriva una macchina a culo che si disinteressa delle due, ma si interessa a “spingermi” da dietro. Luca è in crisi mistica e ripete come un mantra a bassa voce “fermati che sono due fighe, fermati che sono due fighe, fermati che sono due fighe”. Io, che da una fugace occhiata alle due ho memorizzato le seguenti informazioni: belle, teens, in cerca disperata di un passaggio, non rispondo nemmeno e cerco altrettanto disperatamente uno spiazzo in cui fare inversione…non ne trovo e ho sempre il maledetto a un metro dai miei fanali posteriori…finalmente dopo il passaggio a livello (un tragico passaggio a livello di una linea di ere dimenticate delle FFSS, dove una volta io e il Marco restammo fermi circa mezzora fino al passaggio di un merci che avanzava pachidermicamente a passo d’uomo anziano…) riesco a girare e a tornare indietro a razzo, mani strette sul volante e nocche bianche dalla tensione. Ripercorriamo 500 metri scarsi con la determinazione di due ricognitori in zona di guerra, ma le due sembrano essere svanite…ci rifacciamo quel tratto di strada almeno quattro volte su e giù, ma nulla…scomparse nella foschia. Eppure non era passata nessun’altra macchina, in nessuna delle due direzioni (tolto quel disgraziato di cui sopra che comunque aveva tirato più che dritto). A tutt’oggi non riesco ancora a spiegarmi cosa fosse successo…la spiegazione “fantasmi in Brianza” (teoria del Luca, su due autostoppiste falciate e uccise in quel tratto di strada anni prima che si ripresentavano occasionalmente agli automobilisti di passaggio…i Menesatti hanno sempre avuto una certa inclinazione per le storie misteriose e/o mistiche!) non mi ha mai convinto, che io almeno i fantasmi non me li immagino vestiti da zoccolette sedicenni del sabato (ma forse era venerdì) sera, però tutto può essere, anzi, se qualcuno ha avuto la stessa nostra esperienza mi scriva, che poi proponiamo la cosa a Voyager o Mistero! ;-) E intanto che ripenso a quell’esperienza paranormale (di normale c’era solo che come al solito non si era rimorchiato!), eccoci qua: lo svincolo vicino a quel cimitero, la stradina stretta in mezzo alla campagna (dove ho sempre sostenuto che due camion non riescono a passare incrociandosi) e finalmente il cartello Mezzago! Entro nel paesino festeggiando al grido di “B…. merda!” (cantato stile coro da stadio: era un classico mid-90’s quando, in giro per concerti da vedere o da fare, si trovava il posto, vi ricordate Alex e Marco? Ed era riferito ad un nostro conterraneo che generalmente riusciva a raggiungere centri sociali o locali del milanese vantandosi di non sbagliare mai strada). Passo davanti al mitologico Barabba (un infimo barettino adornato di immagini di santi vari!) e salgo la rampa d’accesso al parcheggio del Bloom. Spengo il motore e scendo augurandomi di trovare Depla e Mele già sul posto ed evitare così di girare in solitaria…scopro subito che ovviamente non sono ancora arrivati e, non riconoscendo per ora nessun volto fra l’ancora esigua folla, decido di darmi un contegno dando un occhio alla libreria; qui anni fa trovavi dischi (con moltissimo Hardcore e molto Metal), fanzines, magliette, ecc. Ora invece noto con raccapriccio che metà della stanza è occupata da fricchettonate varie (con tanto di quell’insopportabile olezzo di pseudo-incenso o quel cazzo che è), limitando il resto a una parete di libri e ad una manciata di cd usati… Inizio a spulciare fra i libri, qualcosa di carino fra quelli musicali (roba sul Boss Bruce Springsteen, sul compianto Syd Barrett, sul post-punk dei primi anni ottanta, ma costicchiano), titoli interessanti fra il resto (anche dei classici, da cui deduco che giri anche dell’usato) dove sono attratto da “Ratti” di Robert Sullivan, libro che tratta della presenza di questi animali a New York e della loro convivenza con l’uomo in maniera a metà fra l’indagine sociale, il saggio zoologico e un pamphlet di satira tipicamente moderno (io ho sempre provato un misto fra terrore, repulsione ed attrazione nei confronti delle pantegane, forse perché sono cresciuto in riva al lago dei 70’s/80’s quando i toponi erano una presenza fissa e costante fra scarichi fognari a cielo aperto nelle acque del Lario e marciapiedi con caditoie per l’acqua piovana che fungevano anche da vie di entrata/uscita per i “ratos de porao” colichesi!). Leggo qualcosina qua e là e pare meritare, solo che per 18,00 euro, come converremo poi io e il Mele, dovrei pretendere anche un ratto in omaggio che funga da radiosveglia mattutina con potenti squittii! Lo lascio lì ripromettendomi di ripensarci prima di andar via se nel frattempo non avrò bruciato il mio low-budget per la serata in qualcos’altro. Passo ai cd e mentre sto cercando di vedere se una ristampa rimasterizzata del primo incommensurabile album dei Clash abbia o meno delle bonus-tracks, vengo sorpreso alle spalle (e in piena attività nerd-solitaria, peraltro!) nientepopodimenochè dal Gabriel Pontello sondriese (cioè il Lele di RedBloodHands e LaCrisi, ex Eternit e altri) e dalla sua compagna che solo dopo varie battute di dialogo riconoscerò essere l’Annalisa (bè scusami ancora Anna, ma non ti vedevo credo dai tempi dell’ultima volta al Bloom se non prima); entrambi sembrano informatissimi sulle mie ultime mosse, sto per chiedere al Lele se per caso si è messo a svolgere attività da investigatore privato (tipo quelli pubblicizzati sui cartelloni stradali dalle mie parti, roba tipo “togliti ogni dubbio e contattaci”), ma scopro che è solo perché han visto l’Alex qualche giorno prima. Rimango un po’ a chiacchierare con l’Anna, visto che il Lele scappa a salutare qualcuno, poi mi squilla il telefono ed è l’amico Silvio per una cena che stiamo organizzando da mesi, ma che non riusciamo mai a concretizzare per l’impossibilità di radunare quattro persone nella stessa sera! Per capire quello che l’ex portiere della Chiavennese, nonché ex roadie della Rock & Dogs, sta dicendo devo uscire dal locale e, mentre sto conversando nel piazzale, ecco finalmente giungere Mr. Depla e il suo fido scudiero Mele, accompagnati da una tipa comasca (il cui nome o l’ho scordato o direttamente non l’ho mai saputo). Chiusa la telefonata è il solito turbinio di aneddoti, cazzate, ecc.ecc. a cui si unisce presto Dario (che a metà 90’s scriveva su “Dynamo” e suonava pure in qualche krishna-core band mi pare. Di persona io lo conosco stasera). Fra le altre cose non posso fare a meno di far notare la discretamente buona presenza di esseri femminili e fare il solito confronto col Bloom dei tempi! C’era una tipa, carinissima, ben vestita e dall’aspetto fine, ma soprattutto con una scollatura vertiginosa che nel ’94 avrebbe probabilmente provocato crisi isteriche e scompensi cardiaci agli hardcorers dell’epoca (io, ad esempio)! Si parla poi di Myspace e un filosofico Mele rileva giustamente che i rapporti che nascono via internet (in genere, non sentimentali) sono troppo veloci e superficiali e quasi tutti destinati a finire presto, anche perché “just a click away”, in confronto a quelli via lettera dei tempi che negli anni han creato solide amicizie a distanza proprio perché per mantenerli dovevi proprio essere motivato ed interessato: io ho la prova vivente davanti a me, cioè il signor Marco Deplano che conosco postalmente dal ’91 e che ricordo ancora di aver visto “live” con tutti i capelli ;-) ! Inizia intanto il primo gruppo: ah già, prima dei due nomi diciamo così “vintage”, c’erano altre due bands di formazione più recente, gli One Family e gli Zheros. Decidiamo di vederci i primi ed entriamo, ma appena prima del portone io trovo Gianluca (chitarrista dei bergamaschi The Infarto,Scheisse!, ex LaFalce) accompagnato, come la “leggenda/verità” dei primissimi anni duemila voleva, da due donzelle (la veterana Lia e la più giovane Lisa, o Luisa, o magari anche Laura, comunque un nome con la “L”…vabbè, se l’interessata legge: scusami ok? ;-) ). Mi fermo con loro per quattro chiacchiere fino al ritorno del trio Depla/Mele/Dario poco impressionato dal concerto della “Famiglia” di cui sopra. Saluto Gianluca e socie, ricordando al primo di portare i miei saluti al duo Carletto / Nat (che pure loro ormai non vedo da anni…) e mi lancio in una lunga discussione con Dario sui mensili hardcore da edicola (chi qui fa la battuta citando “Le Ore” merita solo del cemento in bocca, citando quel pistola del Ds del Catania), “Blast” e “Dynamo” (scoprendo che entrambi a tutt’oggi rileggiamo i numeri del primo come fosse la prima volta). Parentesi: secondo me, ignorando le solite critiche dal circuito, (in certi casi pseudo) duro e puro, del “do it yourself” italiota che fioccarono ai tempi, “Blast” fu un fantastico esempio di “fanzine da edicola” (ci scrivevano proprio fanzinari come Petralia, Moscarelli, Garripoli, Deplano stesso, ecc.ecc. oltre ad un nume dell’Hardcore/Metal da edicola come il Piccini, ex “HM!”), in un tempo in cui di Hardcore a livelli di stampa ufficiale c’era solo la grandiosa paginetta di Stiv Valli su “Rockerilla” e qualche recensione/intervista sul succitato “HM!”: esempio fatalmente destinato a spegnersi in breve tempo e purtroppo mai più ripetuto. “Dynamo”, primo buonissimo numero a parte (difatti l’unico che ho conservato), diventò presto una sorta di “Rumore” o anche peggio (anticipando quindi “Rocksound”), viste aberrazioni sulle sue pagine tipo fondi di Asia Argento da calci in culo con rincorsa, articoli su videogiochi, kickboxing, piercings, ecc. e sempre meno Hardcore/Punk underground. Io comprai qualche numero ancora, poi iniziai a sfoglicchiarlo di nascosto in edicola per leggerci le due/tre cose interessanti che c’erano, poi lo ignorai del tutto. Ricordo anche che mi feci fotocopiare dal Lele di cui sopra (corsi e ricorsi…) la pagina in cui Gianpiero Capra dei Kina recensiva ottimamente ‘Nessuno Schema # 6’ definendoci “gli Elio e le Storie Tese dell’Hardcore” o qualcosa di simile, dovrei andare a vedere e sinceramente al momento non ho mica voglia di cercare quel foglio!). Tocca ora agli Zheros e le ottime referenze che mi vengono esposte sia dal Depla che da Dario, mi convincono ad entrare a controllare di persona. Mi viene detto anche che gli Zheros sono nati dalle ceneri dei Reality, la hardcore band di metà anni novanta di cui da qualche parte dovrei avere il 7”. Ok, sono bravi, gran suono, ci sanno fare e sembrano pure tipi a posto: il cantante interagiva col pubblico esattamente come piace a me. Hardcore un po’ metallico, tempi veloci e tempi medi o pestati-lenti, però insomma ragazzi, io a fine concerto ho dimenticato in un nanosecondo quello che avevo appena sentito, e non è una bella cosa…per gli Zheros intendo! Decidiamo di restare nella sala concerti perché i Maze inizieranno quasi subito e mentre Depla & Mele si intrattengono con personaggi a me sconosciuti, io mi svacco su una sedia e faccio scorrere lo sguardo sul palco e nel locale…Quanti concerti visti qua però! Quante situazioni da raccontare ai nipotini (se mai ne avrò), tipo Jimmy Gestapo (Murphy’s Law) che finisce il concerto nudo e una tipa (che rimarrà anonima, ovvio) venuta al concerto con noi (io e gli storici veterani ora ultra-quarantenni Claudio e Aldo) che si rammaricava duramente di non averglielo visto perché troppo piccola di statura ed impallata dalle prime file (io che ero in primissima linea nel pogo durante l’omonima “Murphy’s Law”, ultimo bis, purtroppo ero riuscito a vederlo…); oppure il compianto Pig Champion, l’iper-obeso chitarrista dei Poison Idea che rimase “infrasato” (dialetto italianizzato per “incastrato”, lo uso perché secondo me rende meglio l’idea) fra le due ante modello saloon della stretta porta del cesso e che venne liberato solo a fatica; il tipo che dopo dieci secondi dall’inizio del gig dei Brutal Truth sale sul palco, spara un urlo gutturale senza microfono, si tuffa sulla folla, la folla si apre, questo rovina sul pavimento e se ne va dolorante; lo rivedremo due settimane dopo ad un altro concerto con un braccio ingessato! I tedesconi (-oni in quanto bestioni alti e grossi) Richies il cui bassista mi ferma per regalarmi un loro poster, io che allora colgo l’occasione per organizzare un’intervista via posta per ‘Nessuno Schema’ # 5, io che poi gliela mando, loro che non rispondono più e io che nella mia cameretta straccio il poster dei crucchi con disprezzo! Io e Alex che da veri “v.i.p.” (voraci immani piselli, citando Caccola/Booger in “La rivincita dei nerds 2”!) veniamo ammessi nel backstage (un buco, ad onor del vero) dall’amico Conco dopo un concerto degli Atrox: non ci aspettavamo certo di trovare le groupies, ma nemmeno Alex “Calboni” -all’epoca Mudhead e Burning Defeat- che ci tiene un seminario su porno e derivati finendo poi per uscire sottobraccio col sottoscritto delirando dell’apertura di bordelli a Praga (ed era la prima volta che lo vedevo!). Io e il Marco che per sbaglio arriviamo prestissimo la sera di 108 + Refused e che finiamo per fare due tiri a pallone nella sala concerti con quei bei biondini, all’epoca probabilmente minorenni, dei poi discretamente famosi svedesi (due/tre anni dopo ricordo che durante una pausa del turno notturno in Croce Rossa io e tre miei colleghi ci rechiamo nel pub adiacente alla sede e sugli schermi passa Mtv -Headbanger’s Ball suppongo- con un video dei Refused! E io che “broccolo” la mia compagna di turno Elena dicendole, “vedi quel cantante, io ci ho giocato a calcio insieme qualche tempo fa!”, immagino suscitando finto stupore e dandole un’immagine del sottoscritto da cacciaballe stile geom. Calboni, quello vero!). Fra l’altro tengo a sottolineare di aver giocato a calcio anche con Stefano Giaccone, quando in occasione della data morbegnese dei Kina del settembre ’93 venne improvvisata una sfida 5 vs. 5 nel campetto in erba adiacente la Colonia Fluviale; ricordo di aver servito un assist a Giaccone per un suo gol a porta vuota e di avergli detto ridendo: “i gemelli del gol!” per far leva sulla sua nota fede torinista, e lui di rimando dandomi il classico “cinque”: “Graziani-Pulici!”. Ok, niente a che vedere col mio socio ex-roadie Silvio (quello che più sopra mi aveva telefonato) che nelle interminabili ore pre-concerti ebbe occasione di giocare a calcio con almeno metà dei Deep Purple! Fra i miei incontri con dei “v.i.p.” annovererei anche quello con Troy Mowat, batterista dei 7 Seconds, che nei bagni del Leonca, dove eravamo entrambi in attesa che si liberasse un cesso, dà gentilmente la precedenza al sottoscritto. E quello con l’obeso Dino Cazares, chitarrista dei Fear Factory, fra l’altro proprio qui al Bloom, che mi approccia chiedendomi se mi fosse piaciuto il loro show e io, che dopo un pezzo me n’ero andato a guardare dischi e libri nel negozietto del locale, che mi salvo in corner rispondendogli con un fintamente entusiasta “yeah, it was great, man!”, accompagnato da un pollice in su. Continuando con altre “Bloom memories”, piazzerei dulcis in fundo il sottoscritto che ai Down By Law si presenta con capello lunghetto, camicia a quadri su ovvia maglia dei Dag Nasty di colore lilla/rosa, jeans ultra elasticizzato e Reebok alte da basket, col risultato di sembrare più un orrendo travone che un hardcorer! E poi quante macchinate, quanti compagni di “battaglia” per queste trasferte al Bloom (anche al Leonca, al Laboratorio, e in mille altri posti a dire il vero, ma qui siamo al Bloom e ci limitiamo a lui!): i suddetti Hardcore-vets Claudio e Aldo (+ amiche, vedi sopra) per Murphy’s Law e anche Green Day (a Bloom mezzo vuoto; e l’anno dopo suonavano in un Forum di Assago gremito!), altri veterani come Budda e Zorro dei Carrions N.N. più Germano (che ora vive in Russia) per Kina e Tempo Zero; un epico lunedì sera di pioggia scrosciante alternata a sprazzi di sole, io/Max (attualmente negli indie-rockers Milaus)/Luca “Bazooka” (già citato più sopra) per i D.O.A.; io, il suddetto Luca e Betty della ‘zine lecchese “Hey bitch got a thorn up your ass?!” per una serata “italian thrash” con Brain Damage e Kaoslord e in cui, casualmente o meno, coniai un neologismo che per anni fu un mezzo tormentone all’interno del nostro gruppo di amici (ecco, dovrei anche dirvi quale, ma mi sa che qualcuno se dovesse leggere si offenderebbe non poco!); e poi menzione speciale per chi può vantare il record di presenze dopo il sottoscritto, cioè l’ex collega di fanza Marco, e non dimentichiamo Alex (che stasera ha perso l’occasione di aggiungere un gettone), Alida (best female voice of the whole Valtellina), più (ma qui siamo già nell’ultimo periodo di fine 90’s) Diego, Lele, Renza, Rocco, ecc. Sperando di non aver dimenticato nessuno! E se tu che sei venuto/a con me una volta e che hai magari da ridire perché non ti ho nominato/a, non mi lasci far altro che citare nuovamente Totò: ma fammi ‘o piacere! Tutti questi ricordi e mi scappa da pisciare…vado al bagno e noto che gli adesivi dei miei Pubertas Morbegno che avevo appiccicato nel ’94 sono stati sepolti da miriadi di altri adesivi di bands più recenti….sembra di vedere gli strati degli alberi! Esco ed ecco che i Maze salgono sul palco: sono in tre, il chitarrista/cantante e leader/fondatore Gila (niente a che vedere col bomber di Parma, Milan e Fiorentina, of course), nella vita di tutti i giorni avvocato con studio in Piazza S.Babila (!!), dall’aspetto a metà fra il Dave Smalley epoca primi Down By Law e il Terence Hill di “Due superpiedi quasi piatti”! Il bassista è un barbutissimo elemento sovrappeso con maglia dei Social Distortion, più adatto a un gruppo “southern scum” tipo Antiseen che ad uno hardcore “di una certa classe” come i Maze. Il batterista è lo stesso degli Zheros, un tipo magro, rasato a zero e col pizzetto “goat-style”. Partono e, non ci sono cazzi, questo è l’Hardcore! Il primo pezzo non lo conosco nemmeno, eppure c’è qualcosa, sì il suono, lo stile, l’attitudine, ma alla fin fine credo sia semplicemente il feeling…questione di feeling, he he! Quello di un hardcore nato quando l’hardcore era ancora abbastanza fresco ed aveva un senso e che adesso viene emanato da chi in quegli anni ci ha vissuto (i Maze sono il Gila e basta, gli altri sono il condimento); forse sono cose che sento io che a modo mio quegli anni, in parte, li ho vissuti, boh? Insomma, pochi pezzi, ne riconosco due o tre dai due dischi, e chiusura con anticipazione dei Crash Box by cover mazeizzata dell’ hit “Nato per essere veloce”. Grandi davvero ‘sti Maze, non avrei mai detto (ai tempi non li avevo mai visti live); poi come dice il Depla all’epoca non li cagava nessuno perché privi di quei ritornelli da dito puntato sottopalco che andavano per la maggiore nei primi 90’s e in effetti la voce particolarissima del Gila e quelle trame chitarristiche “strane” non erano certo roba da presa rapida e da mucchi umani sul palco e sotto! Veloce puntatina al bar, CocaCola per i due straight-edgers comaschi della prima ora e cafferino per il sottoscritto, visto che generalmente a quest’ora sono già nel mondo dei sogni da un bel po’, ed ecco arrivare il momento per cui, tutto sommato, siamo qui! Crash Box. Va bè dai, chi mi conosce lo sa (citando Gioele Dix/Tomba), io sono cresciuto principalmente ad Heavy Metal, Punk ‘77 ed Hardcore (con poche digressioni fra Rock, Hard Rock, Pop e cantautorato), Hardcore soprattutto italiano. I Crash Box all’epoca dei miei primi passi nell’ambito hardcore erano sicuramente una delle top-bands tricolori: era appena uscito “Finale” (il loro disco migliore, a mio avviso), erano stati in tour U.s.a. (sfigato e raffazzonato quanto si vuole, ma pur sempre un tour U.s.a.) e nei tempi del cosiddetto crossover fra Hardcore e Thrash loro avevano realizzato una sorta di “crossover vivente” inserendo alla chitarra quel Tommy Massara leader dei thrashers meneghini Extrema (freschi reduci dal posto spalla agli Slayer nella storica data milanese del maggio ’87, con già fuori il 12” “We fuckin’ care” e che a breve avrebbero fatto uscire una cassetta sull’etichetta dell’hardcorer Vandalo, la W.t.t.d. Tapes….crossover chiama crossover! Il tutto prima di scadere in un becerissimo macho-pseudo-thrash che pare duri tuttora…), che sul succitato “Finale” la fa da padrone. Io, che tempo prima ne avevo letto una recensione su “HM!”, comprai quell’album (e a breve recuperai anche una registrazione di “Vivi!”, il 7” d’esordio), lo ascoltai a getto continuo per mesi e mesi (come facevo ai tempi coi dischi che mi colpivano parecchio, calcolando anche che avevo ore ed ore di tempo libero per farlo!), ma anche negli anni a venire non ho mai mancato di farlo girare almeno una volta ogni sei mesi e a tutt’oggi non ho ancora smesso del tutto! A quest’album ho legati almeno tre ricordi abbastanza insulsi, ma a loro modo abbastanza significativi, di cosa non lo so, ma significativi comunque! Il primo è quando ero in attesa della gita scolastica a Roma nell’aprile ’90, ero a casa ad aspettare l’ora di recarmi in stazione e non sapevo come ingannare il tempo: mi venne quindi un’ “ideona”, presi lo stereo portatile che avevo all’epoca (quei ghettoblaster radio + due piastre), lo caricai con la cassetta duplicata Crash Box “Finale” (e C.C.M. “Into the void” dall’altra parte, per la cronaca), misi il volume al massimo dei massimi e mi premetti una delle casse sull’orecchio sinistro: quasi alla fine del primo pezzo (‘Tempo zero’) dovetti allontanare di botto il radiolone perché avevo sentito un qualcosa al cervello mica da ridere, difficile da descrivere, ma fu come sentire un qualcosa di solido attraversare il cranio da parte a parte (evidentemente effetti dei decibels); prima di sentirvi proferire l’ovvia battuta “e allora sei rimasto rincretinito da allora”, devo ammettere che arrivai in stazione in uno stato stile trip che scemò definitivamente solo dopo la partenza del treno per Milano! Secondo aneddoto: “Finale” è un disco basilarmente di Hardcore abbastanza veloce, con belle melodie e bei ritornelli, ma sostanzialmente Hardcore, però c’è il melodicissimo brano “Sul filo del rasoio” (che con una produzione migliore e un po’ di marketing di contorno, anche oggidì potrebbe diventare un hit-single in cinque minuti) che a me e al mio amico Mauro faceva impazzire, tant’è che tentammo qualche volta di riprodurlo in versione chitarra + batteria per inserirlo poi nel repertorio covers della nostra oscena “punk” band, i Marones (vedi retrospettiva su ‘Nessuno Schema’ # 8, per chi ce l’ha); per la cronaca eravamo così scarsi che non ci riuscimmo mai… Terzo ed ultimo aneddoto, una cazzata vera e propria, ma che secondo me ha il suo perché: estate 1990, Zonca appena quindicenne in vacanza simil-studio in Irlanda; il futuro bassista di Karsavina, Pubertas Morbegno, S.N.P. e Milaus appena scopre lo stereo della famiglia locale che lo ospita ci piazza il nastro di “Finale” e mette il volume al massimo: rientra la padrona di casa e, inorridita, glielo fa togliere. Me lo raccontò lui, è una cosa da niente, eppure se a me qualcuno dicesse che in questo momento qualche quindicenne italiano in trasferta sta facendo la stessa cosa in un appartamento estero con un cd dei Gradinata Nord, io ne sarei decisamente esaltato…beh, credo anche il Maniglia, se mai leggerà queste righe! Ecco, il Maniglia. Marco Maniglia (che piace alla zia, alla mamma e alla figlia, come il Thè Meraviglia. Oppure La Legge del Maniglia, prima la madre e poi la figlia? Ma delle stronzate in rima come queste, ispirata una a quella marca di thè molto in voga all’epoca e l’altra a quel tormentone vagamente sessista, dite che al suo socio Stiv Valli non sono mai venute in mente?) era ed è i Crash Box. Fondatore, cantante da sempre e all’occasione pure batterista, socio di Stiv nella storica “T.V.O.R.” fanzine ed etichetta, il Maniglia è per quanto mi riguarda una fotografia-icona della Milano anni ’80 al pari di Bettino Craxi, Claudio Martelli e anche lo stesso Silvio Berlusconi pre-discesa in campo (….), di calciatori come Walterone Zenga e i fratelli Baresi, nonché di altre icone del panorama Hardcore (cito Stiv stesso o Gianmario dei Wretched). Nemmeno tanto invecchiato rispetto ai tempi il nostro sale sul palco in sobria maglietta del suo gruppo e cappellino, affiancato dagli altri tre Crash Box odierni: il chitarrista è quel Giulio già nella band ai tempi del secondo (e ultimo) Lp “Nel cuore” (’88), maglietta The Who, cappellino, bermuda, aspetto che ricorda terribilmente Barney dei Simpsons (se Giulio legge non si offenda, sappia che per me è quasi un complimento), gran tecnica e feeling: “bestiaaa se suona!” come direbbe un’altra icona della Milano degli 80’s, Massimone Boldi. Al basso un elemento relativamente più giovane con maglietta di Siouxsie & The Banshees, capello cortissimo e occhialini. Infine alla batteria quel Mauro dalle origini alto-valtellinesi (Teglio per la precisione) che i più ferrati (io, che me ne accorgo a fine concerto e chiedo subito conferma al Depla ricevendone risposta affermativa) ricorderanno dietro le pelli dei comasco/milanesi Mudhead nei primissimi 90’s (i Mudhead, cavolo, bel disco il loro “Brutal time”, qualcuno li definì pure “i Cro-Mags della Brianza”, ma io ogni volta che sento il nome Mudhead non posso far altro che pensare ad un terribilmente pecoreccio racconto del solito Alex “Calboni”, bassista del gruppo, a base di trombate post-concerto a quattro in quel di Bologna con cronometro alla mano ed amenità simili!), oltre che con Sottopressione ed Oltrecortina (la band post-Erode) negli anni a venire. Se coi primi tre gruppi la gente stava abbastanza lontana dal palco (tolti due o tre irriducibili/amici), ora le poche persone rimaste (già non ce n’erano molte, figurarsi adesso che è quasi l’una di notte…) si avvicinano allo stage; Depla e Mele si appoggiano alle transenne, io resto due passi indietro e non posso non notare con una punta di tristezza la presenza di capelli bianchi e pelate da pensionati in prima fila…d’altra parte sono/siamo quasi tutti “fans” di un’epoca che risale anche a più di vent’anni fa. L’immagine dei “dinosauri dell’Hardcore” (in luogo di quella classica dei dinosauri del rock) mi sale violentemente alla mente, ma faccio del mio meglio per scacciarla appellandomi allo sguardo carico del Maniglia! I Crash Box iniziano, se non ricordo male, con “Vivi!”, il pezzo: pogo neanche a parlarne, ma in molti cantano il testo e spunta qualche dito puntato. Sfilano i classici dei due albums, del 7” e addirittura del demo dell’83; Maniglia è un buon frontman, con pose ad effetto, ma non da rockstar dei poveri, e qualche urletto (“uuhh!”) forse di troppo, he he! Il suono non è bellissimo, ma è comunque ok. La band commette qualche errore di quelli che si sentono anche senza volerlo, un pezzo viene abbandonato a metà e non più ripreso, ma sono i Crash Box, cazzo, e non si possono né si devono discutere. Cosa me ne frega di qualche pecca tecnica quando suonano la mia amata “Sul filo del rasoio” e non fanno mancare nemmeno pezzi che adoro come “Finale”, “Veleno per voi” e “Il mio inferno” e quindi sono contento. Finale con l’hit “Nato per essere veloce” che, ricorderete, era stato appena coverizzato dai Maze [apro una parentesi per ricordare a voi lettori/lettrici che il mio fido collaboratore Rocco Del Nero si è laureato qualche anno fa con una tesi sull’Hc/Punk intitolata appunto ‘Nati per essere veloci’]. Sceso quindi “il sipario su questo glorioso finale” (citando proprio dal pezzo dei Crash Box), vedo che la libreria è chiusa (per cui il libro sui ratti resta giocoforza lì) e quindi conduco Depla e Mele presso la mia macchina dove rendo al primo la rarissima vhs di “Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno” (particolare film del ’74 con Paolo Villaggio fra comico, morboso e drammatico) che mi aveva prestato svariati mesi prima e passiamo un buon quarto d’ora a suon di cazzate e argomenti semiseri. Salutati infine i due “vets” comaschi che partono alla ricerca della loro autista, all’alba delle due del mattino lascio il parcheggio del Bloom e dirigo verso Colico. Nonostante la modalità-assonnata e i timori di sbagliare a ripercorrere il complesso percorso al contrario, riesco ad arrivare a Lecco senza problemi; ho qualche patema in più negli ipnotici tunnels della superstrada fra Lecco e Colico dove rischio di crollare addormentato almeno un paio di volte riprendendomi poi auto-schiaffeggiandomi, aprendo i finestrini e mettendo il cd dei Propagandhi a palla. Finalmente arrivo a casa che sono le tre e un quarto, per un soffio non volo a faccia avanti dopo aver inciampato maldestramente sui due scalini dell’ingresso (la lampadina della luce esterna è matematicamente bruciata qualche giorno fa e ancora non ne ho recuperata una di ricambio…), salgo in camera, mi “pigiamo” e in meno di cinque minuti cado addormentato e fino alle undici non ci sarò più per nessuno. Hardcore still lives on! (beh, in qualche maniera bisognava chiuderlo questo reportage, no ;-) ?).

 

BAD RELIGION – Milano, Alcatraz, 12 giugno 2010
Adoro i Bad Religion da quando una notte di fine 1989 a Stereodrome su Rai Radio Uno passarono il brano “We’re only gonna die” (primo pezzo del primo album “How could hell be any worse?” del 1982): fu amore a prima vista. Nessuna ragazza che abbia mai amato corrisposto (o che invece mi abbia spezzato il cuore) mi ha mai catturato in così pochi secondi come fecero Greg Graffin e soci! A stretto giro di tempo comprai il vinile di “No control” (terzo album, ’89) e lì l’amore diventò adorazione pura, visto anche il valore di quel disco di molto superiore a quello del primo. Ricordo una recensione sulla storica fanzine del milanese “Linea diritta” che iniziava così: “Merda, cazzo, culo! Questa è musica, questo è un gruppo e questi sì che sono testi intelligenti! Hardcore potente e veloce e allo stesso tempo melodico…insomma, da brivido”. Ecco, confermo e sottoscrivo! I Bad Religion si possono descrivere esaurientemente così, e ve lo dice uno che ha pure tatuato l’arcinoto loro simbolo della croce barrata su un braccio… Negli anni ho seguito e amato molto la band fino al periodo di “Stranger than fiction” (’94) incluso, poi, complici un paio di albums non proprio all’altezza e la dipartita del fondamentale chitarrista/compositore Brett Gurewitz, li ho un po’ lasciati da parte, pur continuando a consumare vinili, cassette e cd dei lavori compresi fra 1982 e 1994. Live li ho visti due volte, una nel ’93 vicino a Reggio Emilia (avevo mancato la data milanese del ’92 per concomitante impegno inderogabile e dovevo rimediare!) coi Raw Power di supporto, e una nel ’94 al Rolling Stone di Milano, con già Brian Baker (uno che ha suonato con una sfilza di grupponi da paura, cito Minor Threat, Dag Nasty, Samhain, Government Issue, per citare i più importanti in ambito hardcore, oltre che con gli hard-rockers Junkyard) in sostituzione di Mr.Brett. Poi, sebbene abbiano visitato l’italico suolo varie volte, non sono più andato a vederli, anche per i motivi di cui sopra. Però negli ultimi anni (quel tempo che sembra essere poco e invece ti accorgi che gli anni sono già sette o otto…) è successo che è rientrato Brett Gurewitz in formazione (almeno in studio, a volte anche live. Ai profani/e spiego che il sig. Gurewitz è anche il boss della Epitaph Records, grossa etichetta del settore, e aveva lasciato la band per seguire l’impresa come si deve, oltre a incasinarsi anche con qualche storiaccia di droga…), che i dischi più recenti sono tornati ad alti livelli e che quindi si impone di andare a rivederli live alla prima occasione. Che è nel 2008 in giugno o luglio, mi pare, ma, se non ricordo male, ci fu qualche legaccio da convivenza o forse una concomitante partita di qualche torneo di calcio estivo, fatto sta che non ci vado. E siamo al 2010 (e come detto più sopra, sembra passato solo un mese dall’estate ’08 eppure sono già due anni…), leggo sulla mia fonte principale di notizie hardcore/punk (la solita storica Milano Hardcore Messageboard) di questo concerto e mi dico: stavolta si va! Ora sono “libero come il vento” (per dirla alla Litfiba), niente tornei quella sera, ho pure cambiato casa (non c’entra nulla, ma lo segnalo), non vedo motivi per non presenziare, finalmente, dopo sedici anni dall’ultima volta. Oddio, un motivo potrebbe esserci: devo trovare qualcuno che mi accompagni, che trasfertare in piena Milano al sabato sera da solo non è ipotesi che mi alletti particolarmente. Chiedo al Rocco, ma è bloccato a Morbegno da motivi inderogabili, chiedo all’Alex, ma è impedito da impegni di famiglia…non è che mi restino molte altre alternative, se non andare a stanare gente che non sento da secoli, oppure chiedere di accompagnarmi a qualche amico/a assolutamente disinteressato/a alla cosa. Al venerdì mattina però sento il Bassman al telefono per altre cose, gli dico del concerto e lui a sorpresa mi dice “andiamo!” (a sorpresa perché so che il soggetto apprezza i Bad Religion, ma solo moderatamente, quindi non pensavo nemmeno di proporglielo). Problema risolto: il Bassman a.k.a. Matt Cigarette a.k.a. Tony Mapei prenderà anche la macchina, che volere di più? E così eccoci alle 19.00 di sabato 12 giugno, squillo sul mio cellulare ed eccomi in strada pronto ad essere caricato. Siamo in formazione da pattuglia della stradale, cioè solo io e Bassman, che ha lasciato la futura moglie Chiara a casa. E’ una bella serata di inizio estate, è un bel periodo per il sottoscritto, sto bene e le cose vanno bene (peccato che un mesetto dopo mi sarei innamorato, purtroppo a senso unico…); sull’autoradio sferraglia un disco di Danko Jones (rocker nero canadese che il Bassman apprezza parecchio: detto cd sarà l’unico ascoltato fra andata e ritorno in loop continuo), io sfoggio shorts, converse basse e una maglia degli Youth Of Today made in Rome by Er Petralia. Si chiacchiera piacevolmente di lavoro, di aneddoti di paese e di cantiere, di persone conosciute, di musica, e neanche il tempo di accorgercene che siamo già a Milano. Il Bassman sa perfettamente come trovare il posto e dove parcheggiare, contrariamente al sottoscritto che da solo sarebbe in preda al panico e alla blasfemia più spinta, trovando anche il tempo di indicarmi i “parcheggi dei pompini”, cioè dove delle cinesine si danno da fare pare per soli 5,00 euro (e a me viene in mente una vecchia uscita del Prof.Botka -fratello maggiore del Bassman-, quando a inizio 90’s gli dissero che in Estonia c’erano mignotte per l’equivalente di diecimila lire e lui, contrario al meretricio, commentò con “beh, ma diecimila lire mica è andare a troie, ci penso su…”), e in effetti vedo un paio di orientaline che vi si aggirano in atteggiamento inequivocabile. Noto fra l’altro che in questa zona e a quest’ora a Milano non solo il 95% della gente è straniera, ma faccio fatica a trovare degli europei in questo 95%! Gli italiani sono quelli che vanno al concerto, classicamente a gruppi varianti dal duo al quintetto, ci sono ragazzini bardati con maglie dei Bad Religion che al tempo della mia ultima volta nel ’94 avranno avuto, beh, potrebbero essere nati proprio in quei giorni! Arriviamo davanti all’Alcatraz, ci sono stands di magliette suppongo pirata e un discreto numero di persone, anche se hanno già aperto i portoni da un bel po’ visto che devono suonare Leeches e Peawees. Paghiamo i nostri 25,00 euro (minchia signor tenente! Però per i Bad Religion dopo più di tre lustri ci può stare, và!) ed entriamo. Sta suonando un gruppo che dallo striscione risultano essere gli spezzini Peawees; deduciamo quindi che i Leeches, che pur privi del Depla (vedi concerto del 2007 recensito sopra) ci interessavano lo stesso, abbiano già suonato… I Peawees sono in giro da una quindicina d’anni e hanno all’attivo un pugno di albums e svariati tours all’estero. Bassman si esalta quando gli dico che nascono da un fuoriuscito dai Manges, gruppo pop-punk di La Spezia che il nostro apprezza da anni e anni. Ci sanno fare i Peawees, un po’ Social Distortion, un po’ qualcos’altro, sono piuttosto derivativi, ma hanno un bel tiro e suonano bene. Affiora un po’ di monotonia verso la fine del loro set, ma gli do lo stesso un bel 7+ (in pieno Cochi & Renato style)! Il cantante/chitarrista è la star del gruppo, il Mike Ness ligure, eheh! Un filo più anonimi gli altri, anche se il secondo chitarrista per il Bassman ha fisico e look da elettricista di cantiere! Intanto sugli schermi posti ai lati della platea passano le immagini di Inghilterra-U.s.a., partita del mondiale sudafricano appena cominciato, su cui Greg Graffin poco dopo spenderà qualche parola prima di un pezzo: non ci ho capito molto come al solito, ma mi è parso dicesse che loro suonavano lo stesso anche se c’era la partita degli U.s.a. (nel senso che se ne sbattevano o clamorosamente invece i Bad Religion seguono il calcio?? Beh che dopo aver sentito di Ian MacKaye tifoso interista che telefonava a Corradone Riot per sapere i risultati, ormai non mi stupisco più di nulla!). Nel mio piccolo ricordo un live dei Gradinata Nord vicino a Udine nel 2002 la sera di Inter-Juve con nostra condizione di suonare dopo la partita (che io e Alex andammo a vedere in un bar vicino, fu l’Inter-Juve 1-1 col gol di Toldo in realtà con ultimo tocco di Vieri al 95°); ci misero ultimi e suonammo in effetti all’una di notte in pieno stile Johnny Thunders meets Darby Crash (r.i.p. tutti e due) davanti a quattro pazzi esagitati e ai componenti delle altre bands che battevano i piedi non per tenere il tempo, ma perché non vedevano l’ora di andare a casa! Nell’attesa, neanche troppo lunga, dei Bad Religion, vengo intrattenuto dal Bassman con perle di saggezza di vario genere, dal musicale al pecoreccio, come da tradizione del nostro. Ed eccoli i Bad Religion, accolti da una semi-ovazione! A leggere certi articoli internettiani veniva millantata per questo tour la formazione a tre chitarre con Brett Gurewitz e la cosa mi solletica mica poco. Nel ’95 trovai un cucciolo bastardino per strada (ne scrissi su ‘Nessuno Schema’ # 6) e lo chiamai Brett proprio in onore del Mr.Brett californiano. Brett è morto poco tempo prima di questo concerto, il 18 maggio, alla canina veneranda età di 15 anni e dopo aver condotto un’esistenza, sempre canina, paragonabile a quella di un Lemmy o di un Keith Richards! Mi si inumidiscono gli occhi a ripensare ad un amico che se n’è andato e con cui ho condiviso ben tre lustri. Lord Byron, il letterato inglese, cioè mica l’ultimo imbecille, scrisse sulla lapide del suo cane “In questo luogo sono deposti i resti di colui che possedette bellezza senza vanità, forza senza insolenza, coraggio senza ferocia e tutte le virtù dell’uomo senza i suoi vizi… Queste pietre segnano il posto di un amico. Uno solo ne ho conosciuto e qui riposa”. Ecco, sottoscrivo tutto quanto sia per Brett, sia per ogni cane di cui abbia pianto e di cui piangerò la scomparsa, sia per ogni quattro zampe al mondo. E rimanendo in ambiti culturali, il filosofo tedesco Schopenhauer disse che “Chi non ha mai posseduto un cane, non sa cosa significhi essere amato”, e non era certo l’ultimo idiota nemmeno lui. Mi sforzo di pensare ad altro, guardo sul palco…e che cavolo, ma Brett Gurewitz mica c’è! C’è Brian Baker piuttosto invecchiato con un look da giocatore di carte da bettola dell’Alta Valtellina, Greg Hetson pelatissimo, e basta. Vabbè, peccato. A completare la formazione Greg Graffin in leggero sovrappeso, ma per il resto uguale a sedici anni fa, Jay Bentley invecchiato, ma invecchiato bene, brizzolato, da belloccio del gruppo qual’è è diventato una sorta di George Clooney dell’Hardcore californiano. E infine il batterista degli ultimi anni, Brooke Wackerman, ben più giovane degli altri (wikipedia dice 32enne), tipico biondino made in California da telefilm tipo ‘Beverly Hills 90210’ o ‘The O.C.’. Prendono posto sul palco e a me viene in mente quando nel lontano settembre del ’94, all’ultimo live badreligioniano visto dal sottoscritto, mi presentai con una maglietta bianca su cui a uni posca avevo scritto una serie di massime dialettali assolutamente irriferibili! Ricordo anche di aver fatto qualche stage-diving o meglio mani a coppa di qualcuno-diving (visto che il palco era off-limits) e, durante uno di questi, di aver centrato la testa di uno spettatore col mio già al tempo malandato naso! E intanto, adesso nel 2010, i Bad Religion attaccano: si parte in quarta con “Do what you want” (da ‘Suffer’, 1988), il suono è però caotico e non migliorerà durante il resto del set, ma tant’è, a me va bene anche così. Si alternano pezzi recenti e grandi classici, anzi beccatevi l’intera scaletta (trovata su internet, quindi la copio e incollo e ve la sorbite tutta!): Do what you want – Overture / Sinister rouge – New dark ages – Recipe for hate – Flat earth society – Before you die – A walk – How much is enough? – No control – Requiem for dissent – Atomic garden – Epiphany – Suffer – No direction – L.A. is burning – Germs of perfection – Man with a mission – I want to conquer the world – Generator – Materialist – Fuck armageddon…this is hell – Along the way – Infected – American Jesus – Punk Rock song – 21th century digital boy – Sorrow. Come vedete, sono rappresentati pressochè tutti i dischi, eccezion fatta ovviamente per “Into the unknown” (quel tragicomico esperimento di pop-rock con tastiere dell’83, che comunque a me non dispiace, e provate un po’ a sentire le versioni hardcore live di un paio di quei pezzi che circolano su alcuni bootlegs!) e per “No substance” e “The new America” (i due albums un po’ sottotono usciti a cavallo fra fine dei 90’s ed inizio del nuovo millennio). Come sono stati i Bad Religion? E come volete che siano stati? Il solito treno, peccato solo per i suoni. Solita attitudine simpatica/anti-rockstar/un po’ paraculo, gran mestiere (Brian Baker è effettivamente un ottimo chitarrista), zero cadute di tono anche coi pezzi che conosco meno. Il Bassman suonava la cover di ‘American Jesus” coi Torakiki’s Revenge, band che durò tipo due mesi e un paio di concerti nel ‘95, io suonavo quelle di “Suffer” e “Give you nothing” coi Pubertas Morbegno l’anno prima, e ricordo altri locali, i Karsavina, alle prese con “No direction” nel ‘93…quassù abbiam sempre avuto un occhio di riguardo per la Cattiva Religione, altrochè! Il concerto finisce e noi ce ne andiamo, sono lì lì per comprarmi una maglia made in Naples nelle bancarelle di fuori, ma non trovo quella di mio gradimento fra i mille modelli presenti e quindi niente (di maglie dei Bad Religion ne ho già due, volevo quella del Tour del Trentennale, cioè questo). Secondo il Bassman i Bad Religion non sono tipi da groupies o eccessi vari, se li immagina quindi alle prese con qualche monumentale amatriciana o risottone alla milanese innaffiati da abbondante vino rosso, prima di crollare nei letti dell’albergo. Io concordo. Il ritorno scorre piuttosto tranquillamente, fra l’obbligato tour (ai lati della strada che percorriamo) delle varie postazioni del piacere che il Bassman mi illustra in dettaglio (zona trans, zona nigeriane, zona sudamericane, zona romene, ecc.ecc.) e il solito Danko Jones che sferraglia sull’autoradio. Arrivo a casa verso l’una, se non ricordo male, magari anche prima, e sì, ho passato una bella serata, che è poi la cosa che conta di più alla fin della fiera no? (dico fiera così introduco anche il reportage che segue a questo!).

 

FIERA DEL DISCO – Monticello Brianza (Lc), 1 aprile 2012
Domenica mattina di inizio primavera, bel tempo, temperatura mite. Tutte cose che invogliano ad uscire di casa per una bella gita fuori porta, no? E difatti io decido di buttar via tre ore della mia domenica scendendo, appunto in mattinata e in solitaria, alla Fiera Del Disco di Monticello Brianza (ad un’oretta scarsa di macchina da qui), scoperta grazie ad un flyer trovato all’ultimo Vinilmania. NoFx nell’autoradio e posto trovato senza il minimo problema: la fiera si svolge all’interno di un parco tipicamente brianzolo con tanto di bar degli alpini strapieno di (e gestito da) vecchiacci vocianti e con appeso al muro uno strepitoso cartello che chiedeva ai clienti di evitare o almeno limitare bestemmie, urla e alzate di mani sugli altri avventori (!!!). Fuori si sente ovunque un odore pungente di salamella e in genere da festa di paese o dell’Unità dei bei tempi del PCI… La fiera si trova a due metri dal bar, in una sala di grandezza media con all’interno circa una decina di espositori, gente che non mi sembra di aver mai visto a Vinilmania, ma essendo di questi almeno otto dediti a musiche a me abbastanza indigeste (classici italiani, etno, fusion, Sanremo, ecc.ecc.) non escludo possano essere degli habituès della convention. A me, hardcore-metal-punk-rocker, restano solo due stands: uno con ottima roba Punk-Hc-Metal, ma dai prezzi alti, molto alti, cristo! L’altro gestito da uno skin simile a quello di Torino che c’è sempre a Vinilmania (entrando in modalità politically correct-off e trasformandomi in avventore da bar di paese: “i skins i’è cuma i nègher e i cinès, i’è tücc istess!” – cioè, si assomigliano tutti fra loro) con tutti i dischi in offerta a soli 5,00 euro cad.!! Rock, Metal, Punk e Hardcore! Mi butto sgomitando, la gente era parecchia anche in rapporto ai pochi espositori, e mi prendo: Kina, l’lp live della serie ’Your Choice live’ (la Your Choice Records era un’etichetta tedesca che a cavallo fra 80’s e 90’s fece uscire una serie di dischi dal vivo, una parte dei cui proventi andò ad alcune associazioni per i diritti degli animali; fra le bands ricordo Scream, Melvins, Ripcord, Verbal Assault, Poison Idea ed Hard-Ons), unico vinile degli aostani che mi mancava, fra l’altro ancora incelofanato. Peggio “Alterazione della struttura”, pure questo ancora incelofanato oltre che in vinile verde, album del ’91 degli alessandrini Peggio Punx quando si vergognavano del suffisso ‘punx’ …misto di Hardcore e Funky/Crossover fatto anche benone, ma a me ridate pure “Cattivi maestri” e “Ci stanno uccidendo al suono della nostra musica”, thanx! Boomtown Rats “Boomtown Rats”, disco d’esordio dei punk-rockers irlandesi capitanati da Bob Geldof, credo sia una copia dell’epoca o comunque sull’album come data compare solo quella del 1977; la hit ‘Looking after number one”, che tanto allietò i miei diciassette anni, è su questo disco. E infine, The Unlimited, mini-lp omonimo ‘89 della garage-rock band toscana su Wide Records (visto tempo fa ad un Vinilmania a 55,00 euro!). E questi quattro dischi per soli 20,00 euro totali, e che cazzo! ;-) Messo di ottimo umore per l’affarone che ha dato un senso alla trasferta brianzola di questa domenica mattina, mi godo la fauna presente stilando mentalmente un’ipotetica classifica: i re indiscussi ed assoluti vincitori sono un padre alto 1.50 dal capello medio-lungo crespo ed unto, grassoccio e sudaticcio, vestito con giacca e pantaloni scuri, e con al seguito la figlia al massimo undicenne abbigliata con giubbetto di jeans pieno di scritte tipo fuck, fuck off, punk rock, bad girl (fra l’altro, senza essere tacciato di pedofilia, una ragazzina carinissima). Acquisti fatti da loro (o meglio da lui): un disco dei Led Zeppelin, credo un bootleg, altro non sono riuscito a vedere. Al secondo posto la A.O.R.-family (dove l’acronimo, lo dico per profani/e, sta per Adult Oriented Rock o, secondo alcuni, per Album Oriented Rock, genere molto in voga negli States negli anni ottanta): lui 55enne ben vestito con tattoos tamarri alla Jorma Kaukonen (il chitarrista dei Jefferson Airplane) che spuntano da sotto la magliettina alla moda, lei signora distinta ed elegante, al seguito tre figli normalissimi ed annoiatissimi. Papi si compra almeno dieci lp’s di indiscusso A.O.R./Hard Rock, fra cui ho riconosciuto dischi di Reo Speedwagon, Asia e David Lee Roth solista. Terzo gradino del podio per il sosia totale dell’amico biondo di Wayne nel film ‘Wayne’s world’, che però se ne va con un bell’ Ifix Tcen Tcen “Liquid party” a 5,00 euro…volevo complimentarmi stringendogli la mano, ma poi mi sono ravveduto. Prima dei non eletti la Jo Squillo della Brianza: tipa cinquantenne (se non oltre) con cresta punk, volendo anche passabile, magra e abbastanza in forma, ma…cristo, non sono cose da vedere la domenica mattina! ;-) Premio della critica alla coppia lesbo che pasteggiava a mortadella e salumi vari, abbuffandosi come due scrofe e facendo scorrere vinaccio rosso a fiumi. Ah, brutte forte, eh! Papo & Bassman sono più femminili di quelle due. Infine al bar degli alpini ho pure intravisto un tipo che assomigliava paurosamente ad Enrico Beruschi e, non escludendo potesse essere lui (visto che abita in Brianza), me lo sono studiato per un bel po’, ma ad un certo punto ha parlato col barista e dalla voce ho dedotto che non era “Beruscao”, purtroppo. Fra l’altro qualche annetto fa vidi il Beruschi originale ospite di un talk-show su Odeon Tv con in testa un cappellino dei Faust (il gruppo death/black capitanato da uno dei suoi figli): un grandissimo il Doctor Beruscus, altrochè!

 

CAMBRIDGE & DUXFORD AIR SHOW (U.K.) – 13 e 14 ottobre 2012
Agosto 2012, durante le ferie. Sono a cena dai miei una sera e mio padre mi dice che ad ottobre andrà un weekend in Inghilterra per assistere ad una manifestazione di aerei d’epoca assieme ad alcuni pazzi del comasco (tutti più o meno della mia età). Io penso subito che in Inghilterra non ci sono incredibilmente mai stato (in Irlanda e Scozia sì, ma in England proprio mai, pur avendo negli anni declinato, per svariati motivi, parecchi inviti per trasferte albioniche) e quindi rispondo, citando Pozzetto, “puttana eva, vengo anch’io!” (da “Il reduce”). Fortunatamente la cosa non mi creerà nemmeno problemi col lavoro perché si parte il sabato mattina e si rientra la domenica sera. Io non seguo per nulla il lato organizzativo, dico solo che mi farò trovare sotto casa all’ora che mi sarà indicata, con carta d’identità (il passaporto ho scoperto di recente essermi scaduto nel 2006…), qualche sterlina presa in banca e una borsa con: il cambio notturno, qualche medicinale per sicurezza (che ho già provato ad essere in giro a star male senza possibilità di trovare farmacie aperte, farmaci adatti, ecc.ecc.) e il mio “beauty-case” contenente spazzolino+dentifricio+deodorante+pettine, niente bagnoschiuma che decido di non fare nessuna doccia visto che si tratta poi di una sola notte (mi faccio un bagno la sera prima, quello sì), del sapone lo troverò di sicuro in loco. E poi c’è una cosa che mi piace molto di questa trasferta, cioè che vado in (più o meno) vacanza con mio padre dopo quasi trent’anni dall’ultima volta…sono quelle cose che non ti aspetti più che possano accadere e invece quando meno te l’aspetti…tipo la Champions 2010 dell’Inter per intenderci. E la presenza degli altri tre mi mette fortunatamente al riparo da siparietti stile “In viaggio con papà” con Sordi e Verdone! L’ultima volta in vacanza assieme fu un giro del cosiddetto Benelux (Olanda, Belgio e Lussemburgo) e c’era anche mia madre, la quale adesso è a casa, fra le altre cose ad occuparsi degli otto cani che i miei posseggono. Da quell’estate sono passati ventisei anni…ventisei… Quando guardo mia mamma e il suo viso dimostra tutti gli anni che sono volati via da allora, vorrei solo stringerla e dirle di non invecchiare, dirle che deve vivere per sempre. Idem per mio padre. Vorrei succedesse l’impossibile… Io ho la tendenza ad essere piuttosto puntuale, se possibile arrivo sul posto dieci minuti prima o, se devo aspettare qualcuno a casa, mi faccio trovare pronto con un buon anticipo. Ed è così anche per quel sabato mattina: la sera prima mio padre mi dice di farmi trovare sotto casa alle 6.45 e io alle 6.35 sono già vestito, sbarbato e seduto in poltrona con vista piazza (canticchiando mentalmente ‘Viaggio in Inghilterra’ dei toscani Strana Officina dallo storico mini-lp dell’84), per vedere quando arriva il mio compagno di viaggio. Il quale arriva, cosa su cui mai avrei scommesso un centesimo, memore di attese interminabili, e conseguenti ritardi, anche per andare ad importantissimi appuntamenti di lavoro, alle 6.40, attraversando la suddetta piazza in macchina sbattendosene altamente dei vari divieti… ‘Ah hell, he’s even more punk than me’ avrebbero detto i NoFx ;-). Caffè al K2 in centro paese e poi prendiamo la superstrada, gli altri arriveranno direttamente all’aeroporto di Orio al Serio; alla fine i pazzi di cui sopra sono soltanto tre, di cui uno cugino di DeAscentis (l’ex giocatore di Milan, Torino ed Atalanta). E’ una mattinata grigia, apatica, mi risuona in mente il verso “sulle strade della bergamasca lo spino brucia e la brasca casca” del rapper orobico Frankie Moneta. A Orio al Serio non ero mai stato, a parte per accompagnarci qualcuno un paio di volte (ma non ero entrato). Troviamo gli altri tre, uno (il DeAscentis) lo conoscevo già, gli altri li vedo per la prima volta, tutte persone decisamente simpatiche e a modo…certo ho scritto pazzi, nel senso di pazzi per l’aeronautica e dintorni, ovvio! Il viaggio si svolge in maniera tranquilla, anche perché io me la dormo per quasi tutta la durata. All’arrivo, espletate le formalità di ingresso in U.K., andiamo a recuperare la macchina a noleggio previdentemente prenotata dal Gualtiero e dirigiamo verso Cambridge dove prenderemo possesso delle camere del bed&breakfast che noto con piacere essere vicinissimo al centro, per cui potrò muovermi a piedi senza dover scarpinare troppo. Il b&b è gestito da un gruppo di persone di provenienza indefinita, a me piace pensare siano parsi/indiani come il compianto Freddy Mercury. Saliamo ad occupare le camere: i due Canclini e Gualtiero nella tripla, Igor e Fabio nella doppia. E’ la classica casa britannica riadattata a b&b, con aggiunte evidenti di servizi vari (il lavabo era nella stanza, dato che il bagno era già occupato da una mini-doccia e dal cesso, il solito Armitage Shanks ovviamente!), fili elettrici visibili qua e là, prese della corrente da scossa immediata…cose che qua da noi l’ASL metterebbe i sigilli in cinque minuti! Fra l’altro un po’ di svitol nei cardini delle porte non sarebbe male, dato che si sentivano cigolare pure quelle del piano di sotto… ma tutto questo lo dico per la cronaca, figurarsi, abituato in mille trasferte concertistiche a dormire per terra, in macchina o alla meglio su divani scomodissimi e al freddo, qui c’è il letto e il riscaldamento a manetta (tanto a manetta che nella notte bisognerà aprire le finestre!), per cui that’s all right! E oltretutto ai miei compagni di viaggio non uscirà una lamentela che sia una, per cui mi sa che sono come al solito io il rompicoglioni che nota tutte queste scemenze, eheh! Intanto il gruppo-aeronautica si organizza per andare a Duxford (ecco, la manifestazione si tiene vicino a questo villaggio di un paio di migliaia di anime disperso in mezzo alla campagna dell’East Anglia a circa venti minuti di macchina da Cambridge e dal nome che a noi italiani riecheggia quello del “mascellone”) e io saluto la compagnia, dato che il mio ruolo è un po’ quello dell’outsider e me ne resterò a Cambridge a visitare la città. Per cui, vestito da casual-hooligan come un personaggio sfigato di un libro di John King, me ne vado a piedi verso il centro con in mano una mappa del posto che mi ha dato il ragazzino al bancone del b&b. Vedo che qui vicino c’è il Coleridge Recreation Ground, vista la fama del defunto poeta inglese (ah, The Rime of the Ancient Mariner, a cui si ispira il pezzo degli Iron Maiden, è sua) immagino sia una fumeria d’oppio dove si ritrovano dei fricchettonacci, ma in realtà pare sia un parco con spazi per bambini e aree per giocare a calcio (cavolo, non ho le scarpe, se no quasi quasi mi aggrego a qualche gruppo che sta giocando e mi cimento pure nel calcio inglese, ha ha!). In zona c’è anche il giardino botanico…vi sembrerà strano, ma a me i giardini botanici piacciono, trovo piante e fiori a loro modo artistici, l’arte della natura, e mi piace vedere quante varietà esistono…senza comunque capirci un cazzo, ovvio, come quei pensionati che guardano mille partite di calcio al bar e ancora non hanno capito bene come funziona il fuorigioco…. Comunque il giardino è chiuso e apre solo fra un’ora e mezza, per cui passo la mano. Intanto ho anche fame, in effetti l’ora di pranzo è già passata da un po’ e dato che la Ryanair non serve cibo a bordo e che nello stomaco ho solo due caffè (uno a Colico e uno a Orio), decido che è il momento di intaccare il mio capitale in sterline e inizio a valutare le varie vetrine “mangerecce”; ci sono cucine da tutto il mondo, fuckin’ globalisation, quelle europee (italiana ovviamente, francese, spagnola), poi cinese, giapponese, turca, quelle coloniali indiane e pakistane, e la lista non finisce qui. Vengo attratto da un fish & chips in cui vendono anche veggie-burgers e opto per questo: patatine, hamburger di soia e una 7Up, pranzo versione light di quelli di cui si legge nei libri del suddetto John King. Dopo aver mangiato scambio due chiacchiere col gestore, un simpatico skinhead slovacco che tempo dieci minuti sta inveendo contro gli oligarchi russi e le varie mafie sviluppatesi nell’Est Europa dopo il crollo del comunismo…temendo che inizi a cantare canzoni di propaganda comunista in lingua madre lo saluto augurandogli buona fortuna col lavoro (e scherzi a parte, comprendo il suo astio). Riprendo a camminare, Cambridge è una bella città, pregna di storia e con un centro piccolo che mi girerò tutto a piedi. Su queste strade avevano camminato gli Users, quelli punk ‘77 di “I’m in love with today” (pezzo che il mio amico Mauro registrò alla radio a tarda notte, il programma credo fosse il solito Stereodrome, e che quando avevamo diciassette anni avremo ascoltato almeno cinquanta volte). Chissà che fine hanno fatto i componenti di quella band? Saranno ancora qui? Magari ne incrocio qualcuno camminando per il centro e non lo so. Syd Barrett, il cappellaio matto dei primi Pink Floyd, è nato e morto qui, e anche lo storico chitarrista floydiano David Gilmour viene da questa città. Mi imbatto nell’Iperal locale, cioè un mega centro commerciale su tre piani, dove espleto un’impellente funzione fisiologica, e da lì finisco in una piazza piena di mercatini. Sfoglio qualche vinile usato, fra cui una serie di bootlegs dei Clash, ma non compro nulla, niente per cui valga la pena di trascinare un sacchetto con dentro dei 33giri per due giorni e su un aereo. In un chiosco mi prendo un pezzo di torta e un bicchierone di caffè (quello tipo acqua del lavaggio dei piatti, diffusissimo dalle Alpi in su) e mi svacco ad un tavolino a guardare la gente che passa. Mi sento piuttosto stanco, periodo difficile in genere che mina testa e fisico, per cui me ne sto lì e osservo. Passa qualche bella ragazza, Cambridge è una città universitaria e attira gente da tutto il mondo (e non solo per lo studio, difatti accanto a me c’è una tavolata di ragazzine spagnole sui sedici anni, presumibilmente in gita scolastica o in vacanza), per cui non mancano le bellezze esotiche oltre a quelle locali. Ecco, all’età delle espanolite a fianco a me probabilmente avrei cercato di attaccare discorso con qualcuna delle passanti. Ricordo pomeriggi e serate del genere e mi viene in mente “bionda, rossa e nera ci ho provato tutta la sera, bionda, rossa e nera per scopare non ce n’era”, un pezzo dei rockers fascisti aostani VerdeBiancoRosso di ormai venti e più anni fa! Ecco, adesso è uno ‘sport’ che lascio ad altri. Mando giù il beverone simile a caffè e mi rimetto in marcia, seguendo un po’ la mappa e andando soprattutto a cazzo. Come dicevo prima, c’è la storia ad ogni angolo, e c’è anche un cimitero di una chiesa, quello classico con le lapidi storte e le date di morte 1760 o giù di lì, esattamente a fianco dell’ingresso di un supermercato. Un po’ come se qui da me a fianco del Comprabene (ora Conad) non ci fosse la Pasticceria/Bar Dolcemania, ma una serie di tombe separate dal mondo dei vivi da una sola ringhiera in ferro alta meno di un metro. Sono moltissimi i colleges, puoi entrare nel parco interno, dare un occhio e poi uscire; ne vedo tre, di cui non ricordo assolutamente i nomi, ma è sempre la stessa cosa: prato curatissimo, architettura imponente e…basta, almeno per un ignorantaccio come il sottoscritto, ovvio! Intanto inizia a piovigginare e io decido che per il momento ne ho abbastanza e ritorno al b&b per svaccarmi un po’ sul letto. Prendo una strada diversa per il rientro, così vedo un’altra parte della città, stavolta leggermente meno centrale, con le classiche case a schiera britanniche. Salgo in camera e mi butto sul letto, sonnecchiando fino al ritorno dei miei compagni di camera. Cazzeggiamento e uscita per cena in pub/ristorante/discoteca tutto in uno, il che significa mangiare (nel mio caso una specie di pasta ai formaggi abbastanza gradevole) con tutt’intorno gente che sbevazza pinte di lager e balla allegramente musica sparata a volumi da incubo che rende difficile la conversazione al nostro tavolo. Dopo la cena io me ne resto in giro da solo per un’oretta, voglio vedere anche la parte della città che ancora non avevo visitato. E fare solo quello, non ho né forza né voglia di infilarmi in qualche localaccio magari per provarci con qualche inglesotta che a una certa ora non sa più nemmeno come si chiama… cose già fatte in vita mia, sia chiaro, ma non stasera. Per cui sotto una lieve pioggerellina cammino sulle sponde del fiume Cam, quello delle gare di canottaggio (la famosa rivalità Cambridge-Oxford) e rientro al letto&colazione, dove mi addormenterò quasi di botto precipitando in un vortice nero di sonno senza sogni. Sveglia alle otto di mattina, abluzioni varie, colazione inclusa nel prezzo nella quale consumo un cafferone più tre o quattro fette di pane tostato con marmellate varie (già troppo per me che la mattina prendo solo un caffè al bar più due fette biscottate che sgranocchio mentre guido da casa al suddetto bar), dopodiché lascio mio padre a tenere banco in tavola ed esco io a chiamare mia mamma prevedendo che lui se ne dimentichi! Prendiamo i bagagli, paghiamo e usciamo per dirigere su Duxford, da cui andremo direttamente in aeroporto al termine della manifestazione. Ecco, io avrei anche passato la giornata a Cambridge, avrei dormito qualche ora in più, me la sarei presa comoda e avrei cazzeggiato un po’ in centro a cercare un regalino per mia mamma (al momento l’unica donna della mia vita, ah ah), solo che poi qualcuno doveva venire a prelevarmi e, nonostante ci fosse anche la disponibilità, capisco che sarebbe solo una seccatura per il gruppo e per chi verrebbe a prendermi sacrificando un’ora di manifestazione solo per me. Quindi dico che mi aggrego, in fin dei conti ci sono i vari padiglioni dell’Imperial War Museum e qualcosa di interessante anche per me ce lo trovo di sicuro. E’ una bellissima giornata, ma tira un vento gelido, per cui non sarà il massimo starsene quasi sette ore all’aperto. Arriviamo e, dato che la manifestazione inizierà più tardi, ci si fa un giro per i suddetti padiglioni; gli altri ne han già visto qualcuno ieri pomeriggio, ma oggi sono aperti tutti e sei e ce n’è veramente per tutti i gusti! Io, a pelle, non sarei così attratto da simili esposizioni (anche perché non conosco assolutamente gli aerei), però man mano che mi addentro in questi giganteschi hangar (dopo un’oretta giro da solo, visto che fuori inizia la manifestazione e gli altri vanno in prima linea) trovo sempre più motivi di interesse. In ordine sparso cito una serie di aerei dell’aviazione militare statunitense i cui nomi ricordo di aver sentito spesso in varie puntate di ‘X-Files’, già che siamo in tema le foto dei foo fighters (non la band americana ovviamente, ma quei fenomeni aerei inspiegabili avvistati dai piloti militari durante la seconda guerra mondiale nei cieli d’Europa e sopra il Pacifico, da cui appunto il gruppo di Dave Grohl ha preso il nome), una mega sezione dedicata alle battaglie proprio nel Pacifico (cosa che mi ha sempre interessato molto), le immagini della corsa alla luna (sempre che questa sia stata effettivamente raggiunta!), i vari bombardieri (i bomber che diedero il nome all’album dei Motorhead e di cui una riproduzione campeggiava sopra il palco della band inglese), il Concorde in “persona”, i prototipi degli aerei del futuro (e qui ritorno ancora ad ‘X-Files’), l’area dedicata alla guerra delle Falklands/Malvinas (capitolo tuttora molto sentito da queste parti!), un pezzo del cosiddetto enorme ‘cannone di Saddam’ (incompleto. Pare che il dittatore iracheno avesse in mente di lanciare ordigni atomici sui paesi vicini e su Israele, si parla di fine anni settanta/primissimi ottanta, e che, con la complicità dell’occidente, stesse costruendo una specie di cannone commissionando pezzi qua e là a varie ditte sparse in giro per il mondo, in modo che nessuno capisse a cosa servivano; sembra che l’Italia avesse contribuito con qualcosa costruito dall’Ansaldo), la sezione navi e sottomarini, immagini e reperti di quella Guerra Fredda che tanto fredda pare non fosse (almeno nelle zone di confine della Cortina di Ferro), ecc.ecc.ecc. Non avete idea di quanti aerei, ordigni, navi, ecc. hanno dato nome a bands e titoli hardcore/punk/metal! Devo anche mangiare qualcosa e trovo una specie di tavola calda all’interno con tanto di posto a sedere, mi faccio scaldare un panino enorme al cheddar con delle non meglio specificate erbette, ci aggiungo un muffin alla vaniglia (in onore della Oi! band svizzera, i Vanilla Muffins appunto ;-) !) e una bottiglietta d’acqua e, come diceva il compianto Corrado, il pranzo è servito (vi ricordate la versione del jingle del programma che ne diedero gli Ifix Tcen Tcen su “Liquid party”?). Concludo col solito cafferone che faccio quasi fatica a finire e, prima di uscire, scambio qualche battuta con la simpaticissima padrona, una donna sui settanta che mi spara un paio di nonsense tipicamente inglesi da fare invidia ai Monty Python! Fuori dai padiglioni ci sono vari stands: memorabilia, associazioni di reduci, uno addirittura con un arzillo e vecchissimo ex ufficiale (stimo sui centoventicinque anni….scherzo, ma novanta li aveva tutti) che partecipò ad un film di guerra anni cinquanta e che a Duxford firmava i poster della pellicola. Mi aspetto da un momento all’altro la presenza di Bruce Dickinson (che oltre ad essere il cantante degli Iron Maiden è pure un pilota di linea. La passione di Bruce per l’aviazione, ispirata pare da uno zio ex Royal Air Force, è stata espressa negli anni in alcuni pezzi dei Maiden tipo “Aces high” e “Tailgunner”) o di Lemmy dei suddetti Motorhead (grande appassionato e collezionista di memorabilia della seconda guerra mondiale), ma vengo deluso e mi rifugio nel negozio/libreria vicino all’entrata dato che soffia un vento decisamente freddo e di star fuori a guardar volare aerei d’epoca, che manco so cosa siano di preciso, non mi pare un’idea saggia. Il negozio è comunque fornitissimo: merchandise a palate, dalle riproduzioni di poster e cartoline di propaganda (io me ne compro un paio che invitano gli inglesi a cibarsi di vegetali in tempo di guerra, la seconda mondiale, e me le appenderò in cucina al ritorno), ai modellini in scala dei vari aerei, a tonnellate di dvd documentaristici, per arrivare ad un numero impressionante di libri ovviamente scritti nell’albionico idioma. Perdo quasi mezzora a guardare i libri, il cui 90% è ispirato dagli eventi della seconda Guerra Mondiale; sì, in effetti, ancora oggi a quasi settant’anni di distanza e nonostante buona parte del mondo (americani in primis) non abbia mai smesso di essere in guerra, quella per noi europei dell’ovest rimane LA guerra. E vedo libri struggenti che trattano di famiglie smembrate dal conflitto, raccolte di lettere dal fronte, quotidianità stravolta nelle città e nelle campagne durante i periodi bellici, storie di animali domestici in tempo di guerra, accanto ad altri libri più documentaristici su questa o quell’altra battaglia. E anche qui vedo qualcosa che ha a che fare col mondo della mia musica: un libro chiamato Mission Of Burma (sulla campagna, nel senso militare del termine, in Birmania fra il ’42 e il ’45, ma il libro si chiama come il gruppo post-punk di Boston dei primi 80’s) e un altro intitolato The Doughboys (cioè il termine informale con cui si indicavano i soldati americani, stavolta nella Prima Guerra Mondiale, ma anche il nome di una pop-punk band canadese attiva fra fine ottanta e primi novanta). Poi con alcuni volumi zeppi di foto di atrocità varie non può che venirmi in mente il famoso pezzo dei Discharge, “Realities of war”, e realizzo che, ok tutto molto interessante, ma, detto banalmente, speriamo di non viverla mai in prima persona una guerra (calcolando che purtroppo le guerre non finiranno mai)… Mi sposto su una sezione dedicata al conflitto nel Pacifico e non posso fare a meno di notare che nel negozio girano parecchi giapponesi…chissà se i loro bisnonni combattenti avrebbero mai immaginato una scena come questa? Pensando a quanto può fare lo scorrere del tempo trovo finalmente un regalo per mia mamma, cioè uno di quei magneti da frigorifero con la scritta Duxford e un bombardiere stile quello del disco dei Motorhead: lei adora questi magneti, spero adorerà anche questo non propriamente in linea con gli altri che ha appiccicati sul suo frigo! Intanto la mia attenzione viene attirata da delle ragazzine giovanissime vestite da militari con tanto di basco, mi viene in mente “Women in uniform” degli Iron Maiden (anche se, per la cronaca, la loro è una cover di una hit degli australiani Skyhooks, band anni settanta), ma qui siamo più sul “girls in uniform”, anzi “little girls in uniform”! A tutt’oggi non ho ancora capito chi e cosa fossero (c’erano anche dei ragazzini vestiti uguali, a uno non davo più di dodici anni), forse cadette/i di qualche accademia che funge anche da scuola superiore? Boh! Nel frattempo mi telefona il mio vecchio chiedendomi dove fossi che mi avrebbe raggiunto subito, dato che fuori si gela e gli altri tre si confermano dei pazzi visto che non mollano la postazione. Ci troviamo e mi dice che al centesimo aereo si era simpaticamente rotto i coglioni e aspettava solo di veder volare un enorme bombardiere/fortezza volante che volerà in effetti solo verso le sedici, fra l’altro condotto da un aviatore vicino agli ottant’anni! Ci piazziamo quindi sulle sedie della libreria a discutere di aneddoti storici, passione che ci ha sempre accomunato (storici, nel senso di ‘dalla seconda guerra mondiale inclusa in avanti’). Poi esco pure io a veder volare il bestione ed in effetti devo ammettere che lo spettacolo è notevole. Visto questo è il momento di andare in aeroporto, il trio ha subito per ore un freddo da urlo e il riscaldamento raggiunge livelli da forno crematorio, tant’è che quando io stavo ormai per mettermi a torso nudo loro stavano appena iniziando a scaldarsi! Riconsegniamo la macchina e decidiamo di andare direttamente in zona gates sottoponendoci subito alla tortura di una fila lunghissima e snervante per il check-in, durante la quale inganno il tempo scambiando un po’ di sorrisi con una giapponese una decina di persone dietro di noi, carina ma dall’espressione somigliante a quella del Chino Recoba! Al check-in mi sequestrano il deodorante che all’andata era passato senza problemi, ma almeno salvo un tubetto di dentifricio appena iniziato (all’Igor ne faranno sparire uno per un paio di centimetri in più…size does matter!). Mangiucchiamo qualcosa e saliamo su un aereo strapieno per un viaggio di ritorno che passa fra chiacchierate e tentativi di dormire. Arriviamo che piove a dirotto, recuperiamo le macchine e, dopo un’oretta, vengo scaricato davanti a casa (con mio papà che poi si rifà al contrario la piazza chiusa al traffico, ovviamente!) alle ventitre e trenta: non male, con la sveglia alle sette riuscirò a dormire abbastanza per affrontare un lunedì di pioggia battente e di vento gelido…